Il linguaggio trombettistico di Idrees Sulieman: linee di fuga e radici sonore

Idrees Sulieman
Sulieman si colloca stilisticamente come figura di cerniera, ossia vicino per grammatica e sintassi ai giganti afroamericani del primo dopoguerra, ma capace di assimilare e rielaborare suggestioni transatlantiche, soprattutto sul piano timbrico e nella gestione delle dinamiche, segnando così un percorso divergente da quello di molti coevi.
// di Francesco Cataldo Verrina //
La traiettoria artistica di Idrees Sulieman, nato a St. Petersburg il 7 agosto 1923 con il nome di Leonard Graham e scomparso nella stessa città il 23 luglio 2002, si colloca all’incrocio fra la parabola del bebop e la diaspora musicale afroamericana verso l’Europa della seconda metà del Novecento. Come per altri strumentisti d’eccellenza – da Don Byas a Lucky Thompson, da Dexter Gordon a Kenny Clarke – la scelta di stabilirsi stabilmente oltre Atlantico costituì insieme un atto di emancipazione dalle costrizioni e dalle umiliazioni del sistema segregazionista statunitense, nonché un passo potenzialmente rischioso in termini di visibilità internazionale, segnando un distacco dalla scena newyorkese, ancora allora percepita come epicentro insuperato della creatività jazzistica.
Formatosi al Boston Conservatory, Sulieman acquisì solide basi tecniche che, nella prima giovinezza, misurò all’interno di compagini come i Carolina Cotton Pickers e l’orchestra di Earl Hines (1943-1944), in pieno periodo bellico. L’incontro con Mary Lou Williams determinò un sodalizio di rilievo, preludio a una tappa storica della sua carriera, ossia la partecipazione, nel 1947, alla prima sessione di registrazione di Thelonious Monk per la Blue Note, documento sonoro che lo consegna già come interprete dotato di una voce definita e di una dizione strumentale nitida, seppur saldamente radicata nei modelli di Dizzy Gillespie, Fats Navarro e Clifford Brown. Gli anni successivi lo videro transitare nelle orchestre di Cab Calloway, Count Basie e Lionel Hampton, nonché condividere il palcoscenico e lo studio di registrazione con figure cardine del modern jazz, da Coleman Hawkins, con cui incise «The Hawk Flies High» (Riverside, 1957), a Randy Weston, senza trascurare le collaborazioni con Gene Ammons, Art Blakey, Clifford Brown, Teddy Charles, Max Roach, Mal Waldron, Tommy Flanagan, Eric Dolphy, Sahib Shihab, Dexter Gordon, Thad Jones e Joe Henderson. Due incisioni del 1957, «Three Trumpets» con Donald Byrd e Art Farmer, e «Interplay For 2 Trumpets And 2 Tenors» con John Coltrane e Bobby Jaspar, sanciscono il suo inserimento in contesti jazzistici di alta caratura. Il 1961 segnò il punto di svolta: una tournée scandinava con Oscar Dennard si trasformò in un radicamento stabile a Stoccolma, seguito, dal 1964, dal trasferimento a Copenaghen. In quell’ambiente culturale, Sulieman divenne solista di punta della Kenny Clarke–Francy Boland Big Band fino al 1973, trovando nel circuito europeo, comprese le orchestre radiofoniche, un terreno fertile per un’attività continua, benché meno riverberata dal punto di vista mediatico. Le incisioni a suo nome restano esigue, a parte un LP per la Columbia svedese (1964), due per la SteepleChase (1976 e 1985), oltre alla partecipazione al monumentale «Aura» di Miles Davis (1985), in cui la sua tromba si inserisce in un tessuto orchestrale di forte impronta coloristica.
Come già sottolineato, Idrees Sulieman occupa una posizione singolare nel panorama trombettistico del jazz postbellico, collocandosi in una zona di transizione tra il linguaggio bebop più ortodosso e una concezione del fraseggio già proiettata verso la rarefazione timbrica e l’elasticità formale degli anni Sessanta. Se lo si accosta ai coevi afroamericani – ad esempio Fats Navarro, Clifford Brown o Kenny Dorham – emergono affinità evidenti nella matrice parkeriana della costruzione melodica: uso serrato delle linee cromatiche, spiccata padronanza del registro acuto, e una costante tensione verso la risoluzione armonica. Tuttavia, rispetto a Brown o Navarro, il suo fraseggio appare meno monumentale e meno cantabile in senso lirico, privilegiando invece una scansione più segmentata e un ricorso frequente a figure sincopate che interrompono la linearità del discorso. In questo, Sulieman mostra una parentela con Dorham nella capacità di insinuare pause, spostamenti d’accento e articolazioni sottili, ma con una brillantezza timbrica meno vellutata e più incline ad una certa tagliente chiarezza. Nel dialogo con trombettisti non afroamericani dell’epoca – si pensi a Dizzy Reece (giamaicano di nascita ma europeo d’adozione), a Duško Gojković o persino a Chet Baker – il contrasto si fa più netto. Sulieman non abbraccia mai l’atteggiamento intimista e quasi cameristico tipico di Baker, né la ricerca di un fraseggio continentale levigato come quello di Gojković. Piuttosto, mantiene una proiezione sonora decisa, eredità diretta del bebop originario, ma innestata su un controllo del vibrato e dell’emissione che, soprattutto dopo il suo trasferimento in Europa, si apre a influssi di ordine timbrico più ampi, frutto di un’interazione continua con musicisti scandinavi e olandesi. Una divergenza sostanziale rispetto a molti colleghi sta nel suo uso della dinamica. Sulieman tende a modulare con cura i piani sonori, passando da un attacco squillante e penetrante ad un suono più rotondo e trattenuto nel giro di poche battute, senza scadere in contrasti teatrali. Questa duttilità gli permette di inserirsi tanto in contesti hard bop quanto in situazioni più sperimentali, pur senza mai tradire l’ossatura bebop del suo vocabolario. Sulieman si colloca stilisticamente come figura di cerniera, ossia vicino per grammatica e sintassi ai giganti afroamericani del primo dopoguerra, ma capace di assimilare e rielaborare suggestioni transatlantiche, soprattutto sul piano timbrico e nella gestione delle dinamiche, segnando così un percorso divergente da quello di molti coevi.
Oggi la figura di Idrees Sulieman, osservata retrospettivamente e proiettata in un confronto con trombettisti contemporanei, rivela un reticolo di affinità e divergenze che va oltre la mera appartenenza storica, per entrare in un dialogo più sottile di poetiche e prassi esecutive. Con gli afroamericani odierni – ad esempio Ambrose Akinmusire, Marquis Hill o Keyon Harrold – il punto di contatto principale resta l’attenzione alla plasticità timbrica. Come Sulieman, questi musicisti concepiscono la tromba non solo come veicolo di virtuosismo, ma come strumento dalla voce cangiante, capace di passare da un registro radente e penetrante a un’emissione sospesa, quasi afona, senza soluzione di continuità. In Akinmusire si ritrova la stessa capacità di interrompere la linearità del fraseggio con inserti quasi spoken, mentre Hill condivide la tendenza a sfruttare pause strategiche e modulazioni dinamiche per costruire tensione narrativa. Tuttavia, rispetto a loro, Sulieman resta più ancorato ad un’architettura melodica derivata dal bebop, con una predilezione per l’articolazione nitida e per la risoluzione armonica, mentre i contemporanei afroamericani spesso dissolvono o sospendono il senso tonale in favore di una spazialità più aperta e meno centrata su progressioni canoniche. Sul versante dei non afroamericani – da Avishai Cohen a Enrico Rava, fino a Mathias Eick – le affinità si spostano verso la cura quasi calligrafica del suono e l’uso di silenzi strutturali. Rava, come Sulieman, sa alternare un attacco squillante a un timbro vellutato in pochi istanti, ma inserisce questa dinamica in un contesto lirico e mediterraneo, distante dalla tensione bop che ancora permea Sulieman. Cohen condivide invece con lui un’attenzione al dettaglio timbrico ed alla micro–variazione dell’intonazione come strumento espressivo, ma lo fa in un contesto narrativo più frammentato, dove l’idea di linea melodica si dissolve in cellule episodiche. Eick, infine, incarna una rarefazione scandinava che Sulieman non ha mai pienamente adottato, pur avendo frequentato a lungo ambienti nordici, al punto che il suo approccio resta infatti legato a una proiezione sonora decisa, a tratti persino assertiva. La divergenza più netta tra Sulieman e molti contemporanei, afroamericani e non, sta nella gestione della complessità armonica. Sulieman la affronta con una grammatica derivata dall’impianto parkeriano, trasformandola in slancio narrativo e coerenza lineare; i trombettisti di oggi tendono invece a destrutturare le coordinate tonali e a lasciare che le scelte melodiche siano guidate più dall’istante timbrico e dal paesaggio sonoro complessivo che da una logica armonica preordinata.
Idrees Sulieman s’inscrive in una traiettoria storica legata alla tradizione bebop, erede diretto del lascito di Gillespie, Brown e Navarro, e caratterizzato da un fraseggio articolato, fluido e ricco di modulazioni armoniche che rispettano la struttura canonica del jazz afro-americano. La sua tromba evoca un’eleganza sobria, un’equilibrata tensione tra rigore formale e improvvisazione, in cui l’intenzione comunicativa è veicolata attraverso un linguaggio sonoro raffinato e coerente, fedele al contesto dei grandi ensemble con cui collaborò, quali la Kenny Clarke-Francy Boland Big Band. Il suo percorso europeo è contraddistinto da un’attenta assimilazione del contesto scandinavo, senza però rinunciare a una forte identità stilistica, che privilegia la chiarezza tematica e la coerenza formale. Angelo Olivieri, trombettista contemporanea, attivo dagli anni Novanta, rappresenta invece una figura che coniuga un radicamento nel linguaggio hard bop con una spiccata propensione verso le influenze più moderne e contaminazioni contemporanee. La sua tecnica trombettistica si caratterizza per un fraseggio opulento e vigoroso, spesso permeato da inflessioni più aggressive e un uso più libero dell’ornamentazione e del timbro, che conferiscono una maggiore intensità espressiva. Olivieri tende a privilegiare una dinamica di improvvisazione più fluida e meno vincolata a rigide forme armoniche, facendo emergere un linguaggio più individualista e a tratti sperimentale, riflettendo le trasformazioni del jazz italiano e europeo degli ultimi decenni. Dal punto di vista armonico-formale, Sulieman aderisce prevalentemente a strutture consolidate, in cui la progressione II-V-I e le forme canoniche costituiscono la spina dorsale dell’esecuzione, mentre Olivieri esplora sovente progressioni più articolate, con incursioni in territori modali e alterazioni che aprono a una più ampia libertà tonale e ritmica. Il fraseggio di Olivieri si fa talvolta più ricco di tensioni dissonanti e accenti ritmici irregolari, assecondando un linguaggio jazzistico che ha subito l’influenza del post-bop e del jazz europeo contemporaneo. In termini di rapporto con il contesto europeo, entrambi i musicisti si sono confrontati con ambienti musicali diversificati, ma mentre Sulieman è stato parte integrante di una scena europea in formazione che cercava di conciliare la tradizione afro-americana con l’identità locale, Olivieri si è inserito in un quadro in cui la sperimentazione e la ricerca individuale hanno assunto un ruolo centrale, testimoniando un’evoluzione stilistica e culturale che si distacca dal rigore classico per abbracciare la contaminazione e il rinnovamento.

Questo confronto, dunque, mette in evidenza come Idrees Sulieman e Angelo Olivieri, pur condividendo la comune appartenenza al mondo trombettistico europeo, incarnino due epoche e due concezioni del jazz profondamente diverse: la prima ancorata ad un rigore formale e ad una tradizione ben definita, la seconda più aperta alla sperimentazione e alla libera espressione, riflesso delle trasformazioni culturali che hanno investito il jazz in Europa negli ultimi decenni. In tal senso, il dialogo ideale tra le loro figure si configura come un continuum storico e stilistico che attraversa le molteplici sfaccettature del linguaggio jazzistico. L’analisi comparata del rapporto che Idrees Sulieman e Angelo Olivieri intrattengono con la figura di Lee Morgan, così come con le soluzioni collettivistiche che si avvicinano al linguaggio soul-funk, consente di delineare interessanti traiettorie interpretative e stilistiche, capaci di restituire le molteplici sfumature dell’evoluzione del jazz per tromba in ambito europeo ed afro-americano. Lee Morgan, icona indiscussa del hard bop, fu artefice di un linguaggio trombettistico in cui la spinta ritmica, la forza espressiva e la penetrante capacità melodica si coniugavano con un’adesione strutturale a forme compositive caratterizzate da groove marcati e impasti timbrici tipici del soul-funk. Tale orizzonte sonoro, che rivoluzionò la percezione del ruolo solistico e collettivo nel jazz, si riverbera diversamente nelle esperienze di Sulieman e Olivieri. Idrees Sulieman, pur radicato in un codice bebop fortemente influenzato da Dizzy Gillespie e Clifford Brown, mantenne una certa distanza dalle sperimentazioni soul-funk e dalla veemenza groove-oriented tipica di Morgan. La sua esperienza europea, soprattutto all’interno di ensemble come la Kenny Clarke-Francy Boland Big Band, predilesse un equilibrio formale in cui le parti collettive erano gestite con precisione orchestrale, senza tuttavia rinunciare a una certa vivacità ritmica e a una sensibilità verso l’innovazione stilistica. Nel suo modo di intendere l’interplay, la tromba assume un ruolo più camaleontico, capace di integrarsi nel tessuto sonoro senza invadere lo spazio collettivo, pur mantenendo una brillantezza melodica che richiama la tradizione hard bop, ma senza una spinta groove e funk spiccata come quella di Morgan. Al contrario, Angelo Olivieri sembra avvicinarsi maggiormente all’estetica morganiana, soprattutto per la sua apertura a soluzioni collettivistiche dove il ritmo e il groove diventano elementi centrali della costruzione musicale. Nel suo modus agendi si percepisce una maggiore enfasi sul fraseggio ritmico e sull’articolazione di motivi che dialogano con l’energia del soul-funk, inserendosi in un contesto in cui la tromba non è solo strumento solista ma parte di un organismo sonoro più ampio, caratterizzato da spazi ritmici dilatati e pulsazioni funkified. Le sue improvvisazioni spesso incorporano riff ossessivi, call-and-response e dinamiche da jam session che rivelano l’influsso diretto di Morgan e della sua capacità di fondere virtuosismo e groove in un continuum fluido e coinvolgente. In sintesi, mentre Sulieman preserva un’attitudine più ortodossa e composita, rispettosa delle dinamiche di un jazz orchestrale che privilegia la coesione formale ed il rigore armonico, Olivieri abbraccia con maggior decisione un’estetica più fluida, vicina alle sonorità soul-funk e a una dimensione collettiva in cui il groove diventa motore propulsivo della musica. Tale differenziazione riflette non solo le rispettive genealogie musicali, ma anche la mutata condizione culturale e artistica del jazz europeo attraverso le sue varie stagioni, confermando la poliedricità di un linguaggio che si reinventa costantemente pur mantenendo nodi di continuità con il proprio passato.
Il primo punto di approdo, per comprendere la statura di Idrees Sulieman, è «The Hawk Flies High» (Riverside, 1957), dove la sua tromba si inserisce in un mosaico orchestrale dominato dalla figura di Coleman Hawkins, in quel momento impegnato a riaffermare la propria autorità di patriarca del tenore di fronte alla nuova generazione. In questo scenario, Sulieman appare come un interlocutore che non cerca la sopraffazione timbrica ma un incontro dialettico, quasi socratico, con la tessitura grave e terrosa di Hawkins. Le sue frasi, scandite con un vibrato misurato e un fraseggio che alterna slanci melodici a brusche interruzioni, agiscono come punti di luce su un fondale pittorico di ampie pennellate armoniche, in cui la sezione ritmica incalza con una pulsazione costante, simile ad un carrello cinematografico che avanza senza fretta ma senza esitazioni. L’impianto armonico di questo disco rientra in una relazione fra struttura bop e spazio per l’innovazione tematica, dove il tema di apertura viene edificato su una progressione di accordi diatonici intervallati da passaggi cromatici che rimandano al linguaggio di Charlie Parker. Sulieman privilegia una fraseologia in cui l’alternanza tra intervalli diatonici e cromatismi crea un effetto di tensione-risoluzione, con un uso sapiente di cadenze plagali e modali che dilatano il respiro. La forma complessiva rispetta schemi standard a 32 battute, ma l’uso di sostituzioni tritonali e alterazioni di settima aggiunge colore e imprevedibilità, valorizzando il dialogo con Hawkins e la sezione ritmica. Nello stesso anno, «Three Trumpets» (Prestige, 1957), con Donald Byrd e Art Farmer, costituisce un laboratorio sonoro in cui la tromba jazz, moltiplicata in tre personalità, si offre come uno specchio a più facce. La scrittura e le improvvisazioni evitano il rischio della mera esibizione virtuosistica, optando per una tessitura armonica in cui le linee s’interfacciano come personaggi dostoevskiani in un salotto claustrofobico: ciascuno dotato di voce propria, ma inevitabilmente condizionato dalla presenza degli altri. La coesistenza di tre trombe impone una scrittura contrappuntistica che sfrutta voicing distribuiti su registri diversi per evitare sovrapposizioni dissonanti. L’armonia si regge su un giro di II-V-I allargato, con estensioni di nona e tredicesima che arricchiscono il tessuto sonoro. Le improvvisazioni, pur rispettando la forma canonica del tema e del chorus, introducono modulazioni temporanee verso tonalità parallele, creando un gioco di luci ed ombre armoniche. Sulieman si distingue per l’abilità nel mantenere un equilibrio tra tensione e rilascio, spesso sfruttando cromatismi ascendenti che si risolvono in sequenze scalari discendenti, offrendo così un’architettura melodica organica e fluida e manifestando un senso della misura ed un controllo dello spazio che lo distinguono. Le sue entrate sono calibrate come apparizioni laterali in un film di Antonioni, in cui il silenzio e la sospensione contano quanto il gesto stesso. Sempre nel 1957, «Interplay For 2 Trumpets And 2 Tenors» (Prestige) lo vede al fianco di John Coltrane, Bobby Jaspar e Donald Byrd, in un assetto cameristico che appare quasi un’esercitazione di filosofia dialogica: quattro voci che si incrociano, talvolta convergendo in un unisono compatto, talvolta diramandosi in direzioni divergenti come le strade di un quartiere parigino al crepuscolo. Il quadrangolare favorisce una dialettica armonica complessa, in cui l’interazione fra trombe e sassofoni tenore da vita ad uno spazio polifonico ricco di sovrapposizioni. La forma strutturale si articola spesso su progressioni modali, con sezioni in cui l’assolo viene accompagnato da pedal point che accentua la sospensione tonale. Le progressioni II-V sono talvolta allungate da passaggi cromatici ascensionali e discendenti, e i fraseggi di Sulieman tendono a inserire note di passaggio ed alterazioni che rinvigoriscono il parenchima accordale senza snaturarne la coerenza. Si nota inoltre un uso raffinato del contrappunto fra i trombettisti, i cui temi si sviluppano seguendo un’eco imitativa, come in un dialogo barocco rivisitato in chiave bop. La progressione armonica diventa un territorio mobile, mai del tutto fissato, in cui l’improvvisazione di Sulieman agisce come un attore di teatro capace di restare nel personaggio anche quando il contesto scenico muta all’improvviso, pur non imponendo la propria narrazione, ma la lasciandola emergere per accumulo, in un gioco di progressiva rivelazione.
Dopo il trasferimento europeo, l’album «Now Is the Time» (Columbia Svezia, 1964) rappresenta il momento in cui Sulieman rinegozia la propria identità di solista al di fuori della geografia jazzistica statunitense. La componente emotiva appare filtrata da una chiarezza espressiva quasi nordica, dove le linee melodiche si distendono con un nitore che ricorda certe inquadrature di Bergman, asciutte ma capaci di contenere tensioni sotterranee. In questo lavoro europeo, la componente armonica diviene più rarefatta e minimalista, riflettendo l’influenza del contesto scandinavo. Le progressioni sono meno condizionate dai cliché del bebop tradizionale, con aperture ad intervalli di quarta giusta ed uso frequente di accordi sospesi, che suggeriscono un’atmosfera contemplativa. La forma tende a dilatarsi, favorendo l’uso di pedali armonici ed ostinati ritmici che fungono da base per l’esplorazione melodica di Sulieman. L’uso delle scale modali e dei cluster sonori, pur mantenendo un equilibrio tra dissonanza e consonanza, produce un effetto sospeso e talvolta etereo, che sembra proiettare l’ascoltatore in un paesaggio sonoro di chiaroscuri metafisici. Ed è proprio l’uso degli intervalli maggiori e delle cadenze ritardate che crea una sensazione di supance, mentre le collaborazioni con musicisti scandinavi – meno inclini a frasi idiomatiche americane – stimolano un lessico più essenziale e spigoloso, quasi un diario di viaggio scritto con inchiostro sottile ma indelebile. Infine, «Groovin’» (SteepleChase, 1985) sancisce la maturità estrema di un musicista che, pur senza cedere alle mode, assorbe un senso del tempo dilatato, simile alla temporalità che Tarkovskij imprime nei suoi film, tanto che il suono si fa più contemplativo, le frasi si aprono in pause meditative, e la scelta delle note privilegia l’essenzialità rispetto all’opulenza. La presenza di colleghi di lunga data, avvezzi ad un interplay intuitivo, trasforma il disco in una conversazione tra vecchi amici, dove il sottotesto risulta più eloquente delle parole esplicite. Il supporto accordale si articola su un impianto formale meno rigido, con strutture aperte che favoriscono un’interazione più libera tra i musicisti. Le progressioni II-V-I rimangono il cardine, ma spesso sono dilatate da modulazioni laterali e cromatiche, con un uso marcato di alterazioni che amplificano la ricchezza timbrica. La tromba di Sulieman si avvale di blue notes e microtoni che conferiscono una dimensione espressiva più ampia e stratificata. I fraseggi risultano meno incalzanti e più meditativi, con pause prolungate e uno sviluppo lineare che si apre in spirali melodiche. Gli accordi sono trattate come paesaggi da attraversare lentamente, lasciando che ogni modulazione riveli una sfumatura emotiva nuova, non lontana dall’idea proustiana di memoria involontaria, tanto che l’armonia si fa specchio di un linguaggio maturo, nel quale l’interplay viene concepito come conversazione silenziosa, dove la sospensione ed il vuoto assumono valore pari alla nota suonata. Attraverso questi cinque capitoli discografici, la tromba di Idrees Sulieman si rivela non tanto come strumento di rivoluzione stilistica, quanto come voce capace di abitare contesti diversi con la stessa discrezione autorevole di un narratore onnisciente, sempre presente, mai invadente, in grado di legare il proprio discorso al flusso collettivo senza rinunciare a una riconoscibile identità.
La parabola discografica degli ultimi anni conobbe un affievolimento, complice un generale rallentamento dell’attività negli anni Novanta. La morte, avvenuta per carcinoma vescicale nel luglio 2002 presso lo St. Anthony’s Hospital della città natale, chiuse l’esistenza di un musicista che, pur senza aspirazioni di rivoluzionare il linguaggio della tromba jazz, seppe coniugare rigore formale, precisione timbrica ed un senso della misura alieno da ogni ridondanza. La sua vicenda rimane emblematica della condizione di quegli strumentisti che, pur dotati di statura artistica indiscutibile, pagarono con una minore esposizione critica la scelta di porre la qualità della vita e la continuità lavorativa al di sopra delle logiche centripete del mercato musicale statunitense.
