Sprazzi di Umbria Jazz 2025

// di Marcello Marinelli //
LEDISI, YELLOWJACKETS & KURT ELLING (omaggio ai Weather Report) Arena Santa Giuliana 15 luglio 2025
Questa non sarà solo una semplice recensione di concerti, sarà una lunga storia. Io vi ho avvertito, quindi siete ancora in tempo a ritirarvi ma ricordate che, se vi ritirate dalla lotta, siete ‘fiji de ‘na mignotta’ come dice il famoso detto. D’altronde non c’è niente di male a essere ‘fiji de ‘na mignotta’, quindi potete ritirarvi senza sentirvi umiliati. A Roma ‘fijo de ‘na mignotta’ è un complimento. Umbria Jazz, la nota manifestazione musicale, uno dei festival più famosi al mondo, iniziata nel lontanissimo 1973, quest’anno festeggia il 52esimo compleanno. Io ci andai per la prima volta nel 1976 e da allora sono sempre tornato, saltando poche volte l’appuntamento con la rassegna. Il festival, nel corso della sua lunga storia, ha cambiato pelle più volte, ma è inevitabile quando si parla di una storia lunga più di mezzo secolo. Ovviamente, vista l’offerta e la mole di concerti, non si può assistere a tutti gli eventi, anche perché adesso, rispetto ai primordi di quando la manifestazione era gratuita, i concerti costano parecchio. Per vederne tanti bisognerebbe accendere un mutuo e una volta ‘acceso’ un mutuo poi come fai a spegnerlo? Semplice: bisogna chiamare i pompieri, per spegnere un mutuo servono gli idranti. Lo so, è il mio solito vizietto di divagare, è più forte di me, così come il mio desiderio di sparare cazzate insieme alla ciurma dell’Avvelenata di Guccini che sarebbero, nell’ordine: “un musico fallito, un pio, un teorete, un Bertoncelli e un prete”. Guarda caso la canzone di Guccini è del 1976, le coincidenze astrali.
Per me la manifestazione, legata a questa città, oltre alla musica riveste anche un’altra importanza. Sono l’unico della mia famiglia a essere nato a Roma; gli altri componenti sono nati a Perugia. Questa città per me ha un valore anche affettivo e sentimentale. Il luogo dei miei antenati, umili contadini delle campagne del centro Italia, origini contadine a cui sono molto legato e di cui vado fiero. Scusate queste brevi note autobiografiche, ma dietro a chi scrive c’è sempre una biografia e sebbene potessi fare a meno di citarla, ho deciso di avvalermi della facoltà di citazione. Spero di non rischiare l’autoreferenzialità, morbo che non mi appartiene, ma nessuno può essere giudice di se stesso. L’antidoto all’autoreferenzialità è la curiosità per gli altri e io sono molto curioso delle storie altrui, e non solo delle storie di gente famosa, misonostatospiegato? Con il mio vecchio amico di scorribande Alberto da Rieti, individuiamo la serata della nostra capatina. Siamo intrigati dal concerto degli Yellowjackets con Kurt Elling che renderanno omaggio alla mitica band Weather Report. Per quanto riguarda Ledisi, io sono l’unico del gruppetto a conoscerla; gli altri non sanno chi sia. Io conosco solo un suo disco, ‘Lost & Found’, e altre canzoni pescate a casaccio su Spotify. La conosco anche per un altro motivo: è una delle poche cantanti che è stata invitata a cantare con una registrazione sovraincisa nel 2019 su una vecchia traccia del 1985 (Rubberband of Life) di un musicista d’eccezione, ovvero Sua Altezza Reale Miles Davis, altro che Sua Altezza Reale la regina Elisabetta. Credo che dovremmo ristabilire le gerarchie tra le altezze reali; per me gerarchicamente viene prima Miles Davis, nel mio podio personale in ordine: Miles Davis, la regina Elisabetta e al terzo posto Antonio Rezza. Comunque non ci sono più le altezze reali di una volta, ora sono tutte altezze virtuali. Devo dire con tutta onestà che Ledisi non mi aveva colpito particolarmente, una buona cantante soul come tante, quindi le mie aspettative, nonostante Sua Altezza Reale Davis, erano contenute. Forse non era chiaro, ma il concerto all’arena Santa Giuliana del 15 luglio è un doppio concerto aperto proprio da Ledisi.
Dalle prime note si capisce che sarà un super concerto. L’acustica è perfetta, come capita raramente a grandi eventi. La voce di Ledisi è cristallina e profonda. Il suono mi avvolge, mi sento esattamente un avvolgibile. La band è all’altezza della cantante e il repertorio spazia tra soul, R&B, gospel, jazz scat. La voce profonda e suadente della cantante ‘conquista’ la platea neanche fosse una potenza imperialista, ma la sua brama di conquista avviene senza spargimenti di sangue. È incredibile come un concerto dal vivo possa cambiare la percezione di un artista; mi lascio sedurre dalla cantante senza opporre resistenza. La sua voce mi penetra nelle viscere e mi fa provare sensazioni di pura gioia e incanto generalizzato: la bellezza della musica. La cantante omaggia Nina Simone, a cui aveva dedicato un album ‘Ledisi Sings Nina’. Un omaggio sincero, ispirato alla grande cantante che, come lei, attraversava i generi, oltre i generi; blues, jazz, soul, folk, gospel in un caleidoscopio di colori musicali legati tra di loro da quel filo sottile che Nina Simone definiva ‘classical black music’. A proposito di generi, purtroppo devo constatare che il maschilismo imperante si impone prepotentemente: si parla sempre di ‘generi’ e mai di ‘nuore’. Lo so, sarete rimasti agghiacciati da questa tremenda battuta, ma ce l’avevo in serbo da tanto tempo, aspettavo solo l’occasione giusta. Ce l’avevo in ‘serbo’ ma, come avete potuto constatare, l’ho tradotta in italiano.
L’annosa questione tra critici e appassionati di jazz gira sempre intorno al significato di inserire in un cartellone jazz concerti di altro tipo, magari, come in questo caso, imparentati, in altri casi mondi lontani. Senza addentrarmi analiticamente in questa diatriba, dico solo che visto che il nostro è un sistema capitalistico, e il profitto e la quadratura dei bilanci si impongono, le strade sono due: si invitano grandi nomi di altri generi per mantenere in vita una grande struttura, oppure ci si ridimensiona e si abbandonano le idee di ‘grandeur’ organizzando un festival più consono al suo nome in forma ridotta. Il mondo cambia e una manifestazione che dura da più di mezzo secolo non può che cambiare. Cambiamenti migliorativi o peggiorativi? Ai posteri e al mercato l’ardua sentenza. Ebbro di belle sensazioni e dopo aver ballato un paio di brani concessi per il bis sotto il palco, allontanando la possibilità di piaghe da decubito e aver omaggiato con entusiasmo la ‘performance’ di Ledisi, aspetto intrepido il secondo concerto in scaletta. Mentre scrivo nella mia veranda, con l’ausilio di un piccolo altoparlante collegato via bluetooth che diffonde i brani di Ledisi e altra musica nel quartiere, imito il DJ del film di Spike Lee ‘Fà la cosa giusta’. Rispolvero slogan di altri tempi ‘Musica al popolo’ e diffondo note blue sperando che il popolo non imbracci i forconi e mi si rivolti contro. Il popolo per adesso non mi si ribella e continuo la mia opera di proselitismo ‘black’ per preparare le generazioni future alla probabile sostituzione etnica. La denatalità dei bianchi rende questa possibilità per niente affatto remota e allora, come cantavano i Public Enemy con ‘Fear of a Black Planet’ nel 1990, ci dobbiamo preparare psicologicamente a non avere paura di un eventuale pianeta nero.
Gli Yellowjackets li ho sentiti a Roma due mesi fa alla Casa del Jazz, dove proponevano i brani del loro vasto repertorio. Della band originaria, fondata nel 1981 sulle ceneri del Robben Ford Group, rimane solo Russell Ferrante alle tastiere. Il sassofonista dei primordi Marc Russo è stato sostituito nel 1990 da Bob Mintzer che da allora resiste valorosamente ai nostri giorni. Non sono mai stato un fan degli Yellowjackets e della loro fusion; preferivo i gruppi di Miles Davis, i Weather Report, gli Steps Ahead, la Mahavishnu Orchestra di John McLaughlin, Billy Cobham, Mike Stern. Detto questo, preferisco di gran lunga la formazione recente a quella degli inizi e ho molta stima e considerazione per Bob Mintzer, noto per le sue molteplici collaborazioni, tra tutte quella con la Word of Mouth band di Jaco Pastorius e per la sua conduzione di varie big band negli Stati Uniti e in Europa con la WDR Big Band a Colonia, in Germania. Il concerto di Roma, stemperando l’influenza fusion, è un concerto prevalentemente di jazz acustico, suonato con professionalità e meticolosità, senza grandi picchi di energia e sussulti. Un concerto che, se si traducesse in voti, sarebbe da sufficienza: un sei pieno. Sono curioso di ascoltare lo stesso gruppo – oltre ai già citati Ferrante e Mintzer, Dane Alderson al basso elettrico e Will Kennedy alla batteria – due mesi dopo, in un altro repertorio con l’aggiunta di un cantante: Kurt Elling. Per le congiunzioni astrali, durante il concerto di Roma del gruppo, penso al jazz elettrico degli anni ‘70 e ‘80 e in particolare ai Weather Report. ‘Et voilà’, si materializza quel pensiero e l’associazione libera si trasforma in realtà. Per la legge della Trasmigrazione delle anime, le anime dei Weather Report rivivono per la serata nei corpi di altri musicisti. Kurt Elling ha chiesto il permesso a Joe Zawinul, a Wayne Shorter prima della loro scomparsa, e alla famiglia di Jaco Pastorius per creare testi e cantare le loro composizioni strumentali. Questo progetto, portato in giro per il mondo, approda a Umbria Jazz. Un appunto agli organizzatori. Quando ci sono due concerti in una serata, secondo il mio modestissimo punto di vista, deve iniziare il gruppo più difficile da ascoltare. Quindi, se c’è un concerto jazz e uno soul, deve iniziare il gruppo jazz. “Difficile” e “facile” sono concetti astratti e di difficile interpretazione, però la fruizione di tipi di musica è diversa, quindi andava cambiato l’ordine di apparizione. È una questione di ‘psicologia della fruizione musicale’, che è una disciplina che ho fondato io in questo preciso momento.
Kurt Elling, un cantante dalla voce baritonale profonda, è un assoluto padrone della tecnica vocale denominata ‘scat’ che consiste nell’improvvisare sillabe senza senso, suoni onomatopeici, e canta usando la voce come uno strumento musicale. Nel caso del concerto tributo ai Weather Report, oltre allo ‘scat’, utilizza la tecnica del ‘vocalese’, ovvero canta i temi dei brani del celebre gruppo e anche gli assoli con un testo vero e proprio. Louis Armstrong è considerato il padre dello ‘scat’. La leggenda narra che durante la registrazione di un brano nel 1926, ‘Heebie Jeebies’, il grande musicista dimenticò il testo della canzone e improvvisò su due piedi sillabe senza senso. Aveva inventato, senza saperlo, uno stile vocale. Il pioniere del ‘vocalese’ è Eddie Jefferson e il suo brano manifesto di questo stile è ‘Moody’s Mood for Love’, basato sull’assolo di James Moody in ‘I’m in the Mood for Love’. Il concerto di Kurt Elling e gli Yellowjackets si sviluppa su questo doppio crinale, ‘scat’ e ‘vocalese’, e vengono passati al setaccio i brani oggetto del tributo, ovvero i Weather Report: ‘Elegant People’, ‘A Secret in Three Views’, ‘Black Market’, ‘Current Affairs’, ‘Palladium’ tra gli altri. Gli Yellowjacket, a mio parere, sembrano acquistare una nuova linfa vitale con questo repertorio, spinti anche dall’incredibile energia del cantante che si cimenta al pari di tutti gli altri musicisti in assoli iperbolici. Tutti sono all’altezza della situazione e quel sei pieno del concerto di Roma si trasforma in un ‘otto e mezzo’. Per la citazione Fellini si schernisce nella tomba e applaude a se stesso e al concerto dall’altro mondo. Anche questo concerto è stato apprezzato dal pubblico presente, che non riempie totalmente l’arena ma che risponde entusiasta al bis ‘A Remark You Made’, il brano lirico di Pastorius, riversandosi sotto il palco e applaudendo emozionato questo splendido brano cantato e suonato magistralmente dai nostri protagonisti della seconda parte della serata. Con le mie figlie, con la famiglia di Alberto e con Maurizio, l’amico di Alberto, ce ne andiamo soddisfatti, consapevoli di aver passato una bella serata musicale. Ci salutiamo, io con le mie figlie rimaniamo a Perugia e loro tornano a Rieti. Giusto il tempo di farci un giro per le vie della città dove la musica ancora impazza in piazza, musica gratuita che raccoglie l’entusiasmo dei nottambuli. A detta dei perugini D.O.C., l’atmosfera di Umbria Jazz dà una scossa di adrenalina alla città altrimenti sonnacchiosa.
FABRIZIO BOSSO E JULIAN OLIVER MAZZARIELLO (omaggio a Pino Daniele) Sala Podiani 16 Luglio 2025
Prima di tornare a Roma, l’indomani, il tempo di un altro concerto nella cornice pittoresca della Galleria Nazionale dell’Umbria, nella Sala Podiani, edificio simbolo di Perugia, il medievale Palazzo dei Priori nella centralissima Corso Vannucci. Trattasi del duo Fabrizio Bosso alla tromba e Julian Oliver Mazzariello al piano per l’omaggio a Pino Daniele. In questa fase storica musicale impazzano i tributi, gli omaggi, i gruppi cover dedicati agli artisti del passato. Chissà per quale motivo. Forse la nostalgia del mito del mondo antico, inteso come una promessa rispetto al mondo attuale avvertito come una minaccia, psicologicamente parlando. Forse, più semplicemente, un riconoscimento dovuto a chi ha fatto la storia della musica, o forse un mix tra le due cose, o forse per altre ragioni che mi potrebbero sfuggire, magari per la mancanza di artisti di analogo spessore. Questo vale per tutti gli ambiti musicali e vale soprattutto per il jazz che è da sempre una fucina di rielaborazioni in chiave elaborata di melodie pop o similari. C’è chi tra gli appassionati e critici di jazz non vede di buon occhio la rivisitazione di canzoni pop italiane in chiave jazzistica. Mi capitò tempo fa, quando scrissi di un disco di Giovanni Guidi e Luca Aquino ‘Amore Bello’, la celebre canzone di Claudio Baglioni: apriti cielo, scatenai l’ira dei contrari pregiudizialmente alle interpretazioni in chiave jazz di canzoni di musica leggera. Non ho niente contro quelli che non amano questo tipo di proposte musicali, ad ognuno il suo, ma non sopporto quelli che criticano un disco senza averlo mai sentito e sentenziano mettendo in dubbio la tua preparazione sulla base di quei pregiudizi. In quello scambio di battute stavo perdendo la pazienza e mi stava per uscire ‘er cavaliere nero’ dormiente, poi ho fatto ‘Om’, ‘l’aplomb’ anglosassone ha preso il sopravvento e ‘er cavaliere nero’ è rimasto dormiente. Come? Non conoscete la storia ‘der cavaliere nero’? È un classico della filosofia applicata alla vita quotidiana, un principio universale, l’undicesimo comandamento. Colmate questa lacuna culturale: aprite ‘YouTube’ e digitate ‘er cavaliere nero’ di Gigi Proietti, dell’indimenticabile Gigi Proietti, indimenticabile al pari di Miles Davis, John Coltrane e Charlie Parker.
Ora, può darsi che da parte di qualche musicista ci sia un calcolo preciso di convenienza, di ipotetico ritorno economico, di ruffianeria, di sfruttamento di una moda, di visibilità, nulla quaestio. Io però non sondo le intenzioni, io ascolto musica, non ascolto le intenzioni, sondo la musica e mi limito a registrare il tracciato immaginario mentale che registra le oscillazioni della mia corteccia cerebrale, una specie di elettroencefalogramma sulla base degli stimoli musicali. Mi piace approfondire le intenzioni, indagare in profondità il mondo interiore e la psiche delle persone, ma non in questo caso. ‘Mi spoglio’, arrossendo, dei miei pregiudizi e ascolto musica e lascio andare le mie emozioni, qualunque esse siano, senza lasciarmi condizionare. Dovremmo ascoltare musica senza sapere chi suona, il classico ‘blind testing’, per avere l’esatta percezione non condizionata di un fenomeno musicale. Detto questo, il duo Mazzariello-Bosso omaggia Pino Daniele e di questi tempi lo fanno in tanti, forse in troppi, ma tant’è: il nome Pino Daniele tira come un pelo di F(o)ca e più di una mandria di buoi. La caratura dei due musicisti ci mette al riparo da un omaggio raffazzonato e approssimativo. Il lirismo dei due prende il sopravvento e le melodie superbe di Pino Daniele fanno risaltare l’ispirazione del duo. Fabrizio Bosso suona qualsiasi cosa in maniera magistrale. Forse il suo eclettismo e la sua versatilità possono far storcere il naso a qualcuno ma, comunque, rimane un formidabile trombettista e sentirlo suonare per me è sempre un grande piacere. Il duo esegue i brani del disco omaggio al cantante napoletano ‘Il cielo è pieno di stelle’. ‘A me me piace ‘o blues’, che non è solo il titolo di una bella canzone, è anche un assioma, è suonato a velocità maggiorata; avrei preferito a velocità ridotta. Poi ‘Anna verrà’, una bellissima e struggente melodia, e poi ‘Quando’, ‘Sotto ‘o sole’, ‘Napule è’, ‘Allora si’, ‘Sicily’, il brano che Pino Daniele incise con Chick Corea. Ora però, mentre scrivo, ascolto Pino Daniele dalla sua viva voce, in particolare ‘Je sto vicino a te’. Ora nessuno starà vicino a me, ma non fa niente ‘ve vojo bene lo stesso’, capisco che ho scritto tanto, quindi se non state vicino a me lo capisco. Ora però cambiamo latitudine, si torna a Roma: ‘Tutta n’ata storia’.
A Roma tornerò a presenziare alle serate del mercoledì al Sally Brown Rude-pub con l’orchestra resident la San Lorenzo Jazz Orchestra nella magica atmosfera del locale di via degli Etruschi. Locale storico aperto da una venticinquina d’anni. Locale punto di riferimento della scena reggae, ska e punk della capitale, ma da qualche anno aperto anche alle serate jazz, in particolare il mercoledì. ll mondo del jazz è un mondo variegato, fatto di grandi eventi, di grandi festival, ma anche di piccole realtà come questa e a Roma ce ne sono. E allora, se tanto mi dà tanto, preso da un insolito afflato di ottimismo e da un’illogica euforia, penso che forse il jazz non morirà mai e forse l’umanità sopravvivrà.
P.S. Forse un giorno vi racconterò la storia di questa San Lorenzo Jazz Orchestra
