Orsara Jazz: parlano i responsabili, Lucio Ferrara e Michele Ferrara

Lucio Ferrara
Nel cuore della provincia di Foggia, Orsara Jazz festeggia trent’anni di musica! Il 26, 27 e 28 luglio torna uno dei Festival Jazz più longevi con tre giorni di concerti e masterclass. Abbiamo incontrato i responsabili.
// di Francesco Cataldo Verrina //
LUCIO: Lucio Ferrara (Direttore artistico Orsara Jazz 2025)
MICHELE: Michele Ferrara (già Presidente Associazione Orsara Musica, Pj Mgr Orsara Jazz 2025)
D. Trent’anni di Orsara Jazz: un traguardo importante. Guardando indietro, quali sono le tappe fondamentali che hanno reso possibile questa lunga storia?
LUCIO: Per arrivare a un traguardo così importante, serve molto più di un’idea o di un progetto: serve una comunità. Il nostro è stato un percorso lungo, partito in modo quasi pionieristico, con pochi mezzi ma tantissima passione. Questo Festival ha raggiunto questo traguardo grazie a chi, sin dal 1990, ci messo il proprio tempo, la passione e i loro sogni. Col tempo siamo cresciuti, passo dopo passo, fino a diventare una realtà riconosciuta non solo a livello nazionale, ma anche internazionale. E credo che uno dei motivi principali sia il legame profondo che tutti noi abbiamo con il paese che ospita il festival. Questo senso di appartenenza ha tenuto viva la motivazione, anche nei momenti difficili. È proprio questo spirito collettivo e autentico che ci ha permesso di costruire qualcosa che dura, che si rinnova, e che dopo trent’anni ha ancora molto da dire.
D. In un piccolo borgo della provincia di Foggia, lontano dalle grandi capitali culturali, come si è riusciti a costruire un’identità così riconoscibile nel panorama jazz europeo?
LUCIO: Tutto parte da lì: qualità, competenza e lavoro. Non abbiamo mai cercato scorciatoie. Ogni scelta è stata fatta con attenzione, curando il programma, l’accoglienza, la produzione. Ma poi c’è un altro elemento fondamentale: il luogo. Il piccolo borgo lontano dalle grandi capitali culturali, anziché essere un limite, è stato la nostra forza: si crea un’energia diversa, più umana. I rapporti che nascono durante il festival, tra artisti, pubblico e comunità, sono imprevedibili e preziosi. Questo ha dato al festival un’identità unica: riconoscibile non solo per la qualità artistica, ma anche per l’esperienza umana che si vive qui. È questo mix – tra professionalità e autenticità – che ci ha resi parte del panorama jazz internazionale.
D. Il programma di quest’anno ospita due giganti come Dave Holland e Avishai Cohen, entrambi in esclusiva per la Puglia. Come si è riusciti a ottenere queste presenze, e che tipo di messaggio culturale intende dare il Festival con la loro partecipazione?
LUCIO: Partiamo sempre dalla musica e dai musicisti, dal valore di ciò che portano. Quest’anno siamo orgogliosi di ospitare due leggende come Dave Holland e George Garzone, che hanno segnatola storia del jazz con la loro straordinaria carriera. Accanto a loro, Il quartetto di Avishai Cohen, Joe Pisto e Fausto Beccalossi, e con George Garzone io alla chitarra, Pasquale Fiore e Carlo Bavetta, tutti artisti italiani che rappresentano la vitalità e l’innovazione del jazz italiano contemporaneo. La presenza di artisti appartenenti a generazioni, paesi e background diversi, da leggende internazionali a giovani realtà italiane, sottolinea il messaggio del festival: la musica è un ponte che unisce culture, esperienze e generazioni.
D. George Garzone e la sua masterclass sulla “Triadic Chromatic Approach” aggiungono una dimensione formativa molto specifica. Che tipo di attenzione avete voluto riservare, in questa trentesima edizione, alla didattica e alla ricerca musicale?
LUCIO: Per dodici anni, a partire dal 2004, abbiamo organizzato i seminari internazionali di musica jazz, con la partecipazione di artisti del calibro di Lee Konitz e Benny Golson. Sono stati anni intensi, in cui la didattica è diventata uno dei pilastri del nostro progetto, attirando studenti da tutto il mondo. Quando abbiamo ripreso il festival, qualche anno fa, abbiamo deciso di mantenere quello spazio dedicato alla formazione, anche se in una forma più ridotta. Così sono nati gli incontri con artisti come Peter Bernstein, Kurt Rosenwinkel, e quest’anno George Garzone, con la sua Masterclass sulla Triadic Chromatic Approach. Vogliamo continuare a offrire momenti di approfondimento di alto livello, che arricchiscano i musicisti e mantengano vivo lo spirito di ricerca che da sempre accompagna il festival.
D. Il progetto “Between Pneuma Spiritus” introduce un tema suggestivo: il vento come metafora e materia sonora. In che modo viene chiesto agli artisti di confrontarsi con questo concetto, e cosa ha significato per voi intrecciare arte e natura in modo così profondo?
MICHELE: Negli anni abbiamo spesso utilizzato il festival come pretesto per esplorare la storia, le tradizioni del posto. L’abbiamo fatto rispetto alla tradizione bandistica con “Pirotecnie Sonore” nel ’97, trattando il brigantaggio e l’emigrazione del ‘900 con “Lettera da Orsara” del ’99, rielaborando l’Opera di Umberto Giordano “Giove a Pompei” nel 2009. L’anno scorso, ci è venuta l’idea di elaborare in tre anni il tema del vento che è un elemento naturale che modella la vita di Orsara. Essendo il nostro un festival che non trascura l’aspetto concettuale delle proposte artistiche l’abbiamo elaborato portando alla luce tre significati – il vento come medium, soffio vitale, e spirito – che hanno alla radice il termine ebraico Ruah. L’anno scorso è stato presentato un progetto appositamente commissionato scritto e arrangiato per Orchestra (Nuova Orchestra Scarlatti), trio jazz e voce recitante, dal pianista Bruno Persico, quest’anno abbiamo selezionato il progetto “Respiro”, che richiama il tema, presentato dal duo Pisto/Beccalossi.
D. A proposito del rapporto tra arte e territorio: quanto ha inciso il Festival nella trasformazione socio-culturale di Orsara? Possiamo parlare di un “modello Orsara” replicabile altrove?
MICHELE: ci andrei piano con i modelli, certamente abbiamo lasciato impronte e seminato in tante direzioni. Abbiamo inaugurato delle prassi e delle modalità riutilizzabili, sensibilizzato e fatto conoscere un mondo, che è quello dei musicisti, degli studenti, degli appassionati che hanno portato energia e relazioni. Abbiamo contribuito a far nascere e a diffondere una consapevolezza della propria storia e soprattutto un esempio che per fortuna alcuni delle generazioni successive stanno raccogliendo. Sul piano concreto abbiamo aperto e tracciato il sentiero dell’ospitalità diffusa, dell’eccellenza gastronomica, in buona misura abbiamo contribuito a valorizzare un marchio territoriale riconoscibile.
D. Il Festival non è solo concerti: le installazioni, le mostre storiche, le pubblicazioni editoriali raccontano un progetto culturale complesso. Come si costruisce questa stratificazione? E quale ruolo ha avuto la Community Library A.Li. nella costruzione di un luogo della memoria attiva?
MICHELE: Il nucleo originario nasce nel 1990 sulla base di un senso collettivo di amicizia e di curiosità culturale, dalla necessità di connettere al mondo una piccola realtà delle aree interne, un paese invisibile (Anna Rizzo, I Paesi invisibili). Negli anni il festival è sempre stato un laboratorio di idee e di confronti, un collettivo aperto, con grande passione musicale, un mezzo per conoscere ed esplorare. Quindi il festival come mezzo, non come fine. La grande libertà artistica derivante dall’autonomia delle scelte, autonomia conquistata sul campo, ci ha consentito di includere nel framework del festival la poesia, la pittura, la danza, la scultura, oltre ad esplorare tante espressioni musicali dal solo alla big band, dall’improvvisazione pura di Evan Parker alla tradizione più ortodossa di Benny Golson, la direzione orchestrale di Bruno Tommaso o un musicista singolare come Lee Konitz. Sulla Community Library glisserei, al momento è una struttura potenzialmente interessante ma ancora in uno stato embrionale.
D. Lucio Ferrara, chitarrista e direttore artistico da quindici anni, suonerà quest’anno anche sul palco con una formazione originale. Quanto è importante per voi mantenere una continuità tra direzione artistica e pratica musicale?
LUCIO: Io sono un musicista, quindi per me è naturale salire su un palco e suonare. Affidare la direzione artistica, da vent’anni a questa parte, a un musicista è una scelta precisa del festival. Molti festival in Italia non sono guidati da musicisti, e questo si riflette anche nelle scelte artistiche. Si tratta di approcci diversi, ognuno con le proprie caratteristiche. Continuare a suonare mi permette di osservare e conoscere da vicino sia le dinamiche dei musicisti sul palco, sia quelle di chi organizza e gestisce un festival. Questo mix di prospettive sembra funzionare.
D. Il libro “Quelli di Orsara Jazz – Una storia pugliese” ha raccontato in modo corale l’avventura del Festival. Quanto è importante raccontarsi, oggi, anche per lasciare traccia e ispirare nuove generazioni di operatori culturali?
MICHELE: è importantissimo sempre, e sempre di più, per sopperire all’amnesia progressiva. Per trasmettere le esperienze, magari per non ripetere errori, ma soprattutto per dire che è possibile costruire delle cose, delle realtà positive, dimostrare che la realtà non è immutabile, il destino non è già scritto, tutti possiamo contribuire a scriverlo, basta darsi da fare, come ha fatto un gruppo di sognatori con Orsara Jazz.
D. In un contesto musicale dove molti festival tendono a privilegiare la dimensione dell’intrattenimento, Orsara Jazz ha sempre scelto la via più rischiosa dell’autenticità e della ricerca. Come si sopravvive – e si cresce – senza scendere a compromessi?
MICHELE: Ci vuole grande onestà intellettuale, e interrogarsi sempre. Cercare di “educare” il pubblico, spostare l’asticella sempre un po’ più in là, non assecondare i gusti più commerciali, far discutere magari, ma sempre mettendo in campo delle idee. Bisogna resistere alla tentazione di utilizzare i numeri come dimensione assoluta delle proposte artistiche: più persone, più consenso, più presenze. Bisogna anche saper accettare i fallimenti, costruire programmazioni con le risorse che si hanno, aguzzando il cervello e inventandosi ciò che non si può comprare già fatto. Ricordandoci sempre che immagine e reputazione non sono sinonimi, per costruire una buona reputazione ci vuole una vita, l’immagine si costruisce con una spolverata di social e dura un attimo.
D. Come si articola oggi il sostegno delle istituzioni pubbliche e private? E quanto ha contato la rete di collaborazioni con realtà come Orsa Maggiore, Wild Cult, o figure come lo chef Peppe Zullo?
MICHELE: abbiamo la fortuna di poter contare su un manipolo di resistenti e di giovani valorosi, sulla passione e sul sostegno dell’attuale amministrazione comunale. La nostra storia ci aiuta a reperire le risorse perché abbiamo creato un marchio che ci viene riconosciuto, ma non possiamo nasconderci che il territorio, questo territorio cosi difficile, non è fra le priorità della politica. Con le unghie e con i denti abbiamo ripreso il festival dopo cinque anni di interruzione (2016-2021), ma non è mai facile e non è mai scontato. Ogni edizione potrebbe essere l’ultima.
D. Infine: che idea avete del futuro di Orsara Jazz? Quali direzioni musicali, pedagogiche e territoriali immaginate per il Festival nei prossimi anni?
MICHELE: abbiamo “Between Pneuma Spiritus” da completare, ci sono delle realtà locali che già stanno avviando delle attività interessanti per fornire servizi tecnici e di comunicazione. Elezioni regionali alle porte promettono assestamenti e nuovi equilibri da decifrare. La mente non si ferma, per cui le idee non mancano ma, come si diceva prima, ogni edizione potrebbe essere l’ultima, e quindi, citando Neruda, la viviamo come fosse l’unica.
