Koro Almost Brass con «Plays Monk». Una rilettura cameristica e visionaria del canone monkiano (Caligola Records, 2025)

Un’operazione artistica di evidente raffinatezza ed intelligenza musicale, capace di coniugare la profondità strutturale della scrittura monkiana con un organico strumentale tanto inusuale quanto eloquente.
// di Francesco Cataldo Verrina //
L’influenza di Thelonious Monk nel jazz contemporaneo sembra tutt’altro che esaurita: al contrario, la sua figura continua a rappresentare un punto di riferimento imprescindibile, tanto per i compositori quanto per gli improvvisatori. Monk non incarna solo uno dei padri fondatori del linguaggio moderno del jazz, ma una sorta di «fonte genetica» del pensiero musicale radicale, un autore la cui eredità viene costantemente riletta, metabolizzata e rielaborata da generazioni diverse. Il suo impatto si manifesta su più livelli, estetici, tecnici e filosofici. Monk ha ridefinito il concetto stesso di composizione jazzistica, allontanandosi sia dalla forma-canzone standard che dalla scrittura orchestrale convenzionale. Le sue composizioni sono strutture essenziali, frammentarie, volutamente ambigue. Questa apertura formale ha ispirato molti musicisti contemporanei a considerare i brani non come veicoli per l’improvvisazione (come nel bebop), ma come oggetti da esplorare in ogni loro porzione, spazio incluso. Nei lavori di musicisti come Steve Lehman, Craig Taborn, Mary Halvorson o Kris Davis l’approccio monkiano alla composizione è evidente: utilizzo di cellule tematiche ricorrenti, disallineamenti metrici, strutture non lineari, logiche iterative e spazi per una manipolazione creativa del materiale. Uno degli aspetti più rivoluzionari di Monk è l’assimilazione «dell’errore» come risorsa. Le sue melodie spigolose, gli intervalli non ortodossi, le armonie «sporche», non erano casualità ma scelte stilistiche precise, capaci di generare tensione, sorpresa e carattere. Oggi questa estetica dell’imperfezione voluta è diventata linguaggio: molti improvvisatori, specie nell’ambito del jazz creativo o della musica improvvisata europea, vedono in Monk un antesignano del «pensiero dissonante» come atto espressivo consapevole. Il lavoro di Monk sul ritmo è forse il suo lascito più studiato e imitato: la sfasatura degli accenti, l’asimmetria interna ai fraseggi, l’uso delle pause come parte integrante del discorso musicale. Questo modo di pensare il ritmo ha influenzato profondamente musicisti contemporanei, anche fuori dal jazz strettamente inteso. Alcuni esempi emblematici si ritrovano nei lavori di Tyshawn Sorey, Mark Turner, o nel lavoro di ensemble come Vijay Iyer Trio e Makaya McCraven, che destrutturano la pulsazione fino a renderla forma viva.
«Plays Monk» del quintetto Koro Almost Brass rappresenta un’operazione artistica di evidente raffinatezza ed intelligenza musicale, capace di coniugare la profondità strutturale della scrittura monkiana con un organico strumentale tanto inusuale quanto eloquente. L’ensemble, formato da Fulvio Sigurtà (tromba, flicorno), Cristiano Arcelli (sassofono alto e arrangiamenti), Giovanni Hoffer (corno francese), Massimo Morganti (trombone) e Glauco Benedetti (tuba), si colloca in un punto di incontro tra la tradizione jazzistica afroamericana e l’universo timbrico della musica colta europea, senza cadere in sterili sincretismi o sovrapposizioni forzate. Fin dalla sua configurazione, Koro Almost Brass si propone come una sfida alla norma: quintetto di fiati privo di sezioni ritmiche convenzionali, ispirato ai brass quintet classici ma riplasmato grazie all’inserimento del sassofono alto in luogo della seconda tromba. Questa scelta non è soltanto timbrica, ma concettuale: consente una flessibilità idiomatica che attraversa diversi linguaggi, dalla musica da camera al jazz più contemporaneo, senza mai perdere coerenza né tensione espressiva. Il repertorio scelto – otto fra i brani più emblematici di Thelonious Monk, da «’Round Midnight» a «Epistrophy», passando per «Reflections» ed «In Walked Bud» – viene affrontato con lucida consapevolezza della sua intrinseca complessità. La musica di Monk è, per sua natura, fatta di fratture e discontinuità, di frammenti organizzati secondo una logica interna spesso enigmatica, che sfida la linearità formale e invita a una continua reinterpretazione. Cristiano Arcelli, artefice degli arrangiamenti, dimostra una sensibilità notevole nel mantenere intatto lo spirito di questi «frammenti in movimento», offrendo riletture che non ricompongono il puzzle ma ne evidenziano le possibilità combinatorie, le traiettorie latenti.
L’approccio cameristico non si traduce in una sterilizzazione dell’impatto jazzistico, bensì in un’espansione della sua portata espressiva. Gli arrangiamenti non si limitano a distribuire voci, ma generano veri e propri piani dinamici e narrativi, che valorizzano tanto l’interplay quanto la qualità orchestrale dell’organico. Tra la burrosità grave della tuba, la morbidezza del flicorno, il lirismo del corno, l’agilità del sax alto e la duttilità del trombone, l’impasto timbrico crea una tavolozza sonora sorprendentemente ampia, capace di evocare atmosfere da soundtrack hollywoodiana anni ’50, pulsioni hard bop e rarefazioni quasi novecentesche. Il concept si esalta soprattutto nella ponderatezza della sua forza strutturante, ossia nell’equilibrio tra scrittura e improvvisazione, tra rigore formale e slancio lirico, tra omaggio ed innovazione. Ogni componimento si manifesta come un piccolo teatro sonoro in cui la voce di Monk, pur rimanendo riconoscibile nella sua singolarità angolosa, viene filtrata attraverso uno specchio prismatico che ne moltiplica i riflessi, ne esalta le ambiguità, ne rinnova la vitalità.
L’ascolto di Plays Monk si apre con «I Mean You», brano che, già nella sua versione originale, oscilla tra la marzialità ritmica e una cantabilità ironica e obliqua. L’arrangiamento di Arcelli valorizza questa dualità attraverso una sapiente distribuzione dei ruoli: la linea tematica viene introdotta da un gioco di incastri tra tromba e sax alto, mentre gli altri ottoni sostengono con progressioni armoniche di tipo contrappuntistico, quasi a evocare una fanfara in miniatura. Il groove è implicito, suggerito più che esplicitato, lasciando spazio a un interplay rarefatto ma preciso, che prepara il terreno ad un primo assolo ricco di inflessioni bop, ma reso più sfumato dall’assenza della sezione ritmica tradizionale. «Bemsha Swing» si sviluppa come un’esplorazione timbrica attorno alla cellula ritmica del tema, uno dei più riconoscibili del repertorio monkiano. Arcelli reinterpreta il noto pattern ternario con una costruzione poliritmica interna all’ensemble, affidando alla tuba ed al corno una funzione quasi percussiva, mentre le linee melodiche si frammentano e si rincorrono tra gli strumenti superiori. Si conferma così la volontà di trattare l’ensemble come un organismo cameristico, in cui la pulsazione non è affidata a un unico strumento, ma distribuita, scomposta e riassemblata in forme nuove. Il motivosi sviluppa con eleganza, senza mai cedere al virtuosismo fine a sé stesso, ma mantenendo una tensione dinamica continua. Con «Reflections», il line-up tocca una delle vette liriche dell’album. L’arrangiamento si fa essenziale, quasi contemplativo. Arcelli lavora per sottrazione, lasciando ampio respiro alle frasi e permettendo ai timbri – in particolare al caldo del flicorno ed al velluto del corno – di entrare in risonanza. L’assenza di batteria trasforma il tempo in uno spazio flessibile, elastico, e permette all’ensemble di fluttuare con naturalezza all’interno di un’atmosfera meditativa. L’assolo centrale, delicatamente innestato nel tessuto dell’arrangiamento, evita qualsiasi eccesso retorico e si affida ad un fraseggio spezzato, sospeso, perfettamente in linea con lo spirito del componimento.
Il quarto articolo del lotto, «Epistrophy», costituisce forse il momento più strutturalmente complesso del disco. L’arrangiamento mette in evidenza la natura quasi architettonica del pezzo: il tema, intelaiato su cellule iterative ed angolazioni ritmiche spigolose, viene inizialmente esposto in forma scomposta, quasi decostruita, per poi ricomporsi in un tutt’uno compatto e serrato. Il lavoro di Arcelli risulta particolarmente raffinato. Egli utilizza sovrapposizioni ritmiche, imitazioni a stretto intervallo e brevi sezioni antifonali per creare una tensione costante, dove ogni strumento partecipa alla costruzione della forma generale. L’assolo emerge come naturale conseguenza di questo magma organizzato, inserendosi senza fratture e contribuendo a mantenerne l’energia coesa. «Worry Later», motivo meno bazzicato del repertorio monkiano, viene trattato come un laboratorio per esplorazioni timbriche. L’inizio è affidato a una progressione armonica lenta, quasi atonale, che prende le distanze dalla forma originaria per poi lasciarla gradualmente emergere. La melodia, esposta con ambiguità intervallare, viene progressivamente messa a fuoco attraverso una serie di variazioni dinamiche e cromatiche. In questo tema si percepisce in modo netto la dimensione «filmica» dell’arrangiamento: certi passaggi sembrano evocare le sonorità delle colonne sonore di Alex North o Leonard Bernstein, senza però perdere il contatto con l’essenza monkiana, sempre riconoscibile a livello sottocutaneo. Con «’Round Midnight», Koro Almost Brass affronta la ballad monkiana per eccellenza, vera e propria icona del jazz moderno. L’approccio è volutamente anti-retorico ed anti-sentimentale, secondo i dettami della filosofia monkiana: l’arrangiamento evita aperture sinfoniche o melodrammi armonici, preferendo una lettura intima e composta, quasi introspettiva. Le voci degli strumenti si fondono in un unisono timbricamente ricco ma mai opprimente, mentre le frasi solistiche vengono lasciate libere di galleggiare, sospese tra silenzi significativi e respiri profondi. Siamo di fronte ad un esempio eccellente di come la sottrazione possa essere veicolo di prospera intensità emotiva. «In Walked Bud» rappresenta, nel flusso del disco, un momento di leggerezza strutturata. Il tema, saltellante e beffardo, viene promulgato attraverso l’articolazione brillante dei fiati che simula l’effetto di una big band in miniatura. Gli incastri ritmici fra trombone e tuba costruiscono una base swingante su cui si muove liberamente il sax alto, il quale assume il ruolo di narratore principale. L’interplay è serrato, quasi teatrale, e richiama esplicitamente la grammatica dell’hard bop, pur reinterpretata in chiave cameristica. L’album si chiude con «Rhythm-A-Ning», una scelta quanto mai appropriata, data la natura energetica e «conclusiva» del brano. Arcelli struttura il pezzo come una sorta di suite in miniatura, alternando momenti di esposizione collettiva a sezioni più aperte, in cui i musicisti dialogano in tempo reale, sfruttando tutte le possibilità timbriche del loro strumento. La tensione ritmica, nonostante l’assenza della batteria, viene mantenuta viva da un uso sapiente degli accenti e da un’organizzazione delle entrate che richiama la scrittura contrappuntistica. Il risultato è un costrutto corale e trascinante, che suggella il disco con assertività, ma anche con rigore formale.
A fronte dell’esuberanza di certi linguaggi moderni, l’economia monkiana – poche note, ben scelte, ben posizionate – ha ispirato un minimalismo espressivo che oggi ha trovato nuova vita. In particolare, nelle estetiche «post-jazz» nord-europee (ad esempio, quella promossa da etichette come ECM) si ritrova spesso un approccio sottrattivo al linguaggio, dove ogni nota pesa, ogni silenzio conta, ogni deviazione è parte della narrazione. Monk viene percepito quasi come un «compositore concettuale», più vicino a Morton Feldman che a Parker. Infine, c’è un aspetto che va oltre la musica. Thelonious incarna, per molti musicisti e ascoltatori, l’ideale dell’artista libero, radicale, coerente fino all’ostinazione. In un tempo in cui il jazz è sempre più ibrido, contaminato e globale, la figura di Monk si erge come simbolo di indipendenza estetica e integrità creativa. Non a caso, numerosi progetti contemporanei – da reinterpretazioni orchestrali a esperimenti elettronici – scelgono il Monaco come base, non per omaggiarlo in modo calligrafico, ma per nutrirsi della sua visione. L’influenza di Thelonious Monk nel jazz contemporaneo non si limita a una questione stilistica o repertoriale, ma rappresenta una vera e propria grammatica alternativa della modernità. Il pianista è diventato un linguaggio nel linguaggio, un archetipo per chi cerca nuove vie senza rinunciare alla tradizione. È l’arte dell’inatteso, della logica obliqua, dell’ironia profonda. In questo senso, la sua voce continua a parlare non solo nei suoni, ma anche nelle intenzioni di chi, oggi, fa musica cercando un punto di equilibrio tra identità e sperimentazione.
Per questo, «Plays Monk» non costituisce soltanto una rilettura colta del repertorio monkiano, ma un laboratorio sonoro in cui ogni composizione è trattata come un oggetto complesso, da esplorare e smontare con rispetto, competenza e fantasia. La scelta dell’organico e l’eccellenza degli interpreti fanno di questo lavoro un unicum nel panorama jazzistico italiano ed europeo. Ogni traccia diventa un microcosmo, un esercizio di equilibrio tra fedeltà e reinvenzione, tra scrittura ed improvvisazione, tra omaggio ed autonomia creativa. «Plays Monk» rappresenta, in ultima analisi, un progetto di reinterpretazione responsabile: non un tributo calligrafico né una destrutturazione gratuita, ma un’indagine poetica ed analitica sulla materia monkiana, condotta da cinque musicisti la cui sapidità tecnica ed estetica permette di esplorarne le pieghe più segrete.
