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Pur non essendo un lettore esperto del pentagramma, Coleman seppe elaborare un linguaggio personale che sfidava le convenzioni accademiche. La sua sfiducia nei confronti della notazione occidentale e della teoria armonica tradizionale lo ha portato a sviluppare un approccio intuitivo ed orale, che ha ispirato generazioni di musicisti a cercare vie alternative alla formalizzazione di un proprio esperanto sonoro.

// di Francesco Cataldo Verrina //

L’influenza di Ornette Coleman sul jazz moderno è tanto profonda quanto multiforme, e si estende ben oltre i confini del free jazz, di cui fu uno dei principali artefici. La sua eredità non si esaurisce nella rottura con la tonalità o nella destrutturazione delle forme tradizionali, ma si manifesta soprattutto in una concezione radicalmente nuova della libertà espressiva, dell’interazione collettiva e del ruolo dell’individuo all’interno dell’ensemble. Coleman ha ridefinito il concetto stesso di improvvisazione, spostando l’asse dall’assolo individuale alla costruzione collettiva del discorso musicale. La sua teoria dell’«harmolodics» – un sistema in cui armonia, melodia e ritmo sono trattati come elementi equivalenti e interscambiabili – ha aperto la strada a una pratica musicale in cui ogni musicista è libero di contribuire in modo paritario, senza subordinarsi a una gerarchia armonica o ritmica prestabilita. In questo senso, Coleman ha anticipato molte delle istanze dell’improvvisazione non idiomatica e della musica creativa contemporanea, influenzando figure come Anthony Braxton, Henry Threadgill ed il collettivo AACM di Chicago.

La portata del suo pensiero va ben oltre l’ambito strettamente sonoro. Coleman ha concepito il jazz come metafora della condizione umana, sostenendo che la libertà sonora dovesse riflettere una più ampia emancipazione dell’individuo. In questo senso, la sua opera si colloca accanto a quella di altri grandi innovatori del Novecento, come John Cage o Sun Ra, che hanno visto nella sperimentazione artistica un atto politico e filosofico. Coleman stesso affermava che «i pattern ritmici dovrebbero essere naturali come i pattern del respiro», sottolineando l’urgenza di un sound che nascesse dal corpo e dalla voce, piuttosto che da codici imposti. Pur non essendo un lettore esperto del pentagramma, Coleman seppe elaborare un linguaggio personale che sfidava le convenzioni accademiche. La sua sfiducia nei confronti della notazione occidentale e della teoria armonica tradizionale lo ha portato a sviluppare un approccio intuitivo ed orale, che ha ispirato generazioni di musicisti a cercare vie alternative alla formalizzazione di un proprio esperanto sonoro. L’impatto di Coleman si è fatto sentire anche al di fuori del jazz: compositori contemporanei, improvvisatori europei, artisti elettronici e persino musicisti rock hanno riconosciuto il debito nei suoi confronti. La capacità di coniugare rigore e spontaneità, struttura e libertà, ha fornito un modello per chiunque cerchi di superare i confini di genere e di stile. L’influenza di Ornette Coleman sul jazz moderno non si misura soltanto nei suoni che ha prodotto, ma nelle domande che ha posto, soprattutto sul significato della libertà, sul ruolo dell’individuo nella collettività e sulla possibilità di un linguaggio jazzistico che fosse al tempo stesso personale ed universale. Il suo modulo esecutivo continua a risuonare come un invito a pensare, a sentire ed a creare senza vincoli, con la stessa urgenza e autenticità con cui si respira.

Registrate tra il 22 maggio del 1959 ed il 21 dicembre del 1960, ma pubblicate soltanto nel 1971, le incisioni raccolte in «Twins» costituiscono un documento sonoro di straordinaria rilevanza per comprendere l’evoluzione linguistica di Ornette Coleman nel cuore della sua stagione più feconda. Non si tratta di un semplice assemblaggio di materiali d’archivio, bensì di un corpus che, pur nella sua eterogeneità, rivela la tensione costante dell’autore verso una ridefinizione radicale dei parametri espressivi del jazz. Il motivo d’apertura, significativamente intitolata «First Take», rappresenta non solo la prima prova registrata del doppio quartetto di «Free Jazz: A Collective Improvisation», ma anche una sorta di manifesto embrionale della poetica colemaniana. L’ascolto di questa versione primigenia, con la sua energia tellurica e la sua struttura apparentemente caotica ma in realtà rigorosamente bilanciata tra i due canali stereofonici, consente di cogliere la genesi di un’idea musicale che, pur nella sua radicalità, conserva un’intatta coerenza interna. La presenza di Eric Dolphy al clarinetto basso e di Freddie Hubbard alla tromba, in dialogo serrato con il nucleo storico del quartetto, conferisce al costrutto una densità timbrica che anticipa le esplorazioni collettive di formazioni successive, come quelle di Anthony Braxton o del primo Art Ensemble Of Chicago.

Le restanti composizioni, pur provenendo da sessioni differenti e presentando organici più contenuti, non risultano affatto marginali. In «Little Symphony» e «Joy of a Toy», ad esempio, si avverte una tensione lirica che richiama le atmosfere di The Shape of Jazz to Come, mentre «Monk and the Nun» si distingue per un’ironia strutturale che sembra omaggiare, nel titolo e nel gioco di contrasti, tanto Thelonious Monk quanto certe figurazioni narrative di Charles Mingus. «Check Up», con la presenza del contrabbasso di Scott LaFaro, introduce una dimensione più rarefatta e introspettiva, in cui il fraseggio di Coleman si fa quasi aforistico, come se ogni nota fosse il frammento di un discorso più ampio e inafferrabile. Non si può trascurare, infine, il ruolo cruciale svolto dai batteristi Billy Higgins ed Ed Blackwell, la cui capacità di sostenere ed al tempo stesso destabilizzare il flusso improvvisativo rappresenta uno degli elementi più innovativi dell’intero progetto. La loro interazione con i fiati non si limita a un mero accompagnamento ritmico, ma si delinea come un vero e proprio contrappunto percussivo, in linea con quanto accadrà, pochi anni dopo, nelle esperienze più avanzate del free europeo. In controluce, queste registrazioni rivelano affinità sorprendenti con altre opere coeve, come «Out To Lunch!» di Dolphy o «Spiritual Unity» di Albert Ayler, ma mantengono una singolarità inconfondibile, radicata nella visione estetica di Coleman, per il quale l’improvvisazione non è mai mero esercizio di libertà, bensì atto etico e necessità espressiva. La pubblicazione postuma di questi materiali, dunque, non ha il sapore dell’operazione filologica, bensì quello di una rivelazione tardiva, capace di gettare nuova luce su un momento cruciale della storia del jazz post-moderno.

Il sodalizio tra Ornette Coleman e Don Cherry rappresenta una delle alleanze più feconde e rivoluzionarie della storia del jazz moderno. Non si trattò semplicemente di una collaborazione tra leader e sideman, ma di un’autentica simbiosi musicale e intellettuale, in cui le rispettive visioni si intrecciarono fino a diventare indistinguibili. I due si conobbero da giovanissimi a Los Angeles, grazie a un’amicizia scolastica tra la prima moglie di Coleman e Don Cherry. In breve tempo, Cherry divenne il partner musicale più stretto di Coleman, partecipando a tutte le sue registrazioni fondamentali tra la fine degli anni Cinquanta e l’inizio dei Settanta, da Something Else!!! (1958) fino a Science Fiction (1971), passando per The Shape Of Jazz To Come, Change Of The Century, This Is Our Music e Free Jazz. Val Wilmer, nella sua opera «As Serious As Your Life», definisce Cherry il «doppio musicale e personale» di Coleman. La sua pocket trumpet – uno strumento piccolo, economico, ma capace di produrre un timbro penetrante e flessibile – si rivelò adatta per dialogare con il sax alto di Coleman. Il loro interplay era basato su un ascolto profondo e su una fiducia reciproca assoluta: spesso sembravano anticiparsi a vicenda, come se condividessero un linguaggio segreto. Cherry non era un virtuoso nel senso tradizionale, ma possedeva un’eccezionale capacità di ascolto e una memoria melodica prodigiosa, che gli permetteva di interiorizzare e rielaborare istantaneamente le idee musicali di Coleman.

Se Coleman rimase ancorato a una visione fortemente personale e coerente del proprio universo musicale, Cherry si spinse verso una dimensione più cosmopolita e spirituale. Negli anni Settanta, sviluppò un linguaggio che integrava elementi del jazz con musiche tradizionali africane, asiatiche e mediorientali, fondando gruppi come Codona e Organic Music Society. Tuttavia, anche in queste esplorazioni, l’impronta colemaniana rimase evidente: l’idea di una musica libera, non idiomatica, fondata sull’interazione orizzontale e sull’improvvisazione come forma di conoscenza. Il rapporto tra Coleman e Cherry ha influenzato profondamente generazioni di musicisti, non solo per i risultati sonori raggiunti, ma per il modello di collaborazione che incarnavano: un dialogo tra pari, in cui la leadership si esercita attraverso l’ascolto e la proposta, non attraverso l’imposizione. In un’epoca in cui il jazz era ancora dominato da logiche gerarchiche, la loro musica rappresentò un laboratorio di democrazia sonora. Parlare di Ornette Coleman senza evocare Don Cherry significa amputare una parte essenziale del percorso del sassofonista. La loro alleanza fu una delle rare alchimie, in cui due personalità distinte riuscirono a fondersi in un’unica visione, senza mai annullarsi. Un esempio luminoso di come la libertà, in musica come nella vita, possa nascere solo dal riconoscimento profondo dell’altro.

L’ascolto integrale di «Twins» consente di cogliere, in filigrana, l’evoluzione del pensiero musicale di Ornette Coleman in un arco temporale cruciale, in cui l’urgenza espressiva si fa metodo e l’improvvisazione si struttura come forma aperta, ma non arbitraria. Ogni frammento, pur nella sua autonomia, si innesta organicamente in un discorso più ampio, in cui la ricerca timbrica, la destrutturazione armonica e la dialettica tra individualità e collettività si intrecciano in modo inestricabile. In «First Take», la materia sonora si presenta allo stato incandescente, come magma primordiale in cui le voci strumentali si sovrappongono, si inseguono, si contraddicono e infine si fondono in un flusso continuo, privo di gerarchie. Il doppio quartetto, distribuito sui due canali stereofonici, non si limita a raddoppiare le forze in campo, ma moltiplica le possibilità di interazione, generando una polifonia dissonante e febbrile che anticipa le esperienze orchestrali di Skies Of America. L’assenza di un centro tonale stabile non produce disorientamento, bensì una nuova forma di coesione, fondata sull’ascolto reciproco e sull’intuizione istantanea. «Little Symphony» si configura come un momento di apparente distensione, ma sotto la superficie si avverte una tensione latente, un’irrequietezza che si manifesta nel fraseggio spezzato di Coleman e nei controtempi asciutti di Ed Blackwell. Il titolo stesso, ironicamente ambizioso, suggerisce la volontà di condensare in pochi minuti una forma sinfonica in miniatura, in cui ogni strumento assume un ruolo tematico e dialogico. La tromba di Don Cherry, più lirica che altrove, si muove con eleganza tra le pieghe del tessuto sonoro, evocando echi lontani di «Sketches Of Spain», ma privi di ogni patina esotica.

Con «Monk And The Nun», si entra in un territorio più chiaramente narrativo, dove la struttura del componimento sembra alludere ad una sorta di parabola sonora. Il contrasto tra l’ironia tagliente del titolo e la serietà quasi ascetica dell’esecuzione genera un cortocircuito semantico che richiama certe composizioni di Mingus, ma filtrate attraverso la lente obliqua del free. Il drumming di Billy Higgins, leggero e imprevedibile, accompagna con discrezione le volute del sax alto, che si fa voce interiore, meditativa ed al tempo stesso inquieta. «Check Up» rappresenta forse il vertice espressivo dell’intero lotto. La presenza di Scott LaFaro al contrabbasso introduce una dimensione armonica più rarefatta, quasi cameristica, in cui ogni nota sembra sospesa tra silenzio e suono. Coleman e Cherry si muovono come due esploratori in un paesaggio armonico in continua metamorfosi, evitando ogni cliché melodico ed affidandosi ad un linguaggio fatto di accenni, ellissi e frammenti. La batteria di Blackwell, mai invasiva, costruisce un reticolo ritmico che sostiene ed, al contempo, destabilizza come un terreno che si muove sotto i piedi. Infine, «Joy of a Toy» che, pur nella sua brevità, racchiude l’essenza della poetica colemaniana: gioia e rischio, gioco e rigore, spontaneità e costruzione. Il titolo, apparentemente leggero, cela una riflessione profonda sulla libertà creativa come atto di resilienza e di affermazione identitaria. Il quartetto, ormai affiatato, si muove con una naturalezza, frutto di un lungo processo di interiorizzazione del linguaggio comune, in cui ogni gesto musicale diventa sia individuale che collettivo. In questa sequenza non si assiste ad una semplice esposizione di materiali eterogenei, ma ad un vero e proprio racconto in forma musicale, dove ogni traccia rappresenta la tappa di un percorso di emancipazione sonora che ha segnato in modo indelebile la storia del jazz e della musica del Novecento.

Nel confronto tra «Free Jazz: A Collective Improvisation» e «The Shape Of Jazz To Come», l’album oggetto della nostra analisi si colloca come una sorta di ponte, o meglio, di camera d’eco, in cui risuonano le tensioni, le intuizioni e le contraddizioni che animano entrambi i poli di questa dialettica creativa. «The Shape Of Jazz To Come», registrato nel maggio del 1959, rappresenta l’atto fondativo della poetica colemaniana, con la sua rinuncia al pianoforte, la destrutturazione armonica e l’affermazione di una melodia libera da vincoli tonali, Free Jazz, inciso in un’unica sessione il 21 dicembre 1960, costituisce l’esplosione definitiva di quel linguaggio, portato alle estreme conseguenze attraverso l’adozione del doppio quartetto e della forma improvvisativa collettiva. Nel primo caso, la tensione tra forma e libertà si gioca ancora all’interno di strutture riconoscibili: brani come «Lonely Woman» o «Peace» mantengono una chiara identità tematica, pur aprendosi a sviluppi imprevedibili. La scrittura di Coleman, pur già radicale, conserva un lirismo struggente, una sorta di malinconia strutturale che si traduce in linee melodiche spezzate ma memorabili. In «Free Jazz», al contrario, la forma implode: l’intero album è una singola improvvisazione di oltre trentasette minuti, priva di cesure, in cui le voci strumentali si sovrappongono in un flusso continuo, interrotto solo da brevi fanfare precomposte che fungono da segnali di orientamento. L’ascoltatore non è più guidato da un tema, ma immerso in un campo sonoro in cui ogni elemento è al tempo stesso autonomo e interdipendente.

«Twins», che raccoglie «First Take» e le outtakes da «This Is Our Music» e da «Ornette!», si situa esattamente tra questi due estremi: da un lato, la traccia d’apertura anticipa l’estetica di «Free Jazz», con la sua opulenza timbrica e la struttura aperta; dall’altro, i pezzi successivi mantengono una forma più riconoscibile, in linea con l’approccio di «The Shape Of Jazz To Come». In questo senso, l’album si attesta come una sorta di laboratorio sonoro, in cui le diverse anime del progetto colemaniano coesistono e si confrontano. Non si tratta, dunque, di un’opera minore o accessoria, ma di un tassello fondamentale per comprendere la traiettoria di un musicista che ha saputo trasformare ogni registrazione in un atto di riflessione estetica. Se «The Shape Of Jazz To Come» è la dichiarazione d’intenti e «Free Jazz» la realizzazione utopica di quella visione, «Twins» ne rappresenta il processo fermentativo, il momento in cui l’idea si fa gesto, ma non ha ancora assunto la forma definitiva. È in questa tensione, in questa instabilità fertile, che risiede il suo valore più spendibile.

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