Il jazz che respira: libertà, forma e visione. «In Blue Times» di Stefano Cocco Cantini e Romano Zuffi (ft. Ares Tavolazzi e Alfredo Golino)

I generi non si sommano, si aggregano: il funk non è solo ritmo, ma tensione interna; il soul non è solo tinteggiatura decorativa, ma anelito viscerale; il progressive non è solo struttura, ma visione. Il risultato è un ambiente sonoro stratificato, mobile, in cui ogni passaggio diventa un luogo da attraversare più che una forma da ascoltare.
// di Francesco Cataldo Verrina //
Un jazz che non cerca definizioni, ma le dissolve. «In Blue Times», pubblicato da Alfa Music, si muove lungo una linea d’ombra dove la forma è sempre in divenire, e il suono diventa paesaggio. Non c’è un centro, ma una costellazione di presenze: il funk filtrato da una sensibilità mediterranea, il progressive che si fa introspezione timbrica, il soul che si insinua nei dettagli armonici del jazz. Un insieme che si tiene in equilibrio tra scrittura ed improvvisazione, tra gesto ed ascolto.
«In Blue Times» è un disco che nasce da un patto non scritto: quello tra amici che si ritrovano per suonare, senza etichette e senza confini. La musica si muove libera, come una conversazione tra spiriti affini, dove ogni strumento ha voce e respiro. Il titolo evoca un tempo sospeso, forse malinconico, ma mai statico. Gli arrangiamenti di Stefano «Cocco» Cantini non impongono, ma suggeriscono. Ogni musicista trova il proprio spazio, come in un affresco collettivo dove ogni pennellata ha senso solo nel dialogo con le altre. La presenza di Ares Tavolazzi al basso ed Alfredo Golino alla batteria garantisce una retroguardia ritmica solida ed assertiva, mentre le chitarre di Zeppetella, Stracciati e Marcucci aggiungono sfumature diverse, mai ridondanti. Il violino di Valentina Garofoli, la tromba di Andrea Lagi ed il flauto di Silvia Casalino ampliano la tavolozza timbrica, senza mai appesantirla. Il disco è dedicato a Giampaolo Talani, artista visivo che ha accompagnato con le sue opere l’intera collana. Un omaggio che non è solo formale, ma profondamente coerente: come Talani, anche questi musicisti dipingono con la luce e con l’ombra, cercando sempre il punto in cui il visibile si apre all’immaginazione.
L’ambiente sonoro è stratificato ma mai ridondante. I timbri si rincorrono come correnti sotterranee, e ogni strumento sembra parlare una lingua propria pur restando dentro un discorso collettivo. Il risultato è un jazz che non si rifà a una scuola, ma a un’idea: quella di un laboratorio aperto, dove la memoria si fonde con l’urgenza del presente. Un jazz che non si dichiara, ma si lascia attraversare. Un’energia che pulsa sotto la superficie, mai ostentata. Il jazz che attraversa «In Blue Times» non si rifà a un’estetica codificata, ma si lascia contaminare da tensioni funk, da aperture melodiche di matrice progressive e da una sensibilità armonica che guarda tanto nello specchietto retrovisore della tradizione quanto alla libertà formale. Ogni brano costituisce il frammento di un discorso più ampio, dove l’improvvisazione non è mai pretesto, ma necessità narrativa. Il risultato finale sancisce un’esperienza sonora coerente e sfaccettata, in cui la varietà timbrica non spezza l’unità, ma la rafforza.
«In Blue Times» si apre con l’omonimo brano, che stabilisce subito il tono dell’intero lavoro: un equilibrio tra libertà e struttura, tra scrittura ed improvvisazione. Il dialogo tra sax e tastiere si sviluppa come una perlustrazione timbrica, dove il groove non è mai invadente ma sempre funzionale alla narrazione. La sezione ritmica, solida e mai prevedibile, costruisce un terreno fertile per le linee melodiche, che si muovono con naturalezza tra tensione e rilascio. Con «Elba Island» si entra in una dimensione più rarefatta, quasi impressionistica. Il flauto ed il violino si rincorrono su un tappeto armonico che richiama paesaggi marini, ma senza indulgere nel descrittivismo. La chitarra jazz interviene con discrezione, cesellando frasi che sembrano emergere da una memoria lontana. L’arrangiamento lascia spazio al respiro, alla sospensione, come se ogni nota fosse un frammento di luce riflessa sull’acqua. «Fast Life» cambia registro, accelerando il passo senza perdere eleganza. Il costrutto si regge su un telaio ritmico nervoso, quasi cinematografico, dove il basso di Tavolazzi e la batteria di Golino si rincorrono in un gioco di incastri perfetti. Il sax si fa più tagliente, la chitarra elettrica introduce tensioni armoniche che non si risolvono mai del tutto, mantenendo viva una sensazione di urgenza. Con «Fine Agosto» si torna ad una scrittura più contemplativa. Il titolo suggerisce una fine, ma la musica racconta piuttosto una transizione. Il piano elettrico disegna linee morbide, mentre il violino e la chitarra si alternano in un contrappunto delicato. Il convoglio si muove con lentezza, ma senza cedere alla staticità: è una perifrasi sonora che vive di sfumature, di dettagli e di respiri.
«‘O Cafè» introduce un elemento di teatralità, giocando con la tradizione senza mai cadere nella caricatura. La voce di Jole Canelli si muove tra ironia ed affetto, sostenuta da un arrangiamento che mescola sapientemente elementi acustici ed inserti elettronici. Il flauto e la chitarra ritmica costruiscono un’atmosfera leggera, quasi da cabaret, ma sempre con una cura estetica impeccabile. «Prince» è un omaggio implicito, ma non didascalico. Il costrutto vibra di funk e sensualità, con la chitarra che guida il discorso armonico ed il sax che interviene come una voce interiore. Il groove risulta serrato ma mai aggressivo, e l’uso del synth contribuisce a creare una texture stratificata, fitta ma permeabile. «Rhodes Song» rappresenta un momento di raccoglimento. Il piano elettrico diviene protagonista assoluto, con un fraseggio che richiama certe atmosfere ECM, ma con una sensibilità melodica tutta italiana. Il sassofono entra solo nella seconda parte, come un’eco, un ricordo che riaffiora. Il line-up non cerca l’effetto, ma lavora per sottrazione, lasciando spazio al silenzio. «Sarà la Primavera» è una promessa sussurrata. La voce si annoda agli archi in un tessuto sonoro che richiama la forma della canzone d’autore, ma la supera per complessità armonica e libertà formale. Il piano acustico guida con discrezione, mentre il violino e la tromba aggiungono cromatismo e spessore. «Slow Soul» chiude il disco con un senso di compiutezza. Il tempo si dilata, il groove si fa ipnotico e la melodia si distende come un respiro lungo. Il sassofono canta, più che suonare, e la chitarra accompagna con tocchi essenziali. È un suggello che non chiude, ma apre un’uscita in dissolvenza, come se la musica continuasse altrove.
«In Blue Times» si muove lungo traiettorie ibride, dove la grammatica jazzistica s’interseziona con elementi funk, accensioni soul, aperture melodiche di matrice progressive ed una sensibilità armonica che rifugge ogni ortodossia. I generi non si sommano, si aggregano: il funk non è solo ritmo, ma tensione interna; il soul non è solo tinteggiatura decorativa, ma anelito viscerale; il progressive non è solo struttura, ma visione. Tutto si tiene in piedi attraverso un equilibrio dinamico, dove l’improvvisazione non è mai puro gesto, ma parte integrante di una confluenza corale, la cui risultante genera un ambiente sonoro stratificato, mobile, dove ogni passaggio diventa un luogo da perlustrare più che una forma da ascoltare.
