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L’Alexanderplatz non è solo un locale. È un luogo della memoria sonora, un archivio vivente di emozioni, un crocevia dove si incontrano generazioni, culture, storie. È uno di quei posti che non si raccontano, si vivono.

// di Francesco Cataldo Verrina //

Nel cuore di Roma, a pochi passi dal Vaticano, c’è un luogo dove il tempo sembra rallentare, dove le note non si limitano a riempire l’aria ma la scolpiscono. È l’Alexanderplatz Jazz Club, un seminterrato che da oltre quarant’anni pulsa al ritmo del jazz più autentico. Entrarci è come varcare una soglia invisibile: fuori il traffico, le luci, il brusio della città eterna; dentro, un mondo ovattato, intimo, fatto di riflessi policromi, luci basse e fotografie in bianco e nero che raccontano una storia che non ha mai smesso di suonare. È un luogo di culto per gli appassionati di jazz, paragonabile ai club storici di New York o Parigi. Ha saputo resistere al tempo, rinnovandosi senza perdere la sua anima. È un crocevia culturale dove si incontrano generazioni di musicisti, ascoltatori e curiosi.

Fu Giampiero Rubei, nel 1984, a immaginare questo rifugio per musicisti e appassionati. Lo chiamò Alexanderplatz, come la piazza berlinese, evocando un’Europa colta, inquieta, cosmopolita. Ma qui, sotto i palazzi di Prati, il jazz prese una voce tutta italiana, pur restando fedele alle sue radici afroamericane. Le parole di Giampiero, in un’intervista rilasciata a Metamorfosi nel 2011, descrivono profondamente il senso del locale: «Trenta anni fa, il jazz era una comunità di amici e appassionati che non avevano un punto di ritrovo. Decisi allora di trasformare questa mia passione in un’attività imprenditoriale ed è così che inaugurai l’Alexanderplatz. Oggi la comunità è sicuramente allargata e include differenti fasce di pubblico, grazie anche al fatto che in Italia la cultura del jazz ha preso piede, fino a diventare una moda. Ma ci sono voluti anni, in cui ho sempre aiutato a emergere il jazz e tanti giovani musicisti che oggi, per mia soddisfazione sono fortemente cresciuti». Le pareti, impregnate di fumo e applausi, hanno ascoltato i respiri di Wynton Marsalis, Brad Mehldau, Steve Coleman, Sarah Jane Morris, Fabrizio Bosso, Enrico Pieranunzi, Rita Marcotulli, Ares Tavolazzi, Julian Siegel, Israel Varela e tanti altri.

Ogni angolo conserva l’eco di un assolo, di una jam session improvvisata, di un silenzio carico di attesa prima dell’attacco. È considerato il più antico jazz club d’Italia ancora in attività ed uno dei 100 migliori jazz club al mondo. Il locale è piccolo, raccolto, con i tavoli così vicini al palco che puoi sentire il legno vibrare sotto i piedi del contrabbassista. Non c’è distanza tra chi suona e chi ascolta: è un rito collettivo, una confessione sussurrata in 4/4. La cucina serve piatti semplici, il bar mesce cocktail con nomi che sembrano titoli di standard. Ma nessuno viene qui per mangiare. Si viene per ascoltare. Per lasciarsi attraversare. Dopo la scomparsa di Giampiero, è stato il figlio Eugenio Rubei a raccogliere il testimone. Con rispetto e visione, ha aperto il club a nuove sonorità, mantenendo viva la fiamma. Ogni stagione è un viaggio: dal bebop al jazz contemporaneo, dal latin jazz alle contaminazioni elettroniche. Ma sempre con un unico imperativo: la qualità. L’Alexanderplatz non è solo un locale. È un luogo della memoria sonora, un archivio vivente di emozioni, un crocevia dove si incontrano generazioni, culture, storie. È uno di quei posti che non si raccontano, si vivono. Magari in una sera d’autunno, con un bicchiere in mano e un sax che piange dolcemente nel buio. L’Alexanderplatz Ospita concerti ogni sera alle 21:30, con apertura alle 20:00. L’ingresso è riservato ai soci (tessera annuale da circa 10 €).

Indirizzo: Via Ostia 9, quartiere Prati, Roma (a pochi passi dalla fermata metro Ottaviano e dai Musei Vaticani) / Telefono: +39 06 8678 1296 / Sito ufficiale: alexanderplatzjazz.com

Nel ventre del jazz

Roma, di notte, ha un suono tutto suo. È un respiro profondo che sale dai sampietrini, un sussurro che scivola lungo i vicoli, un’eco di passi e promesse. Ma c’è un punto preciso, in un angolo discreto del quartiere Prati, dove quel suono si fa carne, si fa vibrazione, si fa jazz. L’ingresso è anonimo, quasi timido. Una porta poco appariscente al livello della strada, come se il locale volesse nascondersi, o forse proteggersi. Ma appena varchi la soglia e scendi le scale, capisci che sei entrato in un altro mondo. Il soffitto è basso, le pareti scure, tappezzate di fotografie ingiallite e firme lasciate con il pennarello da mani tremanti dopo un assolo. L’aria sa di legno, di ottone, di storie. L’Alexanderplatz non è un locale. È un ventre. Un ventre caldo, pulsante, che accoglie chiunque abbia qualcosa da dire con uno strumento o con l’anima. Qui il tempo non scorre: ondeggia. Si piega al ritmo di un contrabbasso, si spezza in un colpo di rullante, si dissolve in un soffio di sax. C’è un tavolo in fondo alla sala, vicino al muro, dove si siedono sempre i più silenziosi. Non parlano, non applaudono. Ascoltano. E ogni tanto chiudono gli occhi, come se volessero trattenere dentro di sé ogni nota, ogni respiro. Forse sono musicisti. O forse sono solo anime che hanno bisogno di guarire.

Quella sera pioveva. Una pioggia sottile, quasi educata, che batteva piano sui marciapiedi come un vecchio batterista che non vuole disturbare. Dentro, il locale era già pieno. I tavoli occupati da coppie silenziose, da uomini soli con lo sguardo perso nel bicchiere, da giovani con gli occhi spalancati come se fossero entrati in un tempio. E in effetti lo erano. Sul palco, un quintetto stava accordando gli strumenti. Tromba, sassofono, contrabbasso, pianoforte, batteria. Nessuna voce. Nessun annuncio. Solo un cenno, e poi il primo accordo. Un Do minore che sembrava uscito da un sogno. E da lì, tutto cominciò. C’era una tromba che ruggiva. Non suonava: raccontava. Narrava di amori finiti, di treni persi, di notti insonni, tracciando una linea immaginaria tra New York e Roma. Il pianista era un uomo con le mani grandi. Ogni nota che toccava sembrava una carezza. Il contrabbassista, alto e magro, suonava con gli occhi chiusi, come se stesse pregando. Il batterista era nervoso, ma preciso. Insieme, erano una sola cosa. Una creatura a cinque teste che raccontava storie senza parole. E il pubblico ascoltava in silenzio, come si ascolta una confessione. Nessuno guardava l’orologio. Nessuno pensava al domani. C’era solo quel momento, e bastava. Dietro il bancone, un barista con aria vissuta preparava cocktail con la lentezza di un alchimista. Ogni bicchiere era un rito. Ogni brindisi, una preghiera. «Qui dentro non si beve per dimenticare,»disse una volta a un cliente, «si beve per ricordare meglio».

E poi c’era lei. Una donna seduta da sola, con un cappotto nero e un taccuino aperto. Scriveva tra un brano e l’altro. Non parole, ma segni, linee, curve. Disegnava la musica. Ogni nota diventava un gesto, ogni pausa un silenzio tracciato. Nessuno sapeva chi fosse. Ma tornava ogni settimana, sempre allo stesso tavolo, sempre con lo stesso sguardo assorto. Qualcuno diceva che fosse una pittrice. Altri, una musicista che aveva perso la voce. L’Alexanderplatz è così. Non ti chiede chi sei, da dove vieni, cosa fai. Ti chiede solo se sei disposto ad ascoltare. E se lo fai, davvero, allora ti apre le sue braccia. Ti accoglie. Ti cambia. Quando risalii le scale, fuori era ancora Roma. Ma dentro, qualcosa era diverso. Avevo il jazz nelle ossa. E non se ne sarebbe andato tanto presto.

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