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Al Foster – «Reflections» (Smoke Sessions Records, 2021)

// di Francesco Cataldo Verrina //

Oggi si è diffusa la notizia della morte di Al Foster, batterista di rango, noto soprattutto per la lunga collaborazione con Miles Davis, a partire dagli anni Settanta in poi. Foster ha, inoltre, operato a fianco di alcuni importanti nomi del jazz, tra cui Joe Henderson, Herbie Hancock, Sonny Rollins e McCoy Tyner. Non ci sono informazioni dettagliate sulle cause della morte o su eventuali malattie pregresse, ma fino al compimento del suo tempo terreno Foster è rimasto attivo sulla scena jazzistica mondiale, esibendosi sia come sideman che con il proprio quartetto/quintetto, di cui ricordiamo il recente album «Reflections», registrato a New York il 25 gennaio 2022 e pubblicato il 26 agosto dello stesso anno. Il batterista, all’epoca settantanovenne, confermò la sua inossidabile maestria ed un inconfondibile senso del ritmo, regalando al mondo degli uomini un’esperienza intensa e coinvolgente, attraverso il tipico mood delle vecchie registrazioni Blue Note. Parte del merito va attribuita all’etichetta Smoke Sessions, ormai riconosciuta come un vero e proprio marchio di qualità dagli appassionati di jazz ed intenta a distinguersi nel caos del mercato, grazie a produzioni di pregio in perfetto equilibrio fra innovazione e tradizione ma, soprattutto, in grado di preservare e valorizzare il jazz nella sua essenza più autentica.

L’album «Reflections» è la sintesi di un rendez-vous trans-generazionale, in occasione del quale il quasi ottantenne Foster si circondò di quattro ardimentosi cavalieri del jazz contemporaneo: Nicholas Payton alla tromba, Chris Potter ai sassofoni, Kevin Hays al pianoforte e tastiere, Vicente Archer al contrabbasso, innescando un interscambio cinetico e mozzafiato, capace di inchiodare gli ascoltatori alle corde per l’intera durata del disco. Durante le sedute di registrazione, l’approccio swingante e distintivo de vecchio Al rappresentò l’hub di collegamento fra i vari linguaggi musicali «parlati» dai suoi compagni di viaggio, garantendo un ascolto sinestetico, coinvolgente ed interattivo. Tra i punti salienti del disco emergono composizioni poco praticate tratte dal libro dei sogni di alcuni jazzmen di riferimento del batterista, oltre ad una personalissima rilettura di «Half Nelson», firmata Miles Davis: un tributo particolarmente significativo in considerazione del lungo morganatico artistico tra Foster ed il trombettista. A completare l’opera, le brillanti composizioni saltate fuori dal cilindro magico di Payton e Potter, le quali elevano ulteriormente il livello del progetto.

«T.S. Monk» si sostanzia come un tributo versato nelle casse di Thelonious, con un groove incisivo ed un articolato interplay tra i cinque sodali. «Pent-Up House» ritorna in auge come un quadretto rollinsiano reinterpretato con giovanile energia e rivitalizzato con iniezioni di linfa creativa da parte della prima linea di fuoco. «Open Plains» è una composizione di Chris Potter, contrassegnata da ampie aperture melodiche e da un incontrollabile senso di libertà armonica. «Blues On The Corner», un tributo al catalogo di McCoy Tyner, viene restituito agli abitanti del Pianeta Terra sulla scorta di un blues strutturato che mette in risalto il fraseggio dei vari solisti. «Anastasia» è un originale dal carattere lirico e intimista a firma Al Foster, il quale ne tratteggia i contrafforti con un drumming elegante e misurato. «Six», firmato da Nicholas Payton, trova il suo tratto si distintivo nel ritmo incalzante ed attraverso setose linee melodiche. «Punjab», tirato fuori dal ripostiglio di Joe Henderson, viene riproposto con un sound più moderno ed un interplay circolare. «Beat» è una composizione di Kevin Hays, forte di un groove pulsante ed alimentato da progressioni armoniche piuttosto dilatate, implementate tramite un uso non convenzionale della tastiera. In «Alone And I», a firma Herbie Hancock, tutto il line-up raggiunge un’abissale espressività esecutiva. «Half Nelson» è una creazione davisiana che Foster fa sua, evocando il passato di signore dei tamburi alla corte del trombettista. In chiusura, con «Monk’s Bossa» arriva il secondo omaggio al Monaco, questa volta con un ritmo esotico che aggiunge un tocco di leggerezza e festosità all’intero concept. «Reflections» è una perlustrazione ben organizzata attraverso le varie epoche e le diverse sfumature del jazz. La qualità dell’esecuzione, la varietà del repertorio, ma soprattutto l’equilibrata collegialità tra gli strumentisti ne fanno un piccolo gioiello di arte jazzistica, senza limiti spazio-temporali.

Al Foster

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