Gli Extra Sauce seguono le coordinate di una musica polimatica, una cuspide sonora, appollaiata nel punto nevralgico in cui confluiscono vari stilemi di matrice afro-americana, non necessariamente riconducibile a quella sistematicità tipica di chi opera in un habitat creativo circoscritto e monotematico…

// di Francesco Cataldo Verrina //

Dal dopoguerra in avanti, nel mondo del jazz, il numero di componenti di un ensemble si è progressivamente ridotto, sino a giungere ad alcune formule largamente diffuse come il quintetto ed il quartetto, senza tralasciare l’affermazione del piano trio o del trio pianoless, quali espressioni strumentali basate sul concetto di sottrazione, di minimalismo, sovente anche armonico, nonché di moltiplicazione sensoriale più che audiotattile. Nel corso della sua evoluzione, l’idioma jazzistico ha subito significativi cambiamenti, affidandosi spesso al genio del singolo, i cui talenti hanno finito per deporre a vantaggio del virtuosismo e del tecnicismo individuale, a discapito della collegialità e della ricchezza timbrica e cromatica, allontanando sempre più il jazz, nell’accezione più larga del termine, dal modulo compositivo ed espressivo originario. L’arrivo di un settetto, che irrompe sulla scena con tutta la sua energia cinetica, mette a dura prova le incrollabili convinzioni di certuni, specie se basate sul concetto di ad maximum per minimum. Giocando ancora con le metafore, possiamo affermare, senza tema di smentita, che gli Extra Sauce siano un inno votivo alla dea della fecondità e dell’abbondanza in un’epoca di raccolti creativi al quanto grami e di cinghie mentalmente tirate.

Al ricco intreccio strumentale, gli Extra Sauce aggiungono anche una carica di ironia e gioiosità, particolarmente in un’era in cui talune formule alchemiche brevettate nelle foreste del Nord Europa, il più delle volte, imbrigliano il jazz, o sedicente tale, in un mutismo asfittico e cerebroide, fatto di concetti sussurrati e soporiferi. Per contro, gli Extra Sauce, che sembrano muoversi idealmente fra Los Angeles e Chicago, fra Boston e New York, seguono le coordinate di una musica polimatica, una cuspide sonora appollaiata nel punto nevralgico in cui confluiscono vari stilemi di matrice afro-americana, jazz funk, soul, rock, blues, R&B, e non necessariamente riconducibile a quell’organicità o sistematicità tipica di chi opera in habitat mentale circoscritto e monotematico. Perfino la scelta del nome, nel gergo, è già qualcosa di provocatorio e di sfuggente che si spinge oltre le colonne d’Ercole di una banalità perimetrabile, così come il titolo del loro colorato CD, dove si ritraggono in copertina cartoonizzati: «Extravaganza», in effetti, non è solo sinonimo di stravaganza estetica, visiva o comportamentale, ma diventa l’epitome di una struttura sonora concettualmente vagante ed in movimento, simile ad un viaggio no-limits che si snoda in più direzioni sulla spinta di un sound fortemente propulsivo. «Comporre e registrare Extravaganza – spiega la band nelle note di copertina – è stato un viaggio incredibile che vogliamo condividere con tutti coloro che ci circondano. Crediamo che la musica sia una straordinaria forma di comunicazione e speriamo che i nostri brani siano in grado di accendere una scintilla d’interesse per le composizioni strumentali, mostrando cosa sono davvero: una tela di emozioni che ognuno può interpretare a modo suo».

L’ensemble perugino è composto da Emanuele Caporali Sassofono , Davide Zucchini Tromba, Santiago Fernandez Tastiere, Federico Papaianni Chitarra, Ruggero Bonucci Basso, Simone Chiavini Percussioni, Alessio Lucaroni Batteria, i quali esprimono singolarmente personalità marcate ed evidenti, producendo soprattutto nell’atto creativo ed esecutivo una ricchezza di suoni e situazioni molteplici. In genere, le loro composizioni nascono da un’idea e da uno spunto suggerito da un singolo componente del gruppo e poi collegialmente sviluppato e locupletato in studio o in sala prove. L’album «Estravaganza» nasce e si sostanzia su tali presupposti, attraverso una fusion multitasking e speziata, tanto per rimanere in linea con il nome dell’ensemble. Basta l’iniziale «Faster», che in genere viene usata come opening-act durante le esibizioni dal vivo, per comprendere ch ei nostri «magnifici sette» intendano colpire non solo la mente ma anche la muscolatura liscia e striata dell’ascoltatore, il quale viene travolto da una ventata di brass-funk ad alta energia, a metà stra tra Earth Wind & Fire e i Mezzoforte. «Flying West» è mid-range con un passaporto soul-jazz, basto su una melodia sospesa, onirica ed a facile combustione introdotta dalle tastiere con sonorità churching da organo soul-gospel e poi sviluppata in progressione dai fiati con un atteggiamento quasi shorteriano che ricorda i Weather Reporter e talune ambientazioni spaziali alla Sly & The Family Stone. Non mancano neppure i rimandi al Miles Davis elettrico, ma quello più tardivo e vicino al soul-funk come si avverte nella suadente «By The Star». Va da sé che ogni strumentista possa tendere ad un minimo di citazionismo legato al proprio bagaglio culturale. Non è difficile immaginare il bassista idealmente alle prese con il taccuino degli appunti di Jaco Pastorius, il chitarrista in chat con Pat Metheny o il batterista sintonizzato su Steve Gadd. Sono, ovviamente, solo suggestioni.

Gli Extra Souce sguazzano con disinvoltura nell’ambito di una fusion contemporanea, figlia, però di un glorioso passato, in cui taluni nomi si ergono come paradigmi ispirativi insormontabili. Al netto di ogni congettura, i settetto ha ben introiettato la lezione dei vari «maestri d’arme», incanalandola in un flusso di idee piuttosto personali e distintive, di cui «Winners And Losers», con la sua struttura ricca di cambi di passo ed improvvisazioni a lunga gittata, ne è la dimostrazione lampante. In un gorgo di energia non mancano neppure momenti più meditativi e crepuscolari come «Departures», componimento segnato da una melodia dal gusto vagamente retrò e cinematografico, una viaggevole ballata metropolitana, lungo le strade di una città notturna e silente, in cui si avverte il senso della partenza e del distacco. Non a caso, la successiva «Late Night Experience» sembrerebbe legata al medesimo mood, ma in maniera più risolta: il groove funkified, distillato da una retroguardia ritmica, che non lascia aria ferma, spinge i fiati e la chitarra verso soluzioni verticali ed un interscambio che ricorda gli immarcescibili Blood, Sweat & Tears. Il disco si chiude con «Ephedra (Bob P)», che prende il nome dall’erba da cui si estrae l’efedrina, uno stimolante del sistema nervoso centrale. Trattasi di un’originalissima costruzione progressiva: dopo un inizio a passo felpato, il crescendo improvvisativo si dipana in moltissime direzioni, pagando un piccolo tributo a certe soluzioni fusion tipiche di Herbie Hancock, con le tastiere tese a dare, sistematicamente la spinta a tutto l’insieme. «Extavaganza» degli Extra Sauce» non è un’opera rivoluzionaria o avanguardistica, probabilmente non è neppure nelle corde e nelle intenzioni dell’ensemble umbro giungere a soluzioni paludate, intellettualoidi o anemiche, il loro è un sound fisico e sorgivo, che fa battere le mani, muovere i piedi ed aumentare il battito del polso.

Extra Sauce

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