«The Ramblin Trio», Daniele Cavallanti / Alberto N.A. Turra / Marco Cavani: tre uomini in fuga dalle convenzioni

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Cavallanti

«The Ramblin Trio» non è una pozione facilmente metabolizzabile o una passeggiata su un viale alberato con il cinguettio degli usignoli, per contro, però, contiene una ricerca poetica nell’essenza del suono, nell’extra-territorialità ideativa e nella moltiplicazione del ritmo, ma soprattutto in quel costante distacco dai vincoli del passato e nella fuga dalle convenzioni del presente.

// di Francesco Cataldo Verrina //

Non appena il play del lettore CD viene azionato, si apre immediatamente uno squarcio come un una folgore in cielo ed una grandinata di suoni investe l’ambiente circostante, mentre la furia degli elementi sonori si scatena. «One Time Out», l’opener del nuovo concept del trittico Cavallanti, Turra e Cavani fissa subito i punti di ancoraggio dell’impervio ed accidentato tratturo musicale che l’ascoltatore si accinge a percorrere. È come se un’onda anomala di free jazz sputata fuori da un sax come da un lancia fiamme o dalla bocca di un drago a tre teste si trascinasse dietro la furia di una chitarra acida e gravida di suoni come una prolifica fattrice ed il groove di un incessante kit percussivo capace di vendere l’anima ai demoni del punk-rock. Il pavido cultore del jazz mainstream potrebbe esclamare con il fiato in gola ed atterrito dalla paura: «Tremate, le streghe son tornate». Metafore a parte, dopo un attento ascolto ci si avvede di quanto ampio sia lo spettro sonoro dei tre musicisti i quali fanno colazione con Ornette Coleman, pranzano a casa di Jimi Hendrix, giocano a carte scoperte con Albert Ayler, si consultano con Paul Motian, citato proprio nell’iniziale «One Time Out», per poi abbandonarli al loro destino infilandosi in cunicolo di suoni che sembrano fuoriuscire da ogni latitudine, fino a trovare il nucleo gravitazionale della propria dimensione, a cui è difficile dare un’etichetta, se non la comoda definizione di avant-jazz-rock, dove l’estetica del free-form, dell’atonale sottovuoto e dell’ipermodale spinto tocca i fili elettrici di un’alta tensione emotiva e compositiva.

Tra Daniele Cavallanti, sassofonista tenore, dal registro inquieto e multitasking ed i due sodali, Alberto N.A Turra, chitarrista elettrico ad alto consumo energetico e Marco Cavani, batterista proteiforme dal tratteggio ritmico incisivo e multilaterale, c’è quasi un gap generazionale, circa vent’anni di differenza, ma la musica appiana perfettamente le divergenze e colma il divario anagrafico attraverso un incontro-scontro, non conflittuale ma dialogico, che si regge sulla tensione superficiale di un equilibrio solo apparentemente instabile. Turra e Cavani condividono, da una quindicina d’anni, una filosofia improntata alla ricerca dell’energia creativa che, nel sodalizio con Cavallanti, musicista esploratore di mondi alieni degli stereotipi del vernacolo jazzistico, trovano un perfetto punto di rottura e di sutura. A più distratti ricordiamo che Daniele è attivo sulla scena nazionale ed internazionale dal 1970. Fondatore e leader, con Tiziano Tononi, della storica band Nexus, membro fondatore della celebrata Italian Instabile Orchestra, Cavallanti ha suonato in tutta Europa, Canada, Stati Uniti e Giappone al fianco di un’interminabile ed eccelsa nomenclatura di musicisti che rendono il suo background simile ad una cassaforte che custodisce un pezzo di storia della musica improvvisata del ‘900. Ciononostante il concept si dipana su una piattaforma inter pares, dove a tratti il risultato finale è addirittura superiore alla somma delle singole parti in causa. L’arrivo di «Angel» di Jimi Hendrix, moltiplica immediatamente le capacità espressive di ciascuno dei tre attanti sulla scena, spostando il gioco di squadra su un altro campo d’azione, dove l’incedere quasi descrittivo della batteria innesca il soffio serpentino ed ispettivo del sax che si lega e si alterna con una chitarra abrasiva ma portatrice istanze armoniche a controllo numerico che il sassofono intercetta e tramuta in un lirismo sofferente e febbricitante.

«Drunk In The Desert» incanalato dal flusso poliritmico, lucido, ma volutamente barcollante ed ebro di Marco Cavani, offre suggestioni molteplici, quasi alla Charles Lloyd, in cui il rapporto tra sax e chitarra diventa quasi mutualistico, con la differenza che Lloyd vaga nei deserti alcolici del Tex-Mex, mentre il sodalizio Cavallanti-Turra si ammanta di suggestioni più metropolitane, dove il deserto e quasi esistenziale e rappresentativo dell’incomunicabilità umana nell’era del web 4.0. «Horse» è come un cavallo di Troia, abbandonato nel cuore di un metropoli decadente da cui, come guerrieri, in una notte senza luna fuoriescono fiotti di acido lisergico distillato dall’alchemica compliance tra chitarra, sassofono e batteria. «Nexus Calling» espelle tutta la rabbia del jazz a trazione anteriore di Cavallanti, attraverso una progressione in verticale scrostante e caustica, a cui risponde la chitarra distorta e riottosa di Turra, mentre Cavani non lascia aria ferma. «Buphagos In Rhinos» e una ballata mineraria e non convenzionale introdotta dalla chitarra, che emerge quasi dal sottosuolo, condividendo con il sax una melodia ricca di pathos e fissata sui contrasti strumentali per timbro e cromatismi, dove anime vaganti s’imbattono in volti in dissolvenza come in una sequenza cinematografica. «JG» è la rappresentazione plastica della rottura degli schemi armonici calata in caos di free-rock-jazz materico e terreno che si placa solo nell’atto finale. «Ramblin», quasi nomen omen, racchiude in sé la summa delle parti, con un effetto jam in cui, dapprima, la chitarra ed, a seguire, il sax delimitano un proprio karma espressivo in maniera quasi anarcoide, per poi giungere ad un punto di confluenza, mentre la batteria fa collettore e da indicatore di rotta. Pubblicato dall’etichetta indipendente Setola di Maiale, «The Ramblin Trio» non è una pozione facilmente metabolizzabile o una passeggiata su un viale alberato con il cinguettio degli usignoli, per contro, però, contiene una ricerca poetica nell’essenza del suono, nell’extra-territorialità ideativa e nella moltiplicazione del ritmo, ma soprattutto in quel costante distacco dai vincoli del passato e nella fuga dalle convenzioni del presente.

The Ramblin Trio
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