«Yama» di Art Farmer e Joe Henderson, un piccolo capolavoro sfuggito al controllo dei radar

Il concept di «Yama» è legato allo Yoga, idea chiarita da Art Farmer in un’intervista a CBS Radio: «Prima di tutto ti riunisci con te stesso. Poi ti riunisci con il tuo strumento. Infine, si arriva alla comunicazione diretta con le persone con cui si suona e con quelle per cui ci si esibisce».
// di Francesco Cataldo Verrina //
Alla fine degli anni Settanta uno degli errori più comuni di una certa critica era quello di tenere indietro le lancette della storia, ferme intorno alla metà del decennio precedente, e di continuare a guardare nello specchietto retrovisore dovendo giudicare i prodotti del momento, certamente non paragonabili a quelli della grande epopea bop, ma figli di un’era diversa. Nel 1979 l’America, pur essendo un paese ancora solcato da innumerevoli contraddizioni, appariva sicuramente un posto migliore in cui vivere per le minoranze etniche: gli Afro-Americani avevano ottenuto, almeno sulla carta, una certa parità di diritti ed in quel momento dominavano ancora la scena mondiale, non con il jazz (che armi e bagagli si era trasferito in massima parte nell’Europa continentale, lo stesso Art Farmer viveva Vienna dal 1968) ma con un surrogato del funk, la disco-music. Lo studio di Rudy Van Gelder aveva assunto le sembianze di santuario adatto ai pellegrinaggi dei vecchi cultori dell’hard bop o usato per lavori di rifinitura, mentre al centro del mondo c’erano i Power Station Studios di New York, in cui gli Chic e Nile Rodgers distillavano il suono del momento basato su break-beat. Perfino Alan Sorrenti registrò in quelle sale metà del suo album più venduto, «N.Y. & L.A.», titolo basato sulle iniziali di New York e Los Angeles.
I dischi prodotti dalla CTI di Creed Taylor (che storicamente ha almeno il merito di aver fondato la Impulse! Records), pur non essendo mai rivoluzionari ed innovativi, avevano il pregio di essere tecnicamente impeccabili e di saper intercettare lo spirito del tempo: nello specifico quello dell’anno di grazia 1979. Così, l’album, «Yama», che vede la conurbazione artistica di Art farmer e Joe Henderson, non sfugge a questa regola. E sarebbe ozioso e pretenzioso al contempo volerlo giudicare, pensando a quanto i due musicisti avevano fatto in passato, singolarmente o per conto terzi. Farmer e Henderson erano entrambi originari dell’Iowa, ma le affinità finivano qui: Art si era formato sulla scena losangelina, mentre Joe aveva dapprima affinato il suo talento a Detroit e in seguito suonando in una banda dell’esercito. Farmer era già da tempo a New York quando Henderson vi giunse nei primi anni Sessanta, proprio mentre l’esperienza del Jazztet del trombettista-flicornista era giunta al capolinea ed il suo quartetto con Jim Hall stava emanando i primi vagiti. «Yama» rappresenta, teoricamente, l’unica volta in cui Art Farmer e Joe Henderson registrarono un disco insieme. Ma non è detta! Conoscendo le nuove tecniche di registrazione multitraccia adottate alla fine degli anni ’70, anche in questo caso, i due potrebbero non essere stati in studio nello stesso momento. Art Farmer lavorò sotto l’egida di Creed Taylor un paio d’anni, tra il 1977 e il 1979, pubblicando cinque album, di cui «Yama» fu l’ultimo, e durante alcune sessioni come sideman al soldo di Oscar Pettiford, Candido e Quincy Jones. In seguito Art fece capolino in alcuni lavori di Bob James, di Yusef Lateef e dell’All-Star Rhythmstick. Dal canto suo, Joe era stato poche volte a contatto con Creed Taylor. Il sassofonista può essere ascoltato in alcune tracce di «Tell It Like It Is» (1969) di George Benson, «Red Clay» (1970) e «Straight Life» (1971) di Freddie Hubbard (Hubbard e Henderson, qualche tempo prima, avevano guidato un gruppo chiamato The Jazz Communicators) e «All Blues» (1973) di Ron Carter.
Le sorti dell’etichetta, all’epoca in declino, probabilmente impedirono ulteriori pubblicazioni di Joe Henderson per la CTI. Quando, circa quarantaquattro anni addietro, «Yama» arrivò negli scaffali dei negozi pochi se ne accorsero. Il disco finì nel dimenticatoio sfuggendo così al controllo dei radar, complice una critica spocchiosa e prevenuta. Volendo riposizionare le carte nautiche della storica, va detto che, come frutto della sua stagione, «Yama» di Art Farmer e Joe Henderson costituisce un lavoro eccellente ed anche qualcosa in più, poiché indica la strada per un jazz mainstream post-fusion con qualche lieve inclinazione verso lo smooth-jazz, che ben si accordava con quel desiderio di musica più «digeribile» e scevra da intellettualismi, tipica degli anni Ottanta, quando il jazz sposava le istanze del funk e dei nuovi linguaggi maturati nell’ambito della cultura afro-americana. L’album si sostanzia attraverso cinque tracce a firma Clare Fischer, Joe Zawinul, Don Grolnick e Mike Mainieri. La struttura dei componimenti e l’arrangiamento risentono molto, come già detto, dello spirito dei tempi, dove un’ottima sezione ritmica di stampo funkified si amalgama perfettamente allo stile post-bop di Farmer ed Henderson, i quali si erano costantemente mossi e spostati su un differente asse longitudinale e laterale dell’universo jazz, non riuscendo mai ad incontrarsi nello stesso punto. Henderson era assurto agli onori della cronaca con «Una Mas» di Kenny Dorham e «Song for My Father» di Horace Silver, partecipando a circa una trentina di album Blue Note, cinque in veste di band-leader. Mentre il Art si «rifugiava» in l’Europa, Joe, che si si era trasferito definitivamente a San Francisco, tra il 1968 e il 1976 realizzò una serie di dischi per Milestone apprezzati solo ex-post. Dopo un periodo difficile Henderson, alla fine degli anni Ottanta, avrebbe nuovamente incontrato il successo e riassaporato gli onori della cronaca grazie all’etichetta italiana Red Records; una fase propedeutica al suo definitivo rilancio internazionale con la Verve, che lo avrebbe portato a vincere alcuni Grammy Awards.
Uno dei valori aggiunti di «Yama» fu certamente la partecipazione del compositore, arrangiatore, produttore, tastierista, percussionista, nonché vibrafonista Mike Mainieri. In verità si percepiscono, in nuce, alcuni elementi che avrebbero caratterizzato il futuro suono degli Steps Ahead. Il disco lascia l’amaro in bocca per la sua genesi e per il fatto che forse Art farmer e Joe Henderson avrebbero potuto incontrarsi più spesso nel corso della storia e successivamente a tale esperienza. La sessioni vennero fissate su nastro nell’aprile del 1979 e sembra che inizialmente il ruolo di Farmer e Henderson avrebbe dovuto essere coperto dai fratelli Brecker, (probabilmente in qualche archivio esiste molto di più dei cinque brani contenuti nell’album). Si ritiene che «Yama» sarebbe stato annunciato come il disco dell’anno della CTI che, avendo terminato i fondi, lo lasciò insieme ad altre registrazioni in un cassetto. «Yama» fu comunque pubblicato quello stesso anno solo in Giappone, mentre negli Stati Uniti ed in Europa si dovette attendere fino a maggio del 1982. L’album si apre con «Dulzura» (in spagnolo «dolcezza»)firmata di Clare Fischer, quasi una ballata apotropaica dal sapore antico in cui prima Farmer e poi Henderson si destreggiano abilmente su una melodia che offre ai due comprimari l’opportunità di esprimersi secondo il loro tipico stile narrativo: Art appare più disteso, lirico e sognante, mentre Joe rivolta il costrutto tematico com un intreccio di note più sofferto ed imprevedibile: la cosiddetta legge del compenso. «Stop (Think Again)» non è proprio uno standard jazz, ma è una composizione dei Bee Gees, originariamente contenuta in «Spirits Having Flown», il primo album del trio dopo il successo della Saturday Night Fever». Il costrutto tematico mette in evidenza la notevole predisposizione dei fratelli Gibb per le melodie di forte impatto ma non banali che, nello specifico, consentirono soprattutto ad Henderson di giocare su un terreno impervio e post-modale e a Farmer di arrotondarne le spigolosità trascinando il flusso melodico in un’ambientazione latin-funk, complice l’ottima sezione ritmico-percussiva.
«Young and Fine» di Joe Zawinul, apparsa già l’anno precedente sull’album «Mr. Gone» dei Weather Report, è una ballata dalle striature liriche particolarmente accentuate, in cui Farmer mette la sordina aumentandone il languore ed il senso di struggente malinconia, mentre Henderson spennella note calde e pastose evitando di diventare un clone di Wayne Shorter. La B-Side si apre con «Lotus Blossom», un vero preludio a quella che sarebbe stata la fusion leggera e da airplay radiofonico degli anni successivi. Il componimento era stato usato per la prima volta nell’album «Heart to Heart» di David Sanborn del 1978, sempre con Mainieri, il quale in questo set apporta un marcato contributo personale suonando il vibrafono ed inserendosi come uno spartiacque nel dominante dualismo di Art Farmer e Joe Henderson che porta la voce del sax ad un livello superiore di espressione jazzistica rispetto al più divagante Sanborn. Il set si conclude con «Blue Montreux», scritta da Mike Mainieri, un piacevole excursus sonoro infarcito di funk metropolitano, ottimo terreno di coltura per il sax di Henderson e la tromba di Farmer, foraggiati in maniera puntuale e sinergica dalla retroguardia ritmica: Mike Mainieri sintetizzatore e vibrafono, David Spinozza e John Tropea chitarra, Don Grolnick, Fred Hersch e Warren Bernhardt tastiere, Will Lee basso elettrico, Eddie Gomez contrabbasso, Steve Gadd batteria e Sammy Figueroa percussioni. Il concept di «Yama» è legato allo Yoga, idea chiarita da Art Farmer in un’intervista a CBS Radio: «Prima di tutto ti riunisci con te stesso. Poi ti riunisci con il tuo strumento. Infine, si arriva alla comunicazione diretta con le persone con cui si suona e con quelle per cui ci si esibisce». Ecco quanto si legge nelle note di copertina, «Nello Yoga, Yama è il primo gradino della scala che porta alla realizzazione del sé. Yama è anche una parola giapponese che indica la montagna».

