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«Il 13 maggio 1988 Chet Baker morì precipitando da una finestra del Prins Hendrik Hotel di Amsterdam, probabilmente sotto l’effetto di droghe».

// di Francesco Cataldo Verrina //

A partire dagli anni ’50, Chet Baker è stato un personaggio molto amato nel mondo del jazz, del jet-set e delle riviste scandalistiche, ma soprattutto di forte impatto mediatico: bello e con l’aria da guascone «ciupafemmine», al contempo misterioso e sofferente. Uno dei suoi album più famosi del primo periodo, realizzato insieme al sassofonista Art Pepper, un altro bello e dannato, fu pubblicato addirittura con il titolo «Playboy», in seguito ritirato dal commercio per motivi di copyright. Quasi un atteggiamento cinematografico il suo, tanto da incarnare la figura di un James Dean del jazz, pronto a vivere ad alta velocità, incurante delle insidie e della caducità di una popolarità precaria e legata sempre all’altrui consenso; una vita costantemente vissuta sul filo del rasoio che spesso lo ha condotto a situazioni estreme: droga, carcere, momenti povertà e di umiliazione, come il dover suonare nei locali più malfamati per procurarsi qualche dose di eroina. Ciononostante è riuscito ad avere una carriera, tra alti e bassi, piuttosto lunga, durata oltre trentennio, consegnando ai posteri delle piccole gemme musicali e una fitta discografia che supera i duecento album.

Considerato inizialmente una sorta di Miles Davis minore, Baker dimostrò di avere una sua personalità musicale, caratterizzata da un fraseggio morbido e spaziato, al quale accompagnava sovente un canto struggente, per questo fu sempre ritenuto più vicino al «cool» di stampo californiano, che non al bop di matrice afro-americana che imperversava nei primi anni della sua attività. Memorabili, fra le tante, le collaborazioni con Gerry Mulligan, con il quale per un certo periodo trovo un’unità d’intenti straordinaria e, nella band del baritonista, una sorta di approdo sicuro e un alveo protettivo. La sua vita spericolata non ne fece, fortunatamente, un martire, uno di quei musicisti morti in età giovanile, intorno a quali si è costruito un alone di leggenda. Chet Baker ha sofferto e vissuto, lasciando il mondo degli uomini a 59 anni, anche se in una circostanza drammatica, ossia precipitando dalla finestra di un albergo, forse perché sotto l’effetto di alcool e droghe. Le circostanze della sua morte furono piuttosto oscure, ma la versione ufficiale dell’incidente resta comunque la più accreditata. La targa posta a memoria all’esterno dell’albergo recita: «Il trombettista e cantante Chet Baker morì in questo luogo il 13 maggio 1988. Egli vivrà nella sua musica per tutti quelli che vorranno ascoltarla e capirla».

Il periodo passato nei paesi del Nord Europa, che lo legò per alcuni anni alla danese SteepleChase, fu tra i migliori della frastagliata carriera dell’irrequieto trombettista, il quale, dismessi i panni dell’eroe maudit, si era concentrato maggiormente sulla musica e sullo strumento. La calda accoglienza, umana ed artistica, ricevuta in quei luoghi e la spalla di musicisti di ottimo livello pronti a collaborare con lui, lo ripagavano di un lungo periodo di precarietà e di nomadismo discografico. Alcuni dei dischi realizzati a partire dalla fine degli anni ’70 sono di una liricità intensa e coinvolgente, c’è tutta la forza interiore di un uomo che aveva conosciuto i piaceri della vita, ma anche il distacco, l’emarginazione e l’umiliazione a causa di certe scelte non condivise dai ben pensanti; da queste opere si evince tutto il tormento di un uomo che avverte l’odore della fine, consapevole che il traguardo finale e l’atto conclusivo della vita siano vicini; un’esistenza vissuta a grande velocità, pur sapendo che sarebbe stato difficile tornare indietro. Sono tre gli album, provenienti da master analogico e ristampati dalla SteepleChase su vinile 180 gr. con qualità audiofila, che meritano di essere segnalati in particolare. Non da meno il quarto disco realizzato con la tedesca ENJA.

Chet Baker Quartet – «No Problem», 1979

Album registrato il 2 ottobre del 1979, che, come tutti quelli dell’ultimo periodo di Chet Baker, ha un sapore particolare, un misto di lirismo e nostalgia che affascina. Tutte i pezzi composti appositamente per lui sembrano tracciarne perfettamente lo stato d’animo di quel periodo di calma apparente. Parliamo di una sapiente esecuzione di jazz acustico-neo-bop assolutamente distensivo, lineare ed evocativo, dove il trombettista non ha bisogno di correre con il fiato in gola per arrivare alla meta e rivoltare i sentimenti umani e le umane paturnie come un calzino. Tutte le tracce, a cominciare dalla title-track, «No Problem», scendono in profondità senza intorbidire le acque: cristallino il fraseggio pianistico del sodale Duke Jordan, autore di tutti i brani, che sembra agevolare la tromba di Chet, aprendo intriganti varchi espressivi. Il quartetto propone un repertorio, che pur attardandosi sulle note con passo insicuro, come colui che cerca un varco nella fitta oscurità dei sentimenti, risulta molto ispirato. Estremamente raffinato il tappeto ritmico steso da Niels-Henning Ørsted Pedersen al basso e Norman Fearrington alla batteria. Fra i tratti salienti dell’album segnaliamo, oltre alla già citata title-track, «Glad I Met Pat» , «Kiss Of Spain» e «The Fuzz».

Chet Baker – «The Touch Of Your Lips», 1980

Registrato il 21 giugno 1979 in Danimarca e dato alle stampe per al prima volta nel 1980, «The Touch Of Your Lips» descrive perfettamente lo stato d’animo del trombettista e l’ambientazione sonora degli ultimi anni della sua vita: una rinascita artistica nel segno della maturità. Baker che canta anche in due dei sei brani, affronta alcuni standard in maniera molto rilassata, ma convincente, emanando un’intensa energia emotiva, talvolta non presente in tanti dischi della sua giovinezza artistica. Del resto, il titolo dell’album è emblematico: “la carezza delle tue labbra”. Calato in un ambiente assai confortevole, umanamente e tecnicamente, Baker è accompagnato dal chitarrista Doug Raney e dal bassista Niels-Henning Ørsted Pedersen. L’assenza di una vera sezione ritmica, soprattutto di un batterista, favorisce l’efficacia espressiva ed i suoi assoli assumono un carattere fortemente lirico, mentre il chitarrista, Raney, alimenta il fuoco del pathos, secernendo note languide e affilate che trafiggono gli animi più sensibili; dal canto suo Petersen con il basso fornisce un perfetto drive aprendo lo spazio alla manovra dei sodali; soprattutto incartando ogni traccia come un’elegante confezione regalo. Tra i momenti migliori, «»I Waited For You» di Gershwin, «Autumn In New York» di Vernon Duke e «Blue Room» di Richard Rodgers. L’album, nel suo insieme sembra rievocare le atmosfere rarefatte ed avvolgenti del «cool», lontane anni luce degli impeti swinganti del bop.

Chet Baker – «Peace», 1982

È certamente il miglior Chet Baker del suo ultimo decennio di attività. Registrato al Vangard Studio di New York nel febbraio del 1982, e pubblicato dall’etichetta tedesca ENJA, presenta un Chet Baker che si muove su un territorio musicale più complesso impegnato del solito, ma per questo non meno gratificante per isuoi abituali sostenitori. «Peace» è un lavoro a quattro mani: David Friedman vibrafono e marimba; Buster Williams basso; Joe Chambers batteria. A parte lo standard «The Song Is You», dove Baker si esprime con la sua connaturata profondità lirica, per il resto il costrutto sonoro impiantato nell’album si basa su quattro composizioni inedite ad opera di David Friedman e risulta leggermente più complesso rispetto alle tradizionali performance del trombettista; perfino «Peace» di Horace Silver viene proposta con un modus operandi decisamente insolito. Nulla di complicato, ma il substrato sonoro fornito al trombettista dai sodali, lo costringe ad un fraseggio più moderno, ricercato e meno diretto. «Lament For Thelonius» che chiude la prima facciata dell’album, della durata di oltre dieci minuti, ha un incedere progressivo e crea una atmosfera arcana, quasi ipnotica, dove i cambiamenti d’umore sono dettati dall’escursione ritmica, soprattutto l’alternanza fra il vibrafono e la tromba ne fanno davvero un piccolo gioiello, mentre Baker sembra scomparire e poi riaffiorare con una classe sopraffina imboccato da un lungo assolo di batteria di Chambers. Tra gli inediti spicca per impatto e coesione «Suzyegies».

Chet Baker & Paul Bley – «Diane» 1985

Un disco struggente avvolto in atmosfera rarefatta, a tratti commovente, una piacevole acrobazia sonora eseguita su un filo sottile e sospeso in aria, un accorato duetto, un vis-à-vis fra Chet Baker e Paul Bley, dove tromba e pianoforte, da soli, costituiscono un orchestra da toni moderati e dal cauto incedere. Entrambi gli strumenti esprimono una forte poetica fatta di note spaziate e levigate. «Diane» si snoda nello spazio di otto tracce di taglio medio e di forte intensità emotiva dispiegate intrecciando i fili del pathos. Otto piccole scintille di genialità esecutiva, recuperati tra standard jazz, classici dell’American SongsBook (una sola composizione è a firma Baker) che, in questo set spartano ed avaro di strumenti, solo piano e tromba, ma ricco di vibranti emozioni, suonano quasi come inediti, alimentati da una nuova linfa vitale e creativa. «Diane» è un disco intenso, fortemente, drammatico, emotivamente coinvolgente e pieno di presagi. Registrato a Copenhagen nel febbraio del 1985, l’album descrive perfettamente l’umore e la condizione mentale di Chet Baker sul viale del tramonto, ma artisticamente maturo e toccante, accompagnato al piano da un ispirato Paul Bley. Il contenuto dell’album va assaporato in tutta la sua interezza, una vera poesia per pianoforte e tromba, tra cui si ergono «I Should Have You» di Rainger, «You Got To My Head» di Dizzy Gillespie, «Pent-Up House» di Sonny Rollins e la title-track «Diane». Un invito ad abbandonarsi e lasciarsi trasportare dalla musica. Consigliatissimo agli amanti del jazz dal cuore tenero.

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