«COLOSSUS: ROLLINS LIKE SONNY», UN LIBRO DI FRANCESCO CATALDO VERRINA
// di Irma Sanders //
Per motivi di longevità e di durata artistica, Sonny Rollins rappresenta la massima icona del jazz moderno, avendo avuto la fortuna di vivere già al tempo e nel luogo della leggenda, di cui certi personaggi e talune ambientazioni appaiono ammantati da un alone di sacralità e tenuti in vita da una forte carica mitopoietica, per poi passare attraverso la storia del jazz contribuendo a scriverla, fino a giungere alla realtà virtuale della musica parcellizzata e frammentaria nell’era del Web 4.0. Che si tratti di bop, hard bop, hard-swing, latin-jazz, post-bop, free-bop o funk-bop, l’impronta del Colosso è talmente unica da mettere in evidenza uno stile compositivo ed espositivo del tutto personale.
Si potrebbe aggiungere che, al netto di ogni evoluzione e di tutte le variabili apportate al suo modulo espressivo, Rollins abbia sempre suonato bop nell’accezione più larga del termine, utilizzando il metodo dell’improvvisazione tematica. Pur considerando la sua lunga discografia, è possibile affermare, senza tema di smentita, che esista musicalmente un solo Rollins. Sonny Rollins è colui che non ha mai voluto subire il predefinito orientamento di questa o quell’etichetta discografica; non si è mai intruppato in formazioni stabili e vincolanti, se non in qualche rara occasione e sempre per un interesse momentaneo. Le sue pause di riflessione, spesso durate a lungo, sono servite in parte da catarsi rigenerativa, in parte a creare degli spartiacque o delle fratture con il passato, ma soprattutto a mettere in discussione il vissuto precedente.
Tutta l’attività artistica di Rollins è stata impiegata ad alimentare la voce del suo strumento ed a scoprirne costantemente nuove ed inedite possibilità d’impiego. Questa non è l’ennesima biografia di Sonny Rollins, ma il racconto della vita di uno dei massimi sassofonisti tenori di tutte le epoche, attraverso i suoi dischi più rappresentativi, i quali diventano i capitoli stessi del plot narrativo sostanziandosi come uno spaccato significativo ed una cospicua parte della storia del jazz moderno.
UN ESTRATTO DAL LIBRO
SONNY ROLLINS – BLUE NOTE, VOL.1 & 2
Sappiamo bene che Sonny Rollins è sempre stato uno spirito libero, non si è mai legato definitivamente ad un’organizzazione discografica, poiché temeva di rimanere intrappolato in taluni stereotipi. In genere non ha mai avuto un gruppo stabile e duraturo al seguito, ma ha sempre preferito alimentare la sua irrequietezza creativa attraverso una rotazione costante dei collaboratori. Il suo passaggio alla Blue Note, coincise con un periodo di assestamento e di mutazioni sul piano dell’evoluzione personale, ma fissò elementi di unicità esecutiva e compositiva nella storia del jazz moderno, regalando al catalogo Blue Note alcuni capolavori assoluti, a prescindere dai risvolti commerciali.
In precedenza il sassofonista aveva suonato per l’etichetta di Lion in due dischi di Bud Powell e di Fats Navarro. A parte l’acclamatissimo «Live At Village Vanguard», i riflettori vanno puntati su i due «Blue Note Volume 1 e 2», i quali mettono i luce alcuni aspetti della complessa mole artistica di Rollins. Tra i due dischi la diversità risulta evidente sin da un fugace ascolto. Il primo è quasi un monologo del sax e mette in luce soprattutto le virtù del band-leader che spazia a tutto campo, mentre il secondo volume, dove tutte le maestranze impiegate raggiungono il climax espressivo, si sostanzia attraverso una maggiore coralità, mentre l’ascoltatore viene sedotto dalla spaziosità liquida di un fluente post-bop e dalla libertà di osare oltre il recinto delle convenzioni. Parliamo di un album che arricchisce la collezione di ogni appassionato di jazz.
In alcune classifiche, stilate da giornalisti ed esperti di settore, il volume due viene inserito fra i Top 100 della storia del jazz moderno. Il volume uno, registrato al van Gelder Studio il 16 dicembre del 1956, vede Sonny Rollins al sassofono tenore condividere a tratti la prima linea con la tromba di Donald Byrd, confidando sul sostegno di Wynton Kelly al piano, Gene Ramey al basso e Max Roach alla batteria, Pur essendo un album di pregevole fattura, foriero di un’evidente ricchezza tonale, questo primo step sembra più disegnato per mettere in primo piano le virtù del Colosso, che appare comunque meno disinibito rispetto al disco successivo, dove il gioco di squadra e le relazioni fra i singoli risultano più risolutive e finalizzate alla comunicazione di un messaggio sonoro, piuttosto che a creare un trampolino di lancio per il talento di turno. Per contro, il volume due si sostanzia come una specie di all-star fathers of bop convention, notevole per la rara presenza di Thelonious Monk e Horace Silver, entrambi al pianoforte su «Misterioso», classica composizione del Monaco.
Registrato sempre al Van Gelder Studio il 14 aprile del 1957 e pubblicato nel settembre dello stesso anno, il secondo set vide la partecipazione di J.J. Johnson al trombone, Paul Chambers al basso ed Art Blakey alla batteria. Rollins si caratterizza attraverso incursioni sonore che sembrano quasi figure geometriche palpabili, ma più impegnative ed occasionalmente dissonanti rispetto agli stili melodici dell’hard bop imperanti in quel periodo. Il suono del sax risulta pieno ed al contempo appuntito. Il tenorista è preciso e mercuriale, quasi educato, perfino quando sembrerebbe voler debordare oltre le linee del tracciato, saltellando agevolmente sull’eccentrico comping di Monk. Il monaco è diabolico come sempre, lasciando improvvisi spazi vuoti ed inaspettati o sviluppando repentini cambi di direzione. J.J Johnson tara il suo ottone su quello di Rollins, sia nelle texture che nelle nelle armonie, ma in special modo nelle linee melodiche, mentre il costrutto sonoro è sorretto nell’insieme da Blakey e Chambers.
Stando ai fatti, Rollins non era rimasto del tutto soddisfatto della prima uscita, quindi ritornò ad Hackensack, nel New Jersey, con un insieme di variabili talmente nuove quanto portatrici di elementi di diversità creativa, al fine di contemplare la sua equazione artistica in costante cambiamento. Con Art Blakey al posto di Max Roach, J.J. Johnson, Horace Silver o Thelonious Monk al piano e Paul Chambers al basso questo line-up avrebbe potuto tranquillamente essere una seconda incarnazione dei Jazz Messengers, spostandone il baricentro verso una forma più evoluta di hard bop.
«Blue Note Vol.2» è considerato una vera e propria re-reunion di spiriti affini. Monk fu invitato per eseguire nuove letture di un paio dei suoi brani scelti per l’album. Fu proprio il modo di suonare idiosincratico del Monaco che contribuì a creare un’atmosfera di suspance. «Misterioso», in particolare, si traduce in un illuminante connubio di calde sonorità, sia pure dissonanti, alimentate dal flusso emotivo del blues. «Reflections», altro componimento monkiano, denota una pigrizia iniziale che viene lentamente esorcizzata e definitivamente ravvivata dal secondo giro di assoli. Il contributo di J.J.Johnson è prezioso per la sua costante interazione con Rollins, sia quando le rapide ed incontaminate linee bop del tenorista sbocciano improvvise sulla spinta sua ricerca impulsiva, sia che si materializzino in un brano iperattivo come «You Stepped Out of a Dream »o su una malinconica ballata come «Poor Butterfly». Indipendentemente dal contesto, il trombonista riesce a coniugare precisione, profondità e velocità.
Sia sugli standard che nei due originali di Rollins c’è Horace Silver che siede al piano. Il capoverdiano portò a corredo dell’economia complessiva del suono, esattamente ciò che ci si aspettava da lui: il sincopato fervore del bop e la profonda emozione del soul. Il portentoso tempismo di Blakey alla batteria, non solo galvanizza i compagni d’arme, ma crea una cintura protettiva che avvolge e protegge il treno sonoro nel suo incedere, con l’intento di non farlo mai deragliare. Lo schema di lavoro del batterista può essere precisamente enucleato ed apprezzato in «Wail March». Dal canto suo Paul Chambers è sempre allo stato di veglia, pronto alla bisogna a svolgere un ruolo di motore mobile, quando necessario, assicurando che i geni illuminati del line-up fossero sempre a loro agio: abbagliante il suo assolo in «You Stepped Out Of A Dream», alimentato da un fantasioso pizzicato eseguito con una tecnica da manuale. Sommando i vari elementi, si potrebbe tranquillamente affermare che «Blue Note 1958, Vol.2», nonché il meno quotato predecessore, siano due capolavori assoluti del catalogo Blue Note, anche se da qui in avanti, le sorprese non mancheranno.