CHET BAKER, UN SUONO DI VELLUTO LISCIO, MILLERIGHE, A COSTA…E DOPPIA COSTA…
// di Francesco Cataldo Verrina //
Gli amanti del jazz, da sempre, sembrano subire il fascino della discussione, quasi quanto la musica stessa; la sensazione è quella di trovarsi sempre nel mezzo di un dibattito perennemente aperto. Come già raccontato, a partire degli anni ’50, molte pagine di riviste specializzate, nonché una considerevole mole di dibatti a distanza o incontri diretti tra esperti e sostenitori, spesso meramente accademici, sono stati dedicati alla discussione sui relativi meriti e sulle lampanti differenze delle cosiddette scuole, quella della «costa orientale» e quella della «costa occidentale». Più che le tesi e le antitesi su questo o quell’argomento, più saggio sarebbe invece mettere a confronto le opere degli artisti, attraverso l’ascolto dei dischi, quindi trarre le dovute conclusioni.
«In New York», album dal titolo emblematico, fu registrato nel settembre del 1958 e pubblicato per la prima volta dalla Riverside Records nel 1959. Chet Baker, la più famosa ed acclamata «tromba» della West Coast, unisce le proprie forze ad alcuni dei più talentuosi rappresentanti del «duro» stile orientale. Si potrebbe, dunque considerare come una forma di compromesso storico fra due metodologie di studio e d’impiego nei confronti della grammatica jazz. Invece nulla di tutto questo, il principio dei vasi comunicanti applicato alla musica in genere produce sempre effetti positivi ed a guadagnarci è la creatività: la fusione di elementi ed esperienze differenti porta sempre una crescita. Da tenere in considerazione che di questi cinque musicisti coinvolti nel progetto nessuno era nato in California o New York. Tutto ciò non dimostra nulla, ma sottolinea un’ovvia ed accertata verità del jazz, ossia che il «chi sei» è infinitamente più significativo del «di dove sei» o a quale «scuola» o movimento di artisti potresti essere idealmente legato.
Per l’occasione, Chet scelse i suoi soci in modo deliberato. Per lui questo album, e il fatto che sarebbe stato registrato a New York, rappresentava principalmente un’opportunità per produrre il tipo di musica che in quel momento amava di più. Il trombettista si era convinto che prima di tutto esisteva il jazz e che a fare la differenza sarebbe stato chi lo suonava, a prescindere da ogni collocazione stilistica e geografica. Per lui significava avere anche la possibilità di decidere la scelta dei brani da suonare e l’impostazione del disco; non a caso, il frutto di queste esecuzioni racchiuse nell’album allargò la schiera dei suoi sostenitori e in maniera neppure tanto inaspettata.
La maggior parte del materiale registrato da Chet, dal momento in cui aveva lasciato il Gerry Mulligan Quartet, con cui aveva ottenuto i suoi primi riconoscimenti a partire del 1952, era stato improntato ad una enfatizzazione delle doti romantiche e liriche del suo stile ed a far uscire appieno la sua vena poetica, anche come cantante. E in quella dimensione «cool», spesso dimessa e minimale, aveva ottenuto un risultato estremamente proficuo, raggiungendo vette di elevata popolarità. Negli ultimi anni era riuscito a piazzare al primo posto la sua tromba per ben due volte nel gradimento e nei sondaggi dei lettori di Down Beat e Metronome. Baker avvertiva sempre più che le solite ambientazioni musicali lo stavano intrappolando, non permettendogli di esprimersi come avrebbe voluto; il suo unico desiderio era quello di poter suonare in modo più completo.
L’album in oggetto è essenzialmente diverso da qualsiasi altra cosa Chet avesse mai fatto nei dischi precedenti, soprattutto ebbe la possibilità di tradurre completamente i sentimenti in azione. Termini come «cool» e «hard bop», potrebbero risultare fuorvianti e pericolosi nella valutazione di questo lavoro. Non esiste nulla di automaticamente privo di emozioni e ascetico nel cool jazz; così come l’hard bop non significa necessariamente forza bruta e suoni spigolosi. Il punto di incontro, ma anche di scontro e di rottura di certi schematismi manichei va ricercato propri all’interno di questo disco, dove le dighe ideologiche crollano e le acque creative, nuovamente limpide, fluiscono a meraviglia.
Su tre lunghi brani, «Fair Weather», «Blue Thoughts», «Hotel 49», Baker collabora con Johnny Griffin, talentuoso sax tenore, di certo uno dei migliori sulla piazza in quei giorni, fatta eccezione per alcuni mostri sacri. Griffin, originario di Chicago, veniva associato principalmente a Thelonious Monk ed ai Jazz Messengers di Art Blakey, il che avrebbe potuto far supporre che lui e Baker non potessero operare sulla medesima lunghezza d’onda. I fatti dimostrarono il contrario: i due si mescolano e si compensano molto bene a vicenda. Il vigoroso Griffin suona, scoprendo un’inedita vena lirica, mentre Baker, dal canto suo, interviene sullo strumento in maniera più diretta e decisa del solito. Due dei brani che suggellarono il sodalizio sassofono-tromba erano firmati da Benny Golson, giovane e brillante compositore-arrangiatore della costa orientale, autore fra i più melodici di quegli anni. «Hotel 49» è la prima composizione registrata di Owen Marshall, allora promettente autore.
A tutte e sei le tracce è garantito il un sostegno vivace e serrato di una sezione ritmica di rilievo: Al Haig, pianista schietto e sensibile faceva parte della cosiddetta categoria «veterano giovanile» per aver lavorato con Dizzy Gillespie e Charlie Parker durante gli anni 40; Paul Chambers, giovane bassista d’eccezione, in quel periodo al seguito di Miles Davis e Philly Joe Jones, conosciuto per una lunga collaborazione sempre con Miles Davis, era il batterista più impiegato nelle registrazioni della Riverside. Il terzetto sviluppa una combinazione sonora piuttosto impressionante, che funge da guida e da controllo per tutto l’album, spingendo e sollevando le sorti del trombettista anche in un facile motivetto come «Solar» di Miles Davis, e garantendo un tempo perfetto in tre ballate mezzo-tempo come «Blue Thoughts», «When Lights Are Low» e «Polka Dots and Moonbeams», salvaguardandone la liricità, ma evitando il rischio che potessero diventare soporifere.
«In New York» di Chet Baker è un album di transizione, innovativo ed importante per l’inquieto poeta della tromba: ottima e azzeccata la sequenza narrativa dei brani; tutto è ben calibrato, gli assoli equilibrati e le partiture ben distribuite; i musicisti, come accadeva in quegli anni, assistiti dalle divinità olimpiche con una musa ispiratrice sempre al loro fianco. Se ne ricava l’idea di un Chet Baker felice, almeno libero e divertito con una forza interpretativa mai sentita prima. Del resto il jazz era sempre stato un vecchio giocattolo, bastava capirne il funzionamento ed il piacere diventava assoluto.