// di Marcello Marinelli //

Per il principio della rotazione si ascolta “robba” moderna e “robba” antica. Quando rimetto sul piatto un disco di Miles, quindi “robba” antica, siamo nel 1972, ho sempre la percezione del genio. Ora penso che il free jazz non sia stata l’ultima rivoluzione, ma la penultima. L’ultima , secondo il mio modestissimo parere, è stata la svolta elettrica del genio, qui rischio la lapidazione ma è, come le aperture di Draghi, rischio ragionato. Qui siamo in presenza di un “groove” atipico per la tradizione, scansione funk, ma oltre una semplice scansione funk, siamo di fronte ad un nuovo modo di intendere la musica, che già era iniziata nei dischi precedenti. Un disco che non ebbe , all’uscita, il successo, perché suonava nuovo, indigesto per i puristi del jazz “old style” ma troppo all’avanguardia per gli appassionati di funk .

Per i critici di allora l’album fu considerato una “porcheria”, uno dei più brutti album di Davis, anche paradossalmente per alcuni musicisti che contribuirono all’impresa, che non ne presero le sue difese. Io, ostinatamente, dal basso delle mie credenziali e dei miei pensieri, in completa libertà, la penso all’opposto. A distanza di tempo, sono passati solo 40 anni, emerge la grandiosità e la visione di questo genio che aveva anticipato il “futuro” della musica, non solo della musica jazz. Una negritudine che diventava universale, l’ombelico del mondo che si espandeva all’ennesima potenza. La svolta di Davis per soldi? Non c’era nessuna concessione alla facilità di ascolto, nessun cedimento verso lidi rassicuranti, non si strizzava l’occhio a chicchessia, Davis cercava di imporre la sua arte, la sua visione della musica e credo che a distanza di tempo questo può essere compreso anche dagli amanti della tradizione, ma non ci giurerei. Ti metti al centro della stanza, metti la musica “a palla” chiudi gli occhi e immagini di trovarti da qualche parte. Forse in qualche periferia urbana di una qualsiasi città , o forse in un villaggio sperduto dell’africa occidentale, il ritmo ossessivo e ripetitivo produce un aria da “trance” collettiva da rito “woodoo”.

Qui tutto si può criticare di questo disco tranne la “negritudine” che sprigiona da ogni poro . A Miles piacevano Sly Stone e James Brown e qui cerca di rendere tributo alla tradizione funk, ma lo fa alla sua maniera, nessuna voce ad accompagnare le scorribande sonore e il tributo è nel “beat” ma un beat non così scontatamente funk, è un ibrido che ti entra nel cervello e te lo spappola e te lo brucia. E’ un disco cupo? Si è meravigliosamente cupo, tristi presagi all’orizzonte e nessuna concessione al ascolto “easy”. Qui è necessario entrare in sintonia, altrimenti è buio nero, buio pesto o forse la sperimentazione del buio e l’esplorazione del buio in tutti i suoi anfratti logori e pericolosi. Maometto e la montagna, dove stà la concessione alle masse? Nessuna concessione, non è Miles che va dalle masse, semmai sono le masse ad andare da Miles, infatti non ci vanno perché nonostante le apparenze non è musica da masse ma musica di chi vuol farsi penetrare il cervello e farselo spappolare e quanti sono disposti a farsi spappolare il cervello?

Troppo funk per i jazzofili troppo jazz per i funkisti. Troppo qualcosa per tutti, ma è la grandezza e le incomprensioni del genio che esprime liberamente la sua arte, senza compromessi altro che compromessi. Il paradosso dei paradossi è che in questa “negritudine” diffusa, ricercata, esplorata e immortalata in musica, la compagnia non è di soli neri, la grandezza di Davis è di piegare qualsiasi pregiudizio razziale e qualsiasi banalità extramusicale al suo genio di grande artista afroamericano. Per sua stessa ammissione, nella sua autobiografia, in questo disco c’è l’influenza, oltre che della matrice funk, udite udite, di Karlheinze Stockausen il compositore d’avanguardia tedesco e un compositore, violoncellista inglese Paul Buckmaster che partecipa attivamente ad alcuni arrangiamenti del disco e come violoncellista anche, se nel magma sonoro non l’ho riconosciuto.

A questo c’è da aggiungere la presenza per niente irrilevante di altre due “mozzarelle” che contribuiscono alla riuscita del disco, John Mc Laughlin e Dave Liebman. Come lo volete chiamare un musicista che si avvale di influenze e di musicisti bianchi e fa un disco di una “negritudine” stellare, o se non siete d’accordo sul termine stellare, una blackness che più nera non si può, se non un genio assoluto? Solo un genio assoluto poteva generare questa meravigliosa “accozzaglia” e renderla arte e questo Miles non l’ha fatto solo nel suo periodo elettrico. E poi suonatori di tabla e di sitar, incantatori di serpenti, saltimbanchi e mangiafuoco. Certo che qualcuno abituato ad altre sonorità potrebbe interrompere l’ascolto, semmai decidesse di farlo, ma per giudicare non bisogna interrompere l’ascolto, bisogna predisporsi all’ascolto, possibilmente ad alto volume e senza pregiudizi. Non c’è contrapposizione tra i periodi di Davis, c’è solo un unico filo invisibile che li collega e fa di questo musicista il più grande artista che la musica afroamericana abbia mai espresso.

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