Chi non scrive non ha nulla da scrivere, ma soprattutto non ha nulla da dire sul jazz

Guido Michelone & Francesco Cataldo Verrina
Laddove, lo scrivere, come accade nel mio caso o in quello del mio amico Guido Michelone, potrebbe apparire come una forma di bulimia editoriale o di grafomania congenita, c’è sempre una spinta che nasce da un’esigenza di comunicare e di offrire un visione dei fatti non sempre canonica, irregimentata o che sguazzi in una zona comfort dello scibile.
// di Francesco Cataldo Verrina //
Questa mia riflessione non intende essere una polemica sterile, ma sotto un profilo ontologico, una riflessione seria su quanto accade in Italia nell’ambito della critica musicale, dove esiste una sorta di clan per affiliati fatto di leccadorso, giannizzeri e reggipalle dei potenti e dei senatori del jazz: guai a mettere in discussione l’operato di costoro, perché anatemi e bolle di scomunica ti colpiscono come raffiche di un vento di procella, se non sai schivare o non possiedi uno schermo riflettente, che in questo caso potremmo chiamare, dantescamente, «virtute e conoscenza». La rete sta appianando molte situazioni paradossali, legate al nostalgismo genetico di un’italietta gerontocratica, spiccatamente democristiama e moderatamente fascista, ma anche pseudo-comunista-liberal sciovinista; nel suo caos mediatico Internet mette in luce molte aspetti positivi, portando all’attenzione di tanti, ciò che un tempo era un privilegio di pochi.
Il web, per sua stessa natura si basa su una selezione naturale: chi non sa nuotare affoga o naufraga nel mare magnum della vastità dei contenuti. In rete, essendo essa orizzontale, quando non circolare, si perdono tutti quei privilegi di casta o di familismo editoriale che si hanno quando si opera nei mezzi tradizionali; soprattutto il web consente rapidità e raccoglie un feedback immediato: possibilità preclusa all’editoria vetusta e passatista. In merito al jazz, esistono due elementi che mantengono viva la fiamma dell’interesse, anche presso i giovani e sono: da un parte il web che produce un’informazione giornaliera e costante in merito alla vita, l’attività e le discografie degli artisti, in barba a qualche reliquia da edicola di tipo museale, che si ostina a raccontare il jazz (ma non riguarda solo l’ambito jazzistico) con un metodo superato, reverenziale, autoreverenziale e perennemente con la schiena reclinata nei confronti dei potenti di turno, artisti ed etichette danarose e non indipendenti, che da anni trascinano la musica alla deriva; dall’altra ci sono i libri sul jazz e dintorni. Esiste una notevole produzione libraria italiana di buon livello, sovente superiore al morboso biopic americano, che sembra raccontare tanto, ma che spesso non dice nulla della musica degli artisti trattati. Non approfondisce le discografie e soprattutto non spiega, quasi mai, come quel dato musicista suonava, come elaborava la composizione e quale fosse il suo approccio armonico. Mancano sovente analisi di tipo ambientale, sociale e metodologico, nonché di raffronto con gli altri artisti coevi.
Laddove, lo scrivere, come accade nel mio caso o in quello dell’amico Guido Michelone potrebbe apparire come una forma di bulimia editoriale o di grafomania congenita, c’è sempre una spinta che nasce da un’esigenza di comunicare e di offrire un visione dei fatti non sempre canonica, irregimentata o che sguazzi in una zona comfort dello scibile. In fondo, noi facciamo un servizio di divulgazione, concretamente epistemologico, che – al netto dei malumori, dei bruciori di stomaco di qualche avvizzito e canuto invidiosello – uno zoccolo duro di lettori sembra gradire e, perfino, apprezzare la cadenza e la periodicità regolare con cui i nostri libri vengono editati. Per dirla in soldoni, noi facciamo ciò che altri non fanno o non sono in grado di fare, o che almeno non tutti sanno fare. Scrivere un libro comporta fatica, studio, impegno costante, al netto di un bagaglio di conoscenze approfondite sulla materia che molti scriventi di jazz, quasi tutti doppilavoristi, dopolavoristi, hobbisti o bloggettari, non possiedono. Ciò potrebbe dipendere dal fatto che certi attanti sulla scena abbiano poco tempo, poiché affaccendati in tutt’altre faccende. La professionalità non è uno stato d’animo o una necessita contingente. Il paradosso consiste nel fatto che coloro i quali non scrivono nulla – e nonostante il tono che si danno, non è che sappiano più di tanto – vengono sovente chiamati a conferire sul jazz, vivendo di posizioni acquisite, amichettismo strisciante, addentellati politici ed una conventio ad excludendum di tipo mafioso-medievale dove i capi bastone o feudatari, molti dei quali gravitano anche in ambito accademico – specie in manifestazioni, festival ed eventi dislocati in zone periferiche del paese difficilmente raggiungibili o dove non sia previsto compenso – lasciano le briciole ai loro vassalli, che non fanno altro che lavorare su materiali d’antan e codificare l’ovvio, mischiato al deja-vu. In talune manifestazioni pur di rimanere nell’ambito della cricca, vengono presentati libri assurdi del tipo: «L’effetto della musica dodecafonica su un paziente affetto da iperacusia». Io e Guido ci guardiamo in faccia e pensiamo: chi non scrive non ha niente da scrivere, soprattutto non ha nulla da dire sull’argomento, tertium non datur!
