Laurea ad honorem per il suono pensante di Franco D’Andrea, tra ricerca, memoria ed invenzione

0
francoDandrea1

Franco D'Andrea

D’Andrea ha praticato una forma di contaminazione interiore, fondendo Monk ed Ellington con la libertà del jazz europeo e con il gusto per la sperimentazione formale.

// di Francesco Cataldo Verrina //

Ha condiviso il palco con interpreti di statura internazionale, incidendo pagine decisive della storia del jazz europeo. Ora l’Italia gli tributa un riconoscimento ufficiale: il Conservatorio Agostino Steffani di Castelfranco Veneto ha conferito a Franco D’Andrea, ottantatré anni e oltre duecento incisioni discografiche, la laurea honoris causa in virtù di un percorso artistico che ha segnato in profondità il linguaggio del pianoforte jazz.

La sua è un’esistenza interamente consacrata alla musica, al jazz soprattutto, vissuto come territorio di libertà creativa e insieme di disciplina formale, come poesia tradotta in suono. L’attribuzione del titolo accademico, consuetudine non infrequente per personalità della musica colta o della canzone d’autore – da Riccardo Muti a Francesco Guccini – risulta assai meno usuale nell’ambito del jazz, rendendo questo tributo ancor più significativo. Nato a Merano nel 1941, D’Andrea incarna una singolare alchimia: autodidatta tenace, musicista instancabile e pedagogo di straordinaria lucidità. Dopo l’esordio nel 1963 accanto a Nunzio Rotondo negli studi della Rai, la sua traiettoria lo conduce a collaborazioni con figure decisive quali Gato Barbieri, alle esperienze pionieristiche del Modern Art Trio e del Perigeo, fino ad un itinerario che lo ha reso protagonista dei festival più autorevoli a livello internazionale. L’ampiezza del suo catalogo discografico, con oltre duecento registrazioni, dal piano solo alle formazioni più ardite, ne testimonia l’inesausta vocazione alla ricerca. Franco D’Andrea occupa, nel panorama del jazz europeo, una posizione che non si misura semplicemente nel confronto con i templari del jazz statunitense, Chick Corea, Keith Jarrett, Herbie Hancock ed altri giganti della modernità afroamericana, ma che si definisce in una dialettica sotterranea, quasi carsica, rispetto ai loro percorsi.

Corea, Jarrett e Hancock hanno incarnato, ciascuno a modo suo, l’egemonia culturale e sonora del jazz nordamericano negli anni Settanta e Ottanta, imponendo modelli estetici e stilistici che hanno segnato intere generazioni: Corea con la sua sapienza ibrida fra bebop, flamenco e fusion elettrica; Jarrett con la mistica del solo in concerto e l’idea di improvvisazione come atto rituale totale; Hancock con la capacità di coniugare innovazione elettronica e radici afroamericane. D’Andrea non si colloca come epigono di quelle linee, né si limita a recepirne i tratti distintivi. La sua traiettoria, maturata nella temperie europea, si è sviluppata in un orizzonte meno incline al gigantismo e più alla ricerca molecolare di un linguaggio autonomo, in cui la tradizione americana viene assimilata e poi decantata attraverso la sensibilità continentale. Se Corea e Hancock hanno fatto della contaminazione stilistica un manifesto globale, D’Andrea ha praticato una forma di contaminazione interiore, fondendo Monk ed Ellington con la libertà del jazz europeo e con il gusto per la sperimentazione formale. Con Jarrett condivide l’idea che il pianoforte solo possa diventare laboratorio di una visione estetica integrale, ma laddove Jarrett tende a proiettare l’improvvisazione come esperienza trascendente e quasi liturgica, D’Andrea sceglie una dimensione più razionale, talvolta geometrica, in cui la libertà è sempre temperata da una struttura vigile, da un rigore contrappuntistico che ricorda più la lezione bachiana che quella gospel. In definitiva, il rapporto con i templari del pianismo statunitense non si sostanzia come un confronto diretto sul terreno della supremazia virtuosistica o della spettacolarità, bensì di un dialogo sottilmente critico. Franco dimostra che il jazz europeo può svilupparsi senza complessi di inferiorità, tracciando itinerari autonomi, capaci di mantenere viva la memoria della tradizione afroamericana e, al tempo stesso, di reinventarla attraverso categorie estetiche proprie.

Il suo ruolo non si limita all’attività concertistica, poiché D’Andrea non ha mai interrotto il dialogo con lo studio, con l’insegnamento, con la trasmissione di conoscenze. Ha formato intere generazioni di musicisti a Trento, Merano e presso la scuola di Siena Jazz, ed è stato insignito di riconoscimenti internazionali, fra cui il Prix du Musicien Européen (2010). La sua estetica si nutre della memoria di Duke Ellington e Thelonious Monk, filtrata attraverso un costante processo di reinvenzione, di ascolto reciproco, di rispetto per il silenzio come componente essenziale del discorso musicale. Il Conservatorio veneto lo ha definito «esploratore del pianoforte jazz». Durante la sua lectio magistralis D’Andrea ha dichiarato che «il jazz mi ha dato una vita felice», parole che risuonano con la stessa limpidezza e sincerità delle sue improvvisazioni. In esse si riflette la sua parabola, ossia un’esistenza edificata sul talento, sulla capacità di ascolto, sulla coerenza etica ed estetica, capace di dialogare con le istituzioni senza mai rinunciare alla propria autenticità. In un Paese in cui l’eccellenza artistica è troppo spesso relegata ai margini, il riconoscimento a Franco D’Andrea assume valore paradigmatico. È un segnale che la cultura non solo resiste, ma può ancora costituire una risorsa collettiva, laddove si fonda su personalità che hanno fatto della passione un servizio pubblico e della musica un atto di responsabilità civile.

Franco D’Andrea & Francesco Cataldo Verrina

0 Condivisioni

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *