Enzo Favata1

Enzo Favata

Il Sud, per Favata, non coincide con un luogo geografico definito, bensì con una postura estetica: quella che privilegia il corpo, il rito, la coralità, rifiutando la cristallizzazione del jazz in una forma accademica destinata a un pubblico specialistico ed invecchiato.

// di Francesco Cataldo Verrina //

Enzo Favata incarna un corpo estraneo difficilmente circoscrivibile in categorie jazzistiche convenzionali, poiché il suo itinerario si nutre di immaginari plurali e di suggestioni che trascendono i confini disciplinari. Se nella letteratura latinoamericana s’individua l’universo visionario di Juan Rulfo o di di Isabel Allende, e nel cinema mediterraneo e dell’Europa Sud-Orientale la tensione poetica di Kieślowski o di Theo Angelopoulos, la traiettoria di Favata sembra condividere con entrambi la tensione verso una dimensione sospesa, in cui il reale e l’onirico si compenetrano. Nato ad Alghero in un quartiere popolare, Enzo ha assorbito sin dall’infanzia la stratificazione culturale e linguistica della sua città, crocevia di storie mediterranee ed atlantiche, facendone il nucleo ispiratore di una ricerca che si muove costantemente tra memoria ancestrale e apertura cosmopolita.

La sua musica, che attraversa lavori come «Voyage En Sardaigne», «Atlantico», «Boghes And Voices» e «Made In Sardinia», manifesta un’attitudine che potremmo definire di «realismo magico sonoro»: una poetica in cui la materia acustica si trasfigura in narrazione, evocando territori fisici ed interiori, al tempo stesso radicati e immaginifici. In tal senso Favata si attesta come viaggiatore sonoro, assimilabile ad un Marco Polo contemporaneo, capace di attraversare le vie della seta musicali con la stessa curiosità visionaria che muoveva l’esploratore veneziano. Questa itineranza non si riduce ad un esotismo superficiale, ma si declina come un dialogo profondo con tradizioni, strumenti e linguaggi provenienti da latitudini lontane, sempre ricondotti ad un’istanza di unità espressiva. L’artista algherese ha intessuto collaborazioni con musicisti di straordinaria eterogeneità, dal bandoneon lirico di Dino Saluzzi alla tromba di Enrico Rava, dalle architetture sonore del bassista Miroslav Vitous alle geometrie afro-cosmiche di Mulatu Astatke, dalle vocalità arcaiche di Sajnkho Namtchylak ai paesaggi improvvisativi dell’Art Ensemble Of Chicago. Accanto a loro, figure come Dave Liebman, Omar Sosa, Django Bates, Guinga, Eivind Aarset o Jan Bang hanno contribuito a forgiare un orizzonte sonoro che rifiuta i compartimenti stagni e rivendica l’ibridazione come principio fondante. Ne derivano oltre venti incisioni discografiche che testimoniano non soltanto la vitalità di una carriera internazionale, ma anche la coerenza di una visione musicale in cui le radici sarde dialogano con le istanze più avanzate della contemporaneità. Alla dimensione concertistica e discografica si affianca una costante attenzione verso le arti visive e performative. Favata ha infatti ideato paesaggi sonori per musei, colonne sonore per il cinema e progetti intermediali che confermano la sua inclinazione a concepire la musica come esperienza immersiva e polisensoriale. Tale attitudine trova ulteriore consacrazione nella direzione artistica del festival Musica sulle Bocche, da lui fondato e guidato da un quarto di secolo. L’evento, che si svolge in vari luoghi della Sardegna, unisce programmazione innovativa e sensibilità ecologica, facendo del paesaggio non un semplice sfondo, ma un interlocutore attivo del linguaggio musicale. Il suo pensiero critico, espresso in dichiarazioni come «c’è chi vuole ingessare il jazz in un contesto linguistico che poi diventa musica classica. Una musica così la si uccide», rivela una posizione netta, dove il vernacolo jazzistico, secondo Favata, non deve smarrire la sua natura dinamica, aperta e contaminante, pena il rischio di diventare un reperto museale. La sua parabola artistica e la sua visione estetica si pongono dunque come antidoto alla cristallizzazione, riaffermando il carattere vivo, cangiante e vitale della musica improvvisata.

L’asse portante della ricerca strumentale di Enzo Favata è rappresentato dal sassofono soprano, strumento che nelle sue mani acquisisce una specificità timbrica lontana tanto dalle derive calligrafiche quanto dalle mere imitazioni dei maestri del Novecento. Se pensiamo alla genealogia del soprano nella tradizione afroamericana, il riferimento obbligato corrisponde a Sidney Bechet, che ne aveva fissato la matrice espressiva, carica di pathos e di vibrato, destinata a lasciare un’impronta indelebile. A distanza di decenni, John Coltrane ne aveva dilatato l’orizzonte, spingendolo verso un suono radente, capace di inglobare scale modali e spazi di risonanza cosmica, mentre Steve Lacy aveva scelto una via quasi opposta, fatta di asciuttezza timbrica, rigore formale e continua interrogazione dei confini melodici. In epoca più recente, artisti come Wayne Shorter o Dave Liebman hanno contribuito a ridare allo strumento un’aura di raffinatezza e di apertura al linguaggio contemporaneo. Favata si colloca in questo reticolo di esperienze con una voce che non si limita ad assorbire, ma metabolizza e trasfigura. La sua impostazione sul soprano rivela un controllo del registro acuto che evita ogni compiacimento, mantenendo invece una tensione lirica costante. Non si ravvisa la volontà di ricalcare il vibrato bechetiano, né di reiterare le tessiture incantatorie di Coltrane; piuttosto, l’attenzione si concentra su una duttilità timbrica che gli consente di passare dal canto arcaico, quasi di matrice pastorale, alle sonorità rarefatte che dialogano con l’elettronica contemporanea. La cifra distintiva del suono favitiano risiede nell’abilità di innestare l’inflessione vocale della tradizione sarda – si pensi alle polifonie dei Tenores, con i quali ha più volte interagito – dentro una grammatica jazzistica che rimane permeabile alle suggestioni modali ed alla libertà improvvisativa. La colonna sonora che il soprano di Favata costruisce appare dunque come un canto sospeso, che talvolta sembra nascere dalla pietra e dal vento della sua isola, talaltra proiettarsi in uno spazio cosmopolita, aperto ai dialoghi con strumenti e culture lontane. Un elemento rilevante della sua tecnica consiste nella capacità di dosare l’emissione per ottenere una gamma dinamica molto ampia, ossia dalle sfumature evanescenti, in cui il suono si avvicina quasi al soffio, fino ad esplosioni pervasive che ricordano, per intensità drammatica, certe accensioni coltraniane. Ma mentre Coltrane tendeva a proiettare il soprano verso una dimensione trascendente, Favata lo riconduce spesso ad un registro narrativo, capace di restituire storie e immagini sonore. Il suo fraseggio, pur debitore alla tradizione afroamericana, si arricchisce di microtoni, di fluttuazioni intonative e di rapide aperture melodiche che rimandano tanto al mondo mediterraneo quanto all’influenza delle musiche extraeuropee. In ciò si distingue dai soprani americani, assumendo piuttosto il ruolo di un interprete che filtra le esperienze storiche del Novecento attraverso la propria radice identitaria e l’attitudine di viaggiatore culturale.

Il dialogo di Enzo Favata con la tradizione afroamericana non si articola mai come semplice adesione a un canone, bensì come interlocuzione con quelle figure che hanno saputo dilatare l’orizzonte del jazz oltre i confini statunitensi, aprendolo alle culture del Sud globale. In questo senso il parallelo con Don Cherry appare particolarmente pertinente, poiché entrambi hanno inteso la pratica improvvisativa come una sorta di lingua franca capace di assorbire influssi extra-occidentali, risemantizzandoli senza scadere in un pittoresco folklorismo. Cherry, dopo l’esperienza con Ornette Coleman, aveva intrapreso un cammino di radicale apertura, incorporando strumenti esogeni e tradizioni rituali africane, asiatiche e latinoamericane, dando vita a un cosmopolitismo sonoro che rompeva la centralità nordamericana del jazz. Favata, pur provenendo da un contesto geografico e culturale diverso, sembra muoversi con analoga tensione, tanto che la Sardegna diviene il punto di partenza di un itinerario che si allunga verso l’Etiopia di Mulatu Astatke, le steppe di Tuva con la voce di Sajnkho Namtchylak, le polifonie afro-zimbabwiane di Dudu Manhenga o Hope Masike. In tali intersezioni si riconosce un’idea del jazz come territorio migrante, che non si esaurisce in stilemi o codificazioni, ma vive nell’incontro tra alterità. La relazione con musicisti afroamericani come Lester Bowie o Dave Liebman, con i quali Favata ha condiviso momenti di intensa complicità, conferma questa disposizione a concepire l’improvvisazione come luogo di transito, non come recinto stilistico. Bowie, con la sua ironia dissacrante e la sua capacità di travestire il jazz con le maschere del teatro e della tradizione africana, e Liebman, con il suo lavoro sul colore timbrico e sulle stratificazioni modali, hanno offerto a Favata spunti che egli ha travasato in una poetica sempre attenta al radicamento locale. Il Sud, per Favata, non coincide con un luogo geografico definito, bensì con una postura estetica: quella che privilegia il corpo, il rito, la coralità, e che rifiuta la cristallizzazione del jazz in una forma accademica destinata a un pubblico specialistico e invecchiato. Come Cherry, egli sembra affermare che la vitalità della musica risiede nella sua capacità di risuonare in comunità differenti, di farsi strumento di comunicazione e non mero oggetto da collezione. Da questa prospettiva Favata si presenta come un tassello europeo di una corrente diasporica che include, accanto a Cherry, figure come Abdullah Ibrahim, Naná Vasconcelos o Egberto Gismonti, tutti musicisti che hanno interpretato il jazz non come prodotto esclusivo di un contesto culturale, ma come organismo vivo che si alimenta delle voci del Sud del mondo tout court.

Il percorso di Enzo Favata al sassofono soprano si definisce anche attraverso un confronto implicito con la tradizione europea dello strumento, che nel corso del Novecento ha sviluppato una fisionomia distinta, autonoma rispetto a quella afroamericana. In tale contesto appare inevitabile il riferimento – come già accennato – a Steve Lacy, americano di nascita ma europeo per elezione, che scelse Parigi come dimora artistica e che diede al soprano una centralità fino ad allora inedita. Lacy perseguì una disciplina ascetica, scandita da un fraseggio essenziale, spesso monodico, e da un’attenzione quasi calligrafica alla linea melodica; in lui il soprano divenne strumento di concentrazione e di rigore, lontano dai fuochi coltraniani. Favata condivide con Lacy l’idea di uno strumento capace di produrre un canto nudo e diretto, ma se ne distanzia per la propensione narrativa e per la costante apertura al dialogo con la dimensione rituale e corale delle tradizioni popolari. Tra i contemporanei europei occorre richiamare Evan Parker, il cui lavoro sul soprano è stato caratterizzato da un’indagine radicale sulle possibilità timbriche, attraverso l’uso esteso delle tecniche di respirazione circolare e delle sovrapposizioni armoniche. Laddove Parker ha spinto lo strumento verso territori di trance ipnotica e di proliferazione sonora, Favata tende a mantenere un legame più esplicito con la melodia, pur non rinunciando a soluzioni timbriche inusuali. La sua ricerca sull’aria e sul respiro non mira ad un’esasperazione strutturale, ma ad un continuo rimando al canto, che resta per lui matrice fondante. Un altro termine di confronto può essere rappresentato da John Surman, il quale ha fatto del soprano uno dei cardini della propria tavolozza timbrica, spesso affiancandolo al baritono. Surman, radicato nella tradizione britannica ed in dialogo con la musica antica e con il folk nordeuropeo, ha generato un linguaggio lirico, intriso di malinconie nordiche. Favata, pur condividendo con Surman l’attenzione alle musiche popolari del proprio territorio, declina il rapporto con la tradizione in maniera differente, ossia non attraverso il filtro elegiaco della memoria, ma tramite un processo di attualizzazione e di contaminazione, che proietta le radici sarde in un orizzonte transcontinentale. Più vicino, per sensibilità e itineranza culturale, appare Jan Garbarek, la cui voce al soprano ha rappresentato un simbolo del suono ECM, rarefatto e sospeso. Anche qui, tuttavia, le differenze restano marcate. Garbarek tende a far vibrare il soprano entro spazi dilatati e meditativi, quasi sospesi nella luce boreale, mentre Favata lo carica di un’energia narrativa che affonda nel Mediterraneo, traducendolo in strumenti di racconto e di viaggio. Se il primo scolpisce atmosfere cristalline, il secondo preferisce percorsi dinamici, intrisi di corporeità e di vibrazione collettiva. In sintesi, rispetto agli altri soprani europei Favata appare meno interessato alla ricerca estrema di laboratorio e più incline a un uso funzionale dello strumento come veicolo di racconto, ponte fra universi culturali. Laddove Parker destruttura, Lacy astrae, Garbarek sublima e Surman trasforma in elegia, Favata annoda, costruendo trame in cui la Sardegna diventa epicentro di una mappa sonora che guarda verso Sud e verso Est, in un costante processo di apertura.

Il confronto fra Enzo Favata e Roberto Ottaviano, entrambi legati in maniera elettiva al sax soprano, consente di osservare due percorsi paralleli che, pur condividendo un terreno comune, vale a dire, l’attenzione alle possibilità liriche e narrative dello strumento, divergono significativamente per inclinazioni estetiche, vocabolario musicale e postura intellettuale. Ottaviano, formatosi attraverso una lunga immersione nella tradizione afroamericana ed al fianco di figure storiche come Steve Lacy, ha costruito un linguaggio che unisce rigore analitico e densità emotiva. Il suo soprano si caratterizza per una cantabilità che mantiene saldo il legame con il jazz nella sua accezione più radicale, ossia come arte dell’improvvisazione che non abdica né alla riflessione strutturale né al senso di comunità. La sua linea melodica è spesso sorretta da un fraseggio articolato, in cui l’attenzione al dettaglio si sposa con la ricerca di una vocalità interiore. Ottaviano appare dunque come erede di una genealogia consapevolmente storicizzata, ma capace di trasfondersi in un pensiero contemporaneo. Favata procede in una direzione differente. Pur avendo anch’egli assimilato la lezione della grande tradizione sopranista novecentesca, non intende replicarne i modelli; piuttosto, trasfigura lo strumento in chiave antropologica e narrativa. Se Ottaviano tende a inscrivere il soprano entro un discorso jazzistico di matrice colta, Favata lo impiega come veicolo di racconto mediterraneo e diasporico, aprendo l’improvvisazione a contaminazioni che spaziano dalle polifonie sarde alle voci ancestrali africane, dalle sonorità latinoamericane fino ai paesaggi sonori elettronici. L’elemento lirico, in lui, non è mai puro esercizio formale, ma funzione di evocazione collettiva. Il suo soprano canta non tanto la memoria del jazz, quanto i miti e le storie di un Sud del mondo immaginato e rivissuto. In termini timbrici, la differenza si coglie con immediatezza. Il suono di Ottaviano tende all’essenzialità, all’equilibrio fra calore e trasparenza, quasi a voler raggiungere una purezza cristallina della voce strumentale. Favata, al contrario, ricerca un timbro cangiante, che si modella di volta in volta sulle esigenze narrative, a tratti pastorale ed arcaico, altrove spigoloso e percussivo, capace di inserirsi in tessiture collettive o di emergere come voce solitaria. Un ulteriore scarto riguarda l’orizzonte progettuale. Ottaviano privilegia la riflessione sul jazz come linguaggio universale, all’interno del quale innestare letture personali e colte. Favata, invece, tende a concepire il jazz come una piattaforma mobile, un pretesto per attraversare culture e continenti, collocando la Sardegna al centro di una cartografia sonora che non conosce gerarchie geografiche. Ne risulta una differenza di postura estetica: Ottaviano si presenta come interprete-filologo, custode e innovatore della tradizione sopranista, mentre Favata si colloca nel ruolo di narratore-traghettatore, che usa il soprano per trasportare il pubblico in un viaggio immaginifico e interculturale. Entrambi hanno dato al sax soprano in Italia una dignità autonoma, ma lo hanno fatto percorrendo strade divergenti, ossia l’uno attraverso l’approfondimento di una genealogia jazzistica, l’altro attraverso la creazione di una geografia sonora pluriversa.

Il panorama italiano del sax soprano offre una pluralità di approcci che, accostati a quello di Enzo Favata, permettono di delineare una costellazione di differenze stilistiche e di affinità implicite. Se con Roberto Ottaviano il confronto si gioca sul piano della continuità col jazz afroamericano e con la lezione di Steve Lacy, altri interpreti come Gianluigi Trovesi e Massimo Nunzi testimoniano ulteriori modalità di concepire lo strumento e la sua funzione. Trovesi, pur avendo nel clarinetto e nel clarinetto basso i suoi strumenti prediletti, ha frequentato il soprano in maniera episodica ma significativa. Il suo approccio si colloca nel solco di un pensiero polifonico che congiunge la cultura colta europea, le tradizioni popolari lombarde e bergamasche, il contrappunto rinascimentale e la dimensione improvvisativa jazzistica. Se paragonato a Favata, Trovesi appare più incline a una costruzione architettonica, quasi contrappuntistica, in cui la linea del soprano assume funzione di voce nel tessuto polifonico, piuttosto che di canto solista evocativo. La sua ricerca non mira a un Sud geografico, ma a un Nord mitico e culturale, evocato attraverso la memoria di danze popolari, corali montane e melodie di paese. Due geografie interiori dunque, radicalmente differenti, ma accomunate da una medesima tensione ad innervare il jazz con la linfa delle tradizioni locali. Massimo Nunzi, da parte sua, pur essendo noto soprattutto come trombettista e compositore, ha fatto del soprano un’estensione di un discorso musicale incentrato sul teatro, la drammaturgia e l’interazione con altri linguaggi espressivi. Nei suoi progetti emerge un uso dello strumento non tanto come vettore lirico, quanto come elemento scenico, in grado di dialogare con la parola, con il gesto e con la multimedialità. In questo senso la distanza da Favata appare notevole; mentre quest’ultimo pensa al soprano come prolungamento della voce collettiva e memoria ancestrale, Nunzi lo concepisce quale parte di una tavolozza timbrica a servizio di una narrazione teatrale, dunque con finalità quasi diegetiche. Il confronto con Ottaviano, Trovesi e Nunzi consente di comprendere la singolarità del percorso di Favata: se il primo custodisce l’eredità lacyana e la rilancia in chiave italiana, se il secondo fa del soprano (e più in generale dei fiati) uno strumento di ponte fra antico e moderno, se il terzo lo impiega in un contesto teatrale e narrativo, Favata lo radica in un Mare Nostrum allargato, facendone veicolo di passaggio fra culture extraeuropee e memoria sarda. In altre parole, egli si distingue par l’orientamento verso il Sud globale. Laddove i colleghi guardano prevalentemente a un passato europeo o a un jazz afroamericano, Favata interroga la contemporaneità attraverso la lente di un cosmopolitismo mediterraneo che non esita a valicare oceani, deserti e steppe.

Il percorso discografico di Enzo Favata sancisce un itinerario sonoro che attraversa paesaggi culturali e immaginari diversi, dal Mediterraneo al Sud del mondo, con una tensione che unisce lirismo, sperimentazione e memoria collettiva. «Voyage En Sardaigne», tra i suoi lavori più emblematici, costituisce una sorta di manifesto del rapporto tra Favata e la sua terra d’origine. L’album si apre con linee di sax soprano che emergono dal silenzio come spiriti evocativi, affiancate da percorsi percussivi che richiamano le ritualità pastorali sarde. Le polifonie vocali dei Tenores di Bitti e di Orosei si uniscono al fraseggio solista, producendo un effetto simile a quello dei colori caldi e terrosi di un quadro di Gauguin, mentre l’ascoltatore percepisce l’eco delle pietre, dei venti e delle antiche feste popolari, come se Favata volesse rendere udibile la geografia stessa dell’isola. Dal punto di vista armonico, l’album sfrutta scale modali e microintervalli che rimandano alla musicalità mediterranea, combinandoli ad una libertà improvvisativa tipicamente jazzistica, che conferisce alle strutture melodiche un respiro fluido e imprevedibile. «Atlantico» testimonia la propensione di Favata a guardare oltre i confini territoriali, verso le culture del Sud globale. Il soprano assume qui un ruolo di narratore itinerante, in dialogo con percussioni africane, vibrafoni brasiliani e le trame elettroniche di Jan Bang ed Eivind Aarset. L’album evoca suggestioni cinematografiche che ricordano le atmosfere dei documentari etnografici di Jean Rouch, in cui il suono diviene registro di incontri, migrazioni e ritualità. L’uso delle dinamiche, dalle sfumature più sottili ai contrasti improvvisi, genera una scansione narrativa che coinvolge l’ascoltatore come in un romanzo di viaggi, dove il senso del tempo diventa elastico, oscillando tra memoria atavica e percezione immediata. Con «Boghes And Voices», Favata esplora la voce come materia sonora integrata al jazz contemporaneo. Le collaborazioni con cantanti africani e con i Tenores sardi non sono mai superficiali; le linee vocali, spesso polifoniche, si aggrovigliano con il sax soprano creando un tessuto armonico stratificato, che ricorda le trame sonore del free jazz di Lester Bowie o le sovrapposizioni di Steve Lacy. L’album si distingue per un uso raffinato del silenzio e delle pause, che agiscono come veri e propri dispositivi narranti, in cui ogni frase assume una valenza quasi cinematografica, rimandando all’estetica del realismo magico di García Márquez, in cui la realtà quotidiana convive con presenze misteriose e simboliche. «Made In Sardinia» si presenta come un ponte tra radice ed innovazione. Favata traduce le inflessioni popolari e le melodie tradizionali sarde in un linguaggio jazzistico flessibile e contemporaneo. L’uso del soprano diventa particolarmente espressivo, mentre le linee melodiche si piegano ai fraseggi ritmici dei percussionisti ed ai pattern del drumming elettronico, creando una percezione di movimento continuo, simile a quella che si potrebbe osservare in un film di Emir Kusturica, in cui i personaggi e gli eventi si susseguono con un’energia imprevedibile e vitale. L’album rivela un’attenzione musicologica alle microstrutture tonali ed alle articolazioni ritmiche, bilanciando libertà improvvisativa e architettura compositiva. Infine, «Os Caminhos De Garibaldi» rappresenta un esempio lampante della capacità di Favata di trasformare un soggetto storico in esperienza musicale evocativa. L’album, dedicato al mito del generale sardo-italiano, utilizza il soprano come story-teller che percorre episodi e memorie, accompagnato da percussioni, archi e strumenti a fiato che conferiscono una dimensione epica e cinematografica. Le improvvisazioni dialogano con temi ricorrenti, creando continuità narrativa, dando forma a un vero e proprio romanzo sonoro. L’approccio compositivo rivela un equilibrio tra la tensione verso l’innovazione ed il rispetto della memoria storica, simile alla pittura storica di Delacroix trasposta in forma musicale, in cui ogni colore timbrico, ogni frase ed ogni silenzio contribuiscono a costruire un racconto coerente e immersivo. In questi cinque album emerge con chiarezza la cifra distintiva di Favata, dove il soprano si caratterizza come semplice veicolo melodico, ma strumento di narrazione, capace di mediare tra radici locali ed orizzonti globali, fra tradizione e sperimentazione. L’ascolto si trasforma in un viaggio sensoriale ed emotivo, in cui l’arte diventa ponte tra culture, memorie e paesaggi sonori differenti, sempre guidato da una tensione poetica che unisce tecnica, espressività ed immaginario.

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