Art Farmer, geometria e respiro: paesaggi accordali e cantabilità interiore

Art Farmer
Lungi dal cedere alla spettacolarità, Farmer articolava il discorso improvvisativo in frasi di respiro ampio, plasmate con una meticolosa attenzione alla disposizione delle note nello spazio metrico. Tale postura estetica, nutrita da un senso di misura che rasentava l’ascetismo, lo collocò tra le personalità più influenti del post-bop.
// di Francesco Cataldo Verrina //
Il 21 agosto 1928, a Council Bluffs, nell’Iowa, vede la luce Arthur Stewart Farmer, destinato a imporsi come una delle voci più eleganti e liricamente persuasive della tromba e del flicorno nel secondo Novecento jazzistico. Fratello gemello del contrabbassista Addison, trascorse l’infanzia a Phoenix, per poi trasferirsi nel 1945 a Los Angeles, dove affinò la propria esperienza accanto a Horace Henderson e Floyd Ray. L’ingresso nell’organico del batterista Johnny Otis lo condusse sulla costa orientale dove, tra il 1947 e il 1948, visse a New York come musicista indipendente, congiungendo l’attività performativa ad un intenso studio della teoria e della tecnica sotto la guida di Maurice Grupp.
Il ritorno temporaneo in California lo vide impegnato con Benny Carter, preludio a nuove tappe decisive: nel 1951 al fianco di Wardell Gray e, poco dopo, nell’orchestra monumentale di Lionel Hampton. L’incontro con il sassofonista Gigi Gryce segnò un sodalizio fecondo, concretizzatosi in un quintetto attivo, seppur in maniera intermittente, fino alla metà del 1956. Seguirono collaborazioni con Horace Silver e, due anni più tardi, con Gerry Mulligan, periodo in cui Farmer ottenne una risonanza internazionale, alimentata anche dalla sua partecipazione al film di Robert Wise, «Non voglio morire». Il 1959 segnò l’avvio di una delle formazioni più acclamate del periodo, il Jazztet, cofondato con Benny Golson: un laboratorio sonoro in cui la scrittura d’insieme, calibrata con rigore architettonico, s’innestava su un’eloquenza strumentale intrisa di calore e misura. Le difficoltà economiche portarono allo scioglimento del gruppo nel 1962, ma quell’esperienza consolidò la reputazione di Farmer come artista di rara raffinatezza timbrica. Fu in quegli anni che optò per il flicorno, intuendone le potenzialità espressive, ossia la curvilinearità del suono, la fluidità delle sfumature, la predisposizione ad avvolgere la progressione tematica in un alone quasi vocale. In breve tempo ne divenne un interprete sopraffino, superando per coerenza estetica e padronanza tecnica figure di riferimento quali Thad Jones, Clark Terry e Chet Baker. L’intesa con il chitarrista Jim Hall, protrattasi fino al 1964, costituì una delle pagine più intriganti e raffinate della sua carriera, contraddistinta da un interplay privo di orpelli e da una sensibilità timbrica affine. Successivamente,il flicornista intraprese una collaborazione con il pianista Steve Kuhn ed intensificò la propria attività europea, fissando la residenza a Vienna nel 1968, pur mantenendo frequenti contatti con la scena statunitense. La sua partecipazione alla Clarke-Boland Big Band, vera e propria «legione straniera» di eccelsi musicisti euro-americani – tra cui Benny Bailey, Idrees Sulieman, Herb Geller, Sahib Shihab e Kenny Clarke – sancì la versatilità di un jazzista capace di inserirsi in contesti orchestrali complessi senza rinunciare ad una cifra espressiva personale.
La sonorità di Farmer, elegiaca e penetrante, raggiungeva un’intensità quasi tattile con l’uso della sordina, rivelando una naturalezza nell’affrontare ogni difficoltà tecnica che annullava la percezione dello sforzo. Lungi dal cedere alla spettacolarità, articolava il discorso improvvisativo in frasi di respiro ampio, plasmate con una meticolosa attenzione alla disposizione delle note nello spazio metrico. Tale postura estetica, nutrita da un senso di misura che rasentava l’ascetismo, lo collocò tra le personalità più influenti del post-bop. Fino alla sua scomparsa, avvenuta a New York il 4 ottobre 1999, mantenne inalterata la qualità della propria voce strumentale, consegnando alla memoria collettiva un esempio di classicità modernamente intesa, ossia di un’arte del canto strumentale in cui il volo pindarico non appare mai quale cedimento gratuito all’emotività, ma disciplina interiore e consapevole padronanza dei mezzi. La cifra espressiva di Art Farmer si radica in una letteratura del suono come materia plasmabile, levigata e intimamente cantabile. Il passaggio dalla tromba al flicorno, compiuto all’inizio degli anni Sessanta, costituì non una semplice scelta timbrica, ma una dichiarazione estetica, ossia privilegiare la rotondità dell’emissione, la densità vellutata delle note e un legato quasi vocale, dove il fraseggio risulta costruito con un’attenzione calligrafica alla disposizione delle altezze e alla modulazione dinamica, evitando ogni urgenza di destrezza assertiva. La sua concezione armonica, pur affondando le radici nel bebop, si apre a progressioni sottilmente deviate ed a spazi modali, con un costante controllo del registro espressivo. Nei contesti cameristici – dal suddetto sodalizio con Jim Hall alle interazioni nel Jazztet – emerge una sensibilità dialogica che favorisce la complicità timbrica ed il contrappunto melodico piuttosto che la contrapposizione energetica. Nella proiezione verso il pubblico, Art comunica in modo indiretto, quasi circospetto, invitando ad un ascolto attento e concentrato. Con la sua scelta deliberata di eleggere il flicorno a strumento d’elezione, egli fece della rotondità timbrica, del legato setoso e di una luminosità mai abbagliante il proprio segno distintivo. Ascoltando i suoi dischi, ogni frase appare meditata, calibrata come una linea tracciata con mano ferma, priva di sbavature e di eccessi retorici; il lirismo non si affida all’effusione romantica, ma ad una disciplina interna che filtra e organizza l’emozione in forme di classicità sobria. In Farmer si avverte la diffidenza verso la pura muscolarità tecnica, deviata in una sorta di introiezione sonora, che lo spinge ad orientarsi verso i contesti più ristretti o piccoli combo in cui l’interplay diventa scambio sommesso e quasi telepatico, La coerenza poetica di Farmer, che negli anni si è affinata concentrandosi attorno ad un asse portante di tipo timbrico e fraseologico stabile, in cui ogni nota acquista il peso di un accento calligrafico, distinguendosi proprio per la scelta, non casuale, del flicorno come strumento prediletto. In verità, non si trattò di mera ricerca di morbidezza timbrica, bensì di una dichiarazione estetica coerente con la sua filosofia musicale. Il flicorno, con la sua emissione setosa e meno penetrante, facilitò un fraseggio cantabile ed aerobico, lontano dall’arroganza tecnica e più vicino al sussurro eloquente. Molta critica dell’epoca – parliamo degli anni Sessanta – rileva che Art evitasse il suono brillante della tromba ortodossa, seguendo piuttosto la misura aggraziata di Miles Davis o Kenny Dorham, mentre la sua articolazione riverberava con la leggerezza ritmica di Billie Holiday. Percorrendo questa traiettoria, Farmer non si limitò a suonare il flicorno, ma nel 1989 partecipò alla creazione del flumpet, strumento ibrido che coniuga la risposta rapida della tromba con la rotondità del flicorno, consentendogli un’espressività versatile in contesti tanto raccolti quanto orchestrali. Farmer prediligeva una specie di intimità raccolta: basti pensare al sodalizio con Jim Hall, primo esempio di dialogo sottilmente immerso nella raffinatezza armonica, dove ogni frase era curata come un passo di coreografia ed ogni silenzio diventava materia sonora. Il flumpet, progettato appositamente per lui da David Monette, fu il frutto di una precisa visione estetica. La transizione dalla tromba al flicorno funse da catalizzatore per un fraseggio etereo e vocante, concepito come melodico, swingante ed elegiaco, talvolta – come già detto – evocando un’ugola straordinaria come quella di Billie Holiday. Il flicorno, con il suo timbro ovattato e avvolgente, divenne il veicolo privilegiato per una poesia strumentale raffinata, quasi come un sussurro calibrato. Il flumpet estese ulteriormente queste possibilità espressive, combinando la prontezza reattiva della tromba con la sinuosità del flicorno, consentendogli di scolpire il suono in un microcosmo quasi sacro, dove la materia poetica, plasmata con rigore interno e misura, incarnava una coerenza espressiva e meditabonda, capace di quella lirica sospesa che invita all’ascolto profondo, in immaginario capace di indugiare tra spazio e silenzio. Collocare Art Farmer all’interno del ricco e variegato pantheon dei trombettisti coevi significa addentrarsi in un contesto sonoro e culturale di grande complessità, ove ogni voce emergente contribuiva a definire le molteplici sfumature del linguaggio jazzistico post Seconda Guerra Mondiale. Farmer, con la sua predilezione per il flicorno e la successiva invenzione del flumpet, si distingue nettamente dalla tradizione più canonica rappresentata da colleghi come Clifford Brown o Miles Davis, che incarnano rispettivamente la fulmineità tecnica e il minimalismo espressivo. Il suo procedere a bassa velocità, conferivano una dimensione più fruibile al virtuosismo trombettistico. In questo senso, la suo modus operandi si attesta quasi come una mediazione fra la tradizione bop e l’aspirazione verso un linguaggio concertato, riflessivo e cogitabondo, avvicinandosi talvolta alla sensibilità di Lee Morgan, ma senza la stessa incandescenza dirompente ed aggressiva.

Senza dubbio, un confronto fra Art Farmer e Franco Piana si presta ad una riflessione profonda sulle traiettorie individuali e collettive del linguaggio trombettistico nel secondo Novecento, mettendo a fuoco una dialettica fra radici americane e proiezioni europee che rivela affinità, convergenze e contrasti stilistici di notevole rilievo. Farmer, con il suo lirismo intimo e la scelta innovativa del flicorno, costruisce una voce incentrata su un fraseggio introverso, carico di un’eleganza rarefatta e di un’attenzione quasi cameristica al timbro, elemento che lo avvicina ad una dimensione poetica del suono. In questo panorama, Franco Piana s’inserisce come un’interessante tessera europea, capace di declinare la tromba secondo un lessico espressivo che, pur attingendo alla tradizione americana, si plasma nella tensione verso la sperimentazione e la contaminazione con le istanze del jazz contemporaneo. La sua musica, che spesso si nutre di suggestioni free form e di sonorità eteree, si caratterizza per un approccio timbrico e narrativo che accentua la fluidità e l’immediatezza, ma con una minore enfasi sul lirismo sospeso tipico di Farmer ed una comune ricerca espressiva declinata secondo prospettive differenti. Mentre Farmer dialoga spesso con il vernacolo tradizionale ed i suoi sviluppi, Piana s’interseziona in un discorso europeo che si apre al dialogo interculturale ed all’ibridazione stilistica. Le complicità emergono soprattutto nell’attenzione al fraseggio ed alla capacità di modulare intensità e timbro in funzione della progressione sonora; le divergenze risiedono nell’orientamento verso la forma e nella gestione del tempo, con Art che privilegia un lirismo etereo e Franco che si muove in una dimensione più aperta e fluida, ma concreta. Nel complesso, questo confronto evidenzia come la tromba (e strumenti derivati) possano diventare medium di molteplici narrazioni sonore, ciascuna espressione di un diverso contesto culturale e di un personale percorso artistico, ma tutte accomunate dalla volontà di rinnovare ed ampliare il lessico del jazz. Così, Farmer e Piana non solo rappresentano momenti diversi del jazz mondiale, ma incarnano anche la pluralità delle vie attraverso cui il linguaggio trombettistico si è evoluto, contaminato e reinventato nel Novecento ed oltre
Certamente. Franco Piana rappresenta una delle figure più raffinate ed innovative nel panorama del jazz europeo contemporaneo, con un linguaggio strumentale che si distingue per la versatilità e la profonda sensibilità timbrica, sia nella tromba sia nel flicorno. Dal punto di vista tecnico, Piana è noto per un controllo del fiato ed un’articolazione di rara precisione, che gli consente di modulare con maestria dinamiche e coloriture sonore. La sua tromba, spesso utilizzata per passaggi lirici ma anche per fraseggi più incisivi e improvvisativi, si caratterizza per una pulizia del suono che si sposa ad una capacità di espressione intensa e vivida, capace di passare da momenti di lirismo sospeso ad episodi di forte tensione narrativa. L’agilità delle dita e l’attenzione ai dettagli, ai microtempi ed alle inflessioni melodiche lo pongono tra i solisti più espressivi della scena continentale. Nell’uso del flicorno, strumento che Piana impiega con una predilezione per la fragranza timbrica e l’opulenza armonica, emerge un ulteriore livello di raffinatezza. Il flicorno consente a Piana di allargare la tavolozza cromatica, ottenendo un suono più rotondo, caldo e felpato rispetto alla tromba. Questo ampliamento timbrico si traduce in una maggiore capacità evocativa, con fraseggi che assumono una qualità più intimista ed un’espressività più contemplativa. La scelta del flicorno lo pone in continuità con una tradizione lirica che affonda le radici proprio in artisti come Art Farmer, pur mantenendo una cifra personale, più aperta all’evocazione del silenzio e dello spazio. Il contrasto tra tromba e flicorno nel suo repertorio non si limita a una mera variazione di colore, ma coinvolge differenti strategie narrative e gestuali. La tromba, più brillante e penetrante, viene spesso impiegata per momenti di maggiore incisività e dinamismo, mentre il flicorno permette un approccio più meditativo, quasi sospeso, nei quali la linea melodica si dilata ed il respiro si fa più profondo e controllato. In sintesi, Franco Piana si distingue per una padronanza tecnica che gli consente di esprimersi con piena padronanza sia sul versante più diretto e brillante della tromba, sia su quello più melodioso ed idilliaco del flicorno, facendone un interprete poliedrico e profondamente sensibile, capace di articolare un discorso musicale coerente e sofisticato, che dialoga con le diverse tradizioni ma si mantiene sempre radicato in una prospettiva contemporanea e soggettiva.
L’itinerario discografico di Art Farmer, lungi dall’essere un mero susseguirsi di incisioni, appare come un corpus coerente e stratificato, in cui il lirismo intimista del flicornista si fonde con una meticolosa architettura armonica ed una consapevolezza timbrica di rara raffinatezza. La sua cifra espressiva, al contempo vellutata e sorretta da un’irreprensibile logica interna, trova riscontro in lavori che, pur eterogenei per contesto ed organico, rivelano un’identica tensione verso un equilibrio tra introspezione e chiarezza formale. In «Modern Art» (United Artists, 1958), la compresenza di Bill Evans al pianoforte e Benny Golson al tenore crea un contesto in cui la verticalità accordale e la linearità contrappuntistica si sostengono a vicenda. Farmer si colloca in una zona di frontiera tra l’eredità hard bop e una concezione più tersa e cameristica del piccolo ensemble, affiancato da Benny Golson, Bill Evans, Addison Farmer e Dave Bailey. Il dialogo con Evans, privo di ogni ridondanza retorica, genera una trama armonica in cui le voci s’incastrano con precisione quasi contrappuntistica, e la scelta di un fraseggio misurato ma carico di sottintesi emotivi sottrae la narrazione improvvisativa a qualsiasi eccesso declamatorio. Ne scaturisce una musica sospesa tra rigore formale e accenti lirici, dove ogni pausa diviene parte integrante del discorso. L’ingresso di Farmer in «Darn That Dream», ad esempio, non si limita a riprendere la melodia del tema ma ne svela, nota dopo nota, le zone d’ombra: l’attacco sulla nona maggiore, discendente verso la terza maggiore, non è una semplice decorazione ma un modo di affermare la tensione emotiva insita nella progressione II–V–I in B♭, sospendendo il senso di compiutezza. Evans, con voicings aperti ed intervalli interni che richiamano l’impressionismo francese, amplifica questo senso di sospensione; Farmer, con il suo fraseggio legato ed il controllo minuzioso della dinamica, riesce a far percepire il peso specifico di ogni grado armonico, senza mai rinunciare a una fluidità cantabile. Ne risulta un’interpretazione in cui l’armonia diventa un paesaggio e la melodia il sentiero che lo attraversa, non sempre in linea retta, ma sempre con un orientamento poetico preciso. Il dialogo si fa ancora più intimo in «Art Farmer Quartet Featuring Jim Hall» (Atlantic, 1963). L’assenza del pianoforte obbliga ad una diversa gestione dello spazio sonora diversa, in cui l’armonia non risulta mai completamente «chiusa» ma rimane suggerita, affidata a frammenti di accordo che Hall dispensa con mano leggera, mentre si entra in un territorio di meditata rarefazione, in cui la chitarra, dal tocco traslucido ed armonicamente sofisticato, sembra rifrangere la linea melodica del leader in una serie di riverberi e dissolvenze. L’interazione si svolge in uno spazio sonoro volutamente arioso, quasi cameristico, in cui la verticalità accordale è sempre temperata da una fluida orizzontalità melodica. La scelta di tempi medio-lenti e di una tavolozza dinamica controllata permette di cogliere l’attenzione minuziosa alle sfumature timbriche, tratto distintivo della poetica di Farmer. Nella loro versione di «I’m Getting Sentimental Over You» le modulazioni da E♭ a G maggiore non hanno la nettezza di un cambio di scena teatrale, ma il carattere sfumato di un cambio di luce. Farmer asseconda questa logica evitando le risoluzioni scontate: quando l’armonia preme verso il G maggiore, preferisce sostare sulla quarta aumentata, sospendendo il discorso in una dimensione Lidia. Emotivamente, questo si traduce in una sensazione di attesa prolungata, di «trattenimento» affettivo, ossia non il colpo di scena, ma il piacere di restare sul confine, gustandone la fragilità.
Con «The Jazztet And John Lewis» (Argo, 1961) si entra in un territorio in cui la disciplina formale diventa motore dell’invenzione. La collaborazione con il pianista del Modern Jazz Quartet innesta nella compagine di Farmer e Golson un elemento di compostezza quasi neoclassica. Lewis interviene con linee dal sapore bachiano e una scansione ritmica che privilegia l’essenzialità, conferendo alla compagine un assetto in cui il gesto improvvisativo appare sempre inscritto in una cornice di equilibrio e proporzione. L’eleganza di Farmer, lungi dall’essere mera superficie, si traduce qui in un’arte della sottrazione, dove la densità emotiva si manifesta nelle inflessioni minime, nei leggeri spostamenti di accento, in una cantabilità che resta intatta anche nei momenti di più articolata elaborazione armonica. Lewis porta con sé una concezione quasi neoclassica dell’armonia, in cui i II–V discendenti e le simmetrie intervallari costruiscono un’ossatura di estrema chiarezza. Farmer, di fronte a questo ordine, sceglie la via del cesello, dove le sue frasi sono scolpite con precisione, spesso evitando la densità di note in favore di micro-gesti che acquistano valore proprio in rapporto alla limpidezza dell’accompagnamento. Nella lettura di «Milano», l’uso della doppia enarmonia (G♯ come tensione cromatica e A♭ come nota di funzione diatonica) dimostra una consapevolezza armonica capace di traslare senza fratture il discorso da un contesto tonale a un altro, preservando continuità emotiva. La tavolozza si amplia in «Sing Me Softly Of The Blues» (Atlantic, 1965), dove Carla Bley fornisce materiali tematici irregolari, armonie che sfiorano la bitonalità e passaggi ponte verso centri tonali remoti, introducendo una tensione sotterranea tra la qualità meditativa del leader e la sua imprevedibile logica compositiva. Farmer risponde con un fraseggio più spezzato, in cui i salti intervallari, non di rado quinte giuste e tritoni, fungono da segnalatori drammatici, punti in cui il tessuto sonoro sembra aprirsi all’improvviso, mentre i temi, caratterizzati da intervalli inusuali e da un’armonia che si spinge verso ambiguità tonali, forniscono a Farmer un terreno fertile per una narrazione melodica mai ovvia. Tuttavia, anche in certe asperità, la voce del flicorno rimane curvilinea ed avvolgente, mentre il timbro smussa le dissonanze, consentendo all’ascoltatore di percepire la complessità armonica senza sentirla come aliena o ostile. L’effetto emotivo appare come quello di un dialogo interiore, in cui inquietudine e dolcezza si bilanciano, come se Farmer fosse capace di camminare in territori instabili senza perdere l’orientamento melodico. L’andamento delle improvvisazioni sembra oscillare tra la contemplazione e l’irruzione di una drammaticità controllata, rivelando la capacità del solista di modulare la propria voce in funzione dell’ambiente armonico.
Infine, «Live At The Half-Note» (Atlantic, 1963) restituisce Farmer nella condizione di massima libertà formale, in un interplay costante con Jim Hall e Steve Swallow. La dimensione concertistica amplifica la dialettica tra l’eloquio intimista e l’energia collettiva. La registrazione, priva di artifici post-produttivi, restituisce la fisicità del suono e la tensione istantanea dell’interplay. Farmer, pur mantenendo un controllo assoluto del fraseggio, si concede aperture improvvise verso un’espressività più diretta, sospinta dalle linee elastiche di Swallow e dal sostegno discreto ma incisivo di Perkins. L’effetto complessivo è quello di una conversazione ad alta concentrazione emotiva, in cui ogni intervento si colloca in un continuum fluido, senza cesure o compiacimenti virtuosistici. In «I’ve Grown Accustomed To Her Face» la struttura armonica viene manipolata in tempo reale: il II–V–I in G maggiore viene dilatato, abbreviato o colorato con sostituzioni modali, e Farmer si muove su queste variazioni con una padronanza che gli consente di trasformare ogni estensione (undicesima, tredicesima, nona maggiore) in un punto di appoggio melodico. Il fraseggio dal vivo, meno cesellato che in studio, guadagna in immediatezza, tanto che certe linee sembrano nascere da un’urgenza comunicativa che non sacrifica mai la chiarezza strutturale. Si avverte una fisicità del suono che amplifica l’impatto emotivo, in cui la dolcezza rimane, ma filtrata da un contatto diretto con l’energia del momento. In tutti e cinque questi contesti, la grandezza di Farmer sta proprio nella capacità di far convivere in un’unica voce il pensiero armonico più consapevole, la linea melodica più cantabile e la vibrazione emotiva più sottile. Ogni nota, per quanto frutto di calcolo e di conoscenza teorica, non perde mai la qualità di respiro, di gesto umano. Ciò che lo distingue non è un improvvisatore che usa l’armonia, ma un musicista che la abita, trasformandola in un paesaggio vivo in cui la melodia risulta sempre un atto di presenza, e l’emozione un corollario inevitabile. Queste cinque testimonianze, pur diverse per contesto e intenzione, disegnano il ritratto di un musicista che ha saputo trasformare la propria voce strumentale in un medium di rara sensibilità, capace di coniugare introspezione e lucidità formale in una sintassi musicale di impeccabile coerenza interna.
