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L’album si conforma come un viaggio all’interno di geografie sonore che non mirano a rappresentare culture, ma di farle dialogare in un territorio comune, costruito con una cura artigianale che appartiene solo ai grandi compositori dotati di una visione ampia e idiomaticamente articolata.

// di Bounty Miller //

L’opera di Ryuichi Sakamoto si proietta sulla scena internazionale come una delle traiettorie più raffinate della musica contemporanea, frutto di un percorso che ha saputo unire studi accademici di composizione, immersione nelle avanguardie elettroniche giapponesi degli anni Settanta e un’attenzione costante per le tradizioni extra-occidentali. La sua concezione dell’armonia nasceva da un’idea di espansione laterale del linguaggio, in cui le progressioni prediligevano deviazioni modali, sovrapposizioni scalari provenienti da repertori lontani e un uso calibrato delle dissonanze intese come elementi di colore. L’impostazione, derivante da una doppia radice, si nutriva da un lato attraverso la frequentazione della musica colta del Novecento – Messiaen, Takemitsu e Ligeti – dall’altro sulla scorta dell’assimilazione di strutture melodiche della tradizione nipponica, con le loro micro-flessioni e gli intervalli irregolari, rielaborati con una sensibilità quasi calligrafica.

Il rapporto con l’elettronica, avulso da un’adesione futurista, sanciva sistematicamente un’esigenza di scandaglio timbrica. Fin dagli anni dello Yellow Magic Orchestra, Sakamoto utilizzò sintetizzatori e campionatori per ampliare la gamma delle possibilità acustiche, fondendo sorgenti reali e trattamenti digitali in un’unica trama sonora. L’elettronica divenne un’estensione del gesto compositivo, un luogo di sperimentazione in cui la materia veniva modellata con la stessa cura con cui un pittore lavorava le velature di un quadro. Questa attitudine si ritrova anche nelle colonne sonore, dove la scrittura orchestrale convive con elementi sintetici in un equilibrio che evita ogni retorica cinematica: le partiture per «L’ultimo imperatore», «Il tè nel deserto» e «Il piccolo Buddha» mostrano una capacità rara di costruire ambienti acustici che non illustrano l’immagine, ma la ampliano, suggerendo dimensioni emotive e culturali che oltrepassano la narrazione. All’interno di questo percorso, le influenze non si estrinsecano come citazioni, ma quali presenze assorbite e rielaborate. La musica africana, le tradizioni vocali dell’Asia orientale, il minimalismo americano, il pop più sofisticato, la canzone d’autore europea, tutto confluisce in un linguaggio che non cerca la sintesi, ma la coesistenza. Sakamoto ha agito da mediatore culturale dotato di una sensibilità immaginativa fuori dal comune, e versatile nel far dialogare materiali distanti senza ridurli a stereotipi. Il suo lavoro s’innesta così in una dimensione internazionale non per la quantità di collaborazioni, ma per la capacità di curare un territorio germinativo, in cui le differenze vengono valorizzate come elementi di un’unica geografia musicale.

La vicenda sonora di «Beauty» imbastisce un ordito sonoro simile a un insieme di convivenze acustiche, in cui Ryuichi Sakamoto, artefice armonico di rara finezza, convoca voci, idiomi musicali e tradizioni lontane per modellare un organismo unitario, mobile e multistrato. L’ascolto iniziale suggerisce una sorta di spaesamento fertile, quasi un varco che dà consistenza a una trama in cui la molteplicità non genera dispersione, ma piuttosto un disegno interno che si rivela progressivamente, come se ogni colore fonico trovasse la propria collocazione in una dimensionalità più ampia. La presenza di materiali provenienti da aree geografiche e culturali distanti non produce un mosaico decorativo, ma un continuum in cui le alterità si traducono in vettori di senso, secondo una logica che richiama certe pratiche della polifonia rinascimentale, dove le linee autonome si sostengono reciprocamente senza perdere identità. L’apertura dell’album mostra immediatamente questa pluralità di moduli espressivi: voci femminili, inflessioni africane, tracce di elettronica, frammenti melodici che sembrano provenire da repertori divergenti e che tuttavia trovano una coesione inattesa. «A Rose» emerge come un episodio in cui la componente jazzistica non si manifesta come citazione, ma quale modalità di pensiero armonico, con progressioni che si muovono per gradi congiunti e modulazioni laterali atte a suggerire un clima di sospensione emotiva. La domanda implicita sul destino del colore di una rosa sotto la pioggia diventa un’immagine poetica che non cerca simbolismi facili, ma un modo per evocare la fragilità del sentimento amoroso, trattato con una delicatezza che rimanda a certe miniature vocali della tradizione giapponese.

La figura di Youssou N’Dour percorre l’intero album come una sorta di filo luminoso che collega episodi differenti. La sua voce, dotata di una identità timbrica immediatamente riconoscibile, introduce una qualità espressiva che s’interseca con naturalezza nel tessuto sonoro di Sakamoto. In «Amore» il dialogo tra la chitarra e la linea vocale di N’Dour produce un clima di leggerezza apparente che nasconde una sottile ironia, quasi un gioco di specchi tra semplicità melodica e raffinatezza armonica. La scrittura di Sakamoto, sostenuta da tastiere che disegnano spazi acustici ampi e luminosi, permette alla linea vocale di muoversi con libertà, come se il componimento fosse concepito per accogliere un’improvvisazione controllata, simile a un canto che si posa su un tappeto armonico in costante mutazione, con la stessa cura con cui un liutaio rifinisce la tavola armonica. Il contributo di Robert Wyatt in «We Love You» introduce un’altra dimensione, più fragile, più esposta, quasi infantile nella sua purezza. La vocalità di Wyatt, da sempre caratterizzata da un profilo espressivo fuori norma, penetra nel contesto dell’album come un controcanto umano, vulnerabile, capace di traslare la rilettura del brano dei Rolling Stones in un gesto di affettuosa decostruzione. La sua partecipazione non cerca protagonismo, piuttosto una modalità di condivisione emotiva che arricchisce il quadro complessivo. «Diabaram», affidato interamente a N’Dour, dispensa un clima meditativo in cui la voce si muove con una linearità quasi liturgica. La pulizia del fraseggio, unita alla trasparenza dell’accompagnamento, suggerisce un canto che sembra rivolgersi a un altrove indefinito, come se la pagina musicale custodisse un ricordo o un omaggio non dichiarato. Sakamoto, in questo caso, si ritrae con eleganza, lasciando che la voce occupi lo spazio con una sorgività che richiama certe forme di canto cerimoniale dell’Africa occidentale. La varietà dei materiali non produce dispersione, ma un percorso coerente che trova in «Chinsagu No Hana» una sorta di sigillo conclusivo.

La compliance tra strumenti giapponesi, percussioni africane, archi americani e tastiere elettroniche genera un ambiente sonoro di rara suggestione, in cui la stratificazione delle fonti non cerca l’effetto esotico, bensì una forma di universalità poetica. Il costrutto si dipana come un lento dispiegarsi di velature acustiche che conducono l’ascoltatore verso una dimensione quasi onirica, simile a un paesaggio interiore che si apre e si richiude con la stessa naturalezza di un respiro. La copertina dell’album, con la figura nuda di Sakamoto ritratta in una posa meditativa, suggerisce una relazione profonda tra il processo creativo e la dimensione contemplativa. Lo sguardo rivolto verso un punto non definito sembra alludere a un carotaggio interiore o ad una forma di concentrazione che precede ogni atto compositivo. La fotografia non cerca la provocazione, ma un’essenzialità che rispecchia la poetica dell’album: un equilibrio tra fragilità e rigore, tra intimità e apertura verso il mondo. «Beauty» sancisce così come una dei concept più compiute di Sakamoto, non per la quantità di contributi esterni, quanto per la capacità di dare vita alla diversità come principio strutturale. Ogni passaggio narrativo diventa un luogo di incontro fra tradizioni, tecniche, sensibilità, facendo leva su un procedimento che non mira alla sintesi, ma alla coesistenza. L’album si conforma come un viaggio all’interno di geografie sonore che non mirano a rappresentare culture, ma di farle dialogare in un territorio comune, costruito con una cura artigianale che appartiene solo ai grandi compositori dotati di una visione ampia e idiomaticamente articolata.

Ryuichi Sakamoto

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