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Il trio non cerca surrogati per colmare assenze percussive, ma preferisce l’equilibrio mobile e una prassi che valorizzi il dettaglio. Ne scaturisce un ambiente in cui l’improvvisazione respira con la prudenza del musicista colto e con l’inventività del jazzista esperto: non una fusione didascalica, ma una convivenza organica tra logiche diverse, orchestrata con un approccio temperato.

//di Francesco Cataldo Verrina //

La seduta milanese del 2003 rinnovò il sodalizio fra Claudio Fasoli al tenore e al soprano, Rudy Migliardi al trombone e Paolo Birro al pianoforte. L’assenza di basso e batteria sposta subito l’attenzione verso una pratica cameristica, dove la scansione del tempo non passa per l’accento percussivo, ma per la respirazione interna delle linee, per la pressione armonica e per l’equilibrio tra sostegno grave e mobilità melodica. Il trombone, con la sua proiezione calda e profonda, definisce un fondale sonoro non privo di agilità; il pianoforte costruisce intercapedini ritmiche e progressioni di accordi che a tratti sorreggono, diversamente deviano, altre tentano di indicare una ben precisa rotta; il sax di Fasoli foraggia l’intreccio tematico e la continuità del discorso improvvisativo, mantenendo una lucidità quasi rituale che non sacrifica il potere secretivo delle cellule creative.

Operare in trio senza una sezione ritmica tradizionale produce conseguenze precise e come muoversi in assenza di fora di gravità. La pulsazione emerge dal moto interno delle voci e dal controcanto armonico, piuttosto che dall’impulso regolare; la densità metrica non viene dichiarata, viene suggerita. Il trombone non sostituisce semplicemente il basso: dialoga con il registro medio del pianoforte tracciando una geometria di pesi e contrappesi, mentre il sax s’innesta nelle fenditure delle superfici accordali che restano porose, aperte, e orientate a un fraseggio che privilegia l’elasticità. Ne derivano dinamiche irregolari, spazi non scritti, nonché un uso calibrato della sospensione, la quale appare in bilico e non risolta, ma sempre pronta a riprendere il filo. La successione dei componimenti riflette una logica non lineare. Titoli che ritornano («Claude Debussy» in due episodi), serie che si ramificano («By 1» e «By 2», «Azurka 1», «Azurka 2» e «Azurka 3», «Odla 1» e «Odla 2»), pagine che si richiamano per cellule e profili e che riaffiorano dopo cenni, riprese, scarti. Paradossalmente tale disposizione favorisce l’unità del progetto: la continuità non si giunge dall’esterno, ma è insita nel contesto, grazie a un sistema di ricorrenze e varianti che cementa la memoria dell’ascolto senza irrigidirla. La sessione, per dichiarazione di Fasoli, risulta elaborata e divertente; si avverte la mano di un disegnatore di forma che gioca con la ciclicità e con l’imprevisto, consolidando la coerenza generale mediante deviazioni controllate.

La qualità del suono, ossia timbro, fisionomia delle emissioni, colore e grana, restano costantemente curati. Il trombone evita il peso opaco e mantiene una presenza rotonda e ricettiva, abitando lo spazio del registro basso, ma con flessibilità; il pianoforte alterna corde e martellate leggere con pedali che dilatano il campo armonico; il sax modula variabili motiviche con intensità, passando dal soprano, più acuminato e luminoso, al tenore, più corporeo e risonante. Le tre voci non si fondono in un amalgama indistinto, componendo una trama, dove la distinzione resta utile e la convergenza diventa un fatto di equilibrio, non di sovrapposizione massiva. Il riferimento al jazz rimane saldo, ma la retorica dello swing come unico motore non domina. La pulsazione nasce dalla somma di micro-impulsi, dalla relazione tra sostegno grave e disegno accordale, e dalla continuità del fraseggio. In questo senso l’impianto compositivo dialoga con pratiche novecentesche di scrittura da camera, con una consapevolezza della forma che non blocca l’improvvisazione, piuttosto la orienta. Fasoli agisce come regista armonico e curatore del suono, sostenuto da due partner di solida formazione e sensibilità: la coesione deriva dall’ascolto reciproco, non da una griglia imposta. Il trio, così concepito, non cerca di colmare l’assenza del drum and bass con surrogati, ma piuttosto preferisce un equilibrio instabile ben governato, dove ogni voce si assume una responsabilità formale e sostanziale, mentre qualsiasi silenzio pesa quanto un accento.

«Claude Debussy» apre il ciclo con un corno dal sentore vichingo che sembra stagliarsi su un paesaggio nordico. Il ricordo dell’armonia debussyana si manifesta come una sottile membrana trasparente, in cui il pianoforte stende superfici luminose, il trombone definisce un basamento che non appesantisce, mentre il sax disegna linee sottili, quasi grafemi sonori. La suggestione visiva avvicina questa pagina alla nettezza meditata del minimalismo pittorico: griglie interiori, continuità cromatiche, respiro controllato. In termini accordali, si avvertono trasposizioni parallele e modulazioni per prossimità, con una priorità rivolta alla continuità cromatica piuttosto che all’urto cadenziale. «By 1» riprende i nuclei iterativi e li fa crescere per addizione, con piccoli scarti metrici e un dialogo ravvicinato fra trombone e pianoforte. La percezione del costrutto procede come in un racconto basato su un’andatura a saltello, fatto di memorie che riemergono e deviazioni che rompono la trama. La progressione del sax evita la cesura brusca, preferendo un arco continuo; gli incastri suggeriscono poliritmie sottili, mentre il sostegno armonico lavora su un gioco roteante e colorato. «Azurka 1» evoca il passato remoto di una danza senza nostalgia con accenti spostati, micro-contrattempi ed una camminata diagonale. Il pianoforte usa impasti medio-gravi per calibrare il passo, il trombone introduce appoggi irregolari, mentre il sax ritaglia figure che sfiorano l’hemiola. L’immagine rimanda a una festa che si mostra e si trasfigura, con il quotidiano che diventa visionario. L’armonia preferisce modalità miste, con tinte che schivano la rigidità tonale. «Claude Debussy» (seconda apparizione) non ripete, ma sposta l’asse tematico. Il materiale iniziale diviene rarefatto, distendendosi, le progressioni planate si assottigliano, mentre il sassofono cerca intervalli stretti e movimenti congiunti. Il quadro sonoro si avvicina alla pittura di Morandi, con variazioni minime, differenze sottili ed una quiete attentiva. Il pianoforte lavora su sovrapposizioni delicate e rilasci controllati; il trombone respira ampio, senza appesantire, mentre il sax procede in filigrana sottile. «By 2» ridisegna l’iterazione con un contrappunto più evidente, in cui il pianoforte propone cellule spezzate, il trombone risponde con linee oblique ed il tenore incolla le due superfici con un fraseggio legato. L’immagine cinematografica è quella di un lungo piano sequenza, dove regnano antiche suggestioni e movimenti circolari. L’armonia sospende le cadenze forti, optando per le sovrapposizioni leggere e le divergenze strutturali.

«Rit» concentra la percezione sul rallentamento interno: pochi suoni, ben pesati, ed un uso del pedale che allarga lo spazio senza diluirlo come una poesia dalla parola scarnificata, incisiva e minimalista. Il trombone si fa respiro, il pianoforte sembra indugiare, mentre il sax procede con passo sicuro. «Azurka 2» rinnova la memoria della danza con una traiettoria laterale, quasi un gesto quotidiano ricomposto, fatto di cicatrici ritmiche e di fragilità strutturata. L’organizzazione armonica si distribuisce senza enfasi, puntando su cromatismi morbidi e triadi estese. «Rada» appare come un approdo provvisorio, necessario per comprendere il senso del percorso del trio. Per metafora, il trombone avvicina l’orecchio al mare, suggerendo una profondità abissale, mentre il pianoforte, con intervalli ampi e luminosi, dispensa una dimensione spaziale che sembra provenire da una luce obliqua, quasi pittorica. Il sax predilige linee distese, evitando la tensione e scegliendo un andamento prolungato. «Azurka 3» conclude la serie con un gioco d’ombra. Il pianoforte spezza gli accenti, generando fratture sottili, il trombone risponde con appoggi consapevoli, mentre il sax s’insinua tra le pieghe, dispensando cromatismi lenti, quasi a cercare un percorso nascosto. La tessitura armonica lavora su poli modali vicini, senza fissare un centro unico, preferendo, per contro, la mobilità e la pluralità dei riferimenti. «Igenom» ribalta prospettive: già il titolo annuncia il capovolgimento. Il pianoforte costruisce piccole cellule e le riflette, il trombone abbandona la funzione di basamento e prova linee medie, mentre il sassofono riflette specchi sonori, dove il tempo si mantiene come un nervatura interna, non dichiarata ma percepibile. «Odla 1» concentra l’attenzione sul dettaglio lessicale con una procedura cameristica. Le parti si inseguono e si rispondono, creando incastri che generano micro-paragrafi sonori. «Pause» non è un vuoto, ma una compressione. Il silenzio diventa membrana, dove la superficie vibra e la risonanza conta quanto l’emissione. «Odla 2» completa la coppia con un rovescio più netto. Il pianoforte spezza la frase e la ricuce, il trombone penetra le cuciture, mentre il tenore sostiene con lunghe arcate. «Stilla» chiude e raccoglie, diventando goccia e sintesi. Il peso è minimo e la precisione risulta assoluta. Il pianoforte porta una luce serale, il trombone contorna il margine, mentre il sax sceglie una voce equilibrata di pari intensità. L’armonia si allinea e l’eco di tutte le tappe respira nel finale senza proclamarsi, lasciando aperto lo spazio ad un rinnovato ascolto. Il trio non cerca surrogati per colmare assenze percussive, ma preferisce un equilibrio mobile e una prassi che valorizzi il dettaglio. Ne scaturisce un ambiente in cui l’improvvisazione respira con la prudenza del musicista colto e con l’inventività del jazzista esperto: non una fusione didascalica, ma una convivenza organica tra logiche diverse, orchestrata con un approccio temperato.

Claudio Fasoli

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