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Con il suo sguardo moderato nello specchietto retrovisore della storia e quanto mai proiettato verso la contemporaneità, «My Dream» non raffigura solo l’anello di una filiera discografica, ma un invito ad osservare il mondo del jazz attraverso una lente d’ingrandimento puntata sull’innovazione.

// di Francesco Cataldo Verrina //

Nella seconda metà degli anni ’80, il jazz europeo smise di cercare legittimazione cominciando a depositare una propria grammatica, non più riflesso del modello afroamericano, ma un laboratorio autonomo, votato a legare scrittura ed improvvisazione, pensiero critico e tensione sonora. In Germania, Alexander von Schlippenbach e la Globe Unity Orchestra rilanciarono l’idea di collettivo come forma aperta, mentre in Francia l’IRCAM decretò un crocevia tra jazz e musica contemporanea, luogo dove la ricerca timbrica si traduceva in metodo. A Londra, Courtney Pine e Andy Sheppard imposero un jazz urbano, meticcio e contaminato da dub e spoken word, mentre Django Bates costruì strutture ironiche e complesse, dove il jazz si fletteva espandendosi. In Scandinavia, Jan Garbarek definì un suono rarefatto, quasi liturgico, che l’ECM trasformò in un ambient ipotensivo ed anti-boppistico, dove il vuoto, l’attesa dilatata e l’estetica sonoro divenivano parte sostanziale della scrittura.

In Italia, la scena spalancava il sipario alla tensione, agendo tra radicamento ed apertura: Paolo Fresu plasmò un lirismo rigoroso, Enrico Rava rilanciò l’improvvisazione come gesto narrativo; Furio Di Castri costruì architetture ritmiche che respirano con la forma, mentre Tiziana Ghiglioni promulgò una vocalità avulsa dal banale ornamento. I festival, Umbria Jazz in primis, non erano più vetrine ma luoghi di pensiero e di dinamiche evolutive. Il jazz italiano iniziò a dialogare con la discografia contemporanea, il teatro musicale di Gaslini, la canzone d’autore di Area e Fossati e con la world music del Trio di Salis, mentre ogni incontro costituiva un rilancio e non una fusione. Dal canto suo, Claudio Fasoli si riconfermò come pensatore del suono, vigilante della forma e sedimentatore di una grammatica europea che non si piegava né si compiaceva. Le connessioni si moltiplicarono: il minimalismo di Reich e Riley apportava strutture iterative che molti ensemble assimilarono e rilavorarono; la musica elettronica apriva a nuove fisionomie acustiche, mentre i sintetizzatori diventarono progressivamente strumenti di scrittura; la musica etnica non era più colore ma narrazione diasporica, soprattutto in Francia e Regno Unito. Il jazz europeo si annodò alla letteratura, alla filosofia ed al pensiero critico, oltrepassando la barriera del suono. In quegli anni, il sassofonista veneziano intensificò le collaborazioni internazionali, suonando con J.F. Jenny-Clark, Daniel Humair, Kenny Wheeler, Mick Goodrick ed altri protagonisti dell’universo jazzistico continentale. Al contempo, Fasoli si mostrò attivo anche come performer in festival e rassegne, contribuendo alla definizione di un jazz italiano rigoroso e non derivativo, cominciando a scrivere articoli e recensioni per varie riviste musicali ed avviando una riflessione teorica sul jazz quale espressione intellettuale e non solo attività ludica ed intrattenitiva.

In un’epoca, dunque, in cui il jazz continuava ad evolversi, siamo nel 1987, il Claudio Fasoli Quintet, in una delle tante varianti storiche emergeva come una delle formazioni più interessanti dell’ultimo trentennio. Con «For Once», edito dalla Splasc(h) Records, il quintetto non solo rispetta la tradizione jazzistica, ma la rivede aggiungendo inedite combinazioni armoniche ai lemmi di un idioma perennemente in divenire, di cui il sassofonista veneziano si è sempre fatto latore nell’arco di una lunga carriera, mai banale, seduta sugli allori o beneficiaria di una zona comfort che altri avrebbero accettato come un dono del destino. Claudio Fasoli, in virtù di un’inquietudine creativa mai paga, e forse mai del tutto risolta: prerogativa ad appannaggio esclusivo degli artisti veri, i quali non cercano soluzioni di comodo, sui cui vivere di rendita, ma uno spazio critico e dialettico nel quale agire e misurasi con lo zeitgeist e con un sintassi modulare, come quella jazzistica, in costante mutamento. Registrato in un periodo d’intensa e feconda germinazione compositiva, «For Once» sancisce l’ennesimo concept che riflette l’abilità atorale e l’eclettismo divergente di Claudio Fasoli. L’album fu accolto con entusiasmo dalla critica, che ne lodò ancora la sorgiva attitudine a fondere melodie evocative con improvvisazioni audaci, scevre da ogni canonizzazione o metodo acquisito e standardizzato. L’album venne, inoltre, descritto similmente ad un’opera che indaga temi complessi e strutture armoniche, con un forte senso di narratività ed espressività personale, nonché come un’esperienza intensa e coinvolgente, capace di trasmettere emozioni profonde. Le recensioni giapponesi evidenziarono l’importanza del jazz europeo e delle sue influenze nel lavoro di Fasoli, sottolineando come «For Once» riuscisse a catturare l’essenza di diverse tradizioni musicali e differenti moduli espressivi. In un’intervista dell’epoca, il sassofonista condivise la propria visione musicale: «Il jazz è un linguaggio in continua evoluzione. Con «For Once», volevamo esplorare non solo le nostre radici, ma anche le possibilità future. Ogni brano rappresenta il capitolo di una storia che raccontiamo insieme.» Fasoli parlo anche parlato dell’importanza della collaborazione e della circolarità relazionale all’interno del quintetto: «Ogni musicista porta la propria voce, e questo arricchisce il nostro suono. L’improvvisazione risulta fondamentale, ed è ciò che rende il jazz vivo e vibrante».

L’album, basato su sette componimenti originali, a firma Fasoli, attesta, sin dalle prime battute, un’abissale conoscenza idiomatica ed un inappagabile senso di ricerca. La struttura dell’impianto motivico risulta caratterizzata da una solida base armonica, con melodie complesse ed arrangiamenti diversificati. L’uso sapiente degli spazi e dei silenzi contribuisce a generare un clima di tensione e rilascio, di spinta e di abbandono, sulla scorta di una regola d’ingaggio protesa verso inedite soluzioni ed asimmetrie costruttive. Il line-up composto da Claudio Fasoli sax soprano e tenore, da Hilaria Kramer tromba e flicorno, Marco Viaggi e Piero Leveratto basso e Gianni Cazzola batteria, garantì una performance di altissimo profilo, forte di un sinestetico l’interplay tra i sodali – a tutt’oggi attualissimo – e di un’intesa di gruppo portatrice di un impromptu fluido e sacmbi imperniati su formule idiomatiche non convenzionali, almeno in quel periodo storico. L’opener, «My Dream», imposta un tono contemplativo e lirico. La melodia viene esposta con la consueta eleganza da Claudio Fasoli, dipanandosi su armonie raffinate che richiamano la tradizione del jazz moderno, del cool e del lirismo alla Wayne Shorter. L’interplay tra i membri del quintetto risulta misurato, generando un habitat sognante ed introspettivo, ideale per introdurre l’ascoltatore agli essunti dell’album. «Flight» suggerisce un senso di escavazione e di movimento progressivo, ammantato ad un senso di attesa. La sua durata è propedeutica ad uno spazio considerevole per lo sviluppo tematico e improvvisativo. Armonicamente, perlustra sezioni accordali più complesse e strutture modali, permettendo agli improvvisatori di spaziare liberamente, evocando la fluidità del post-bop, dove la tecnica, sia pur minimalista, e l’inventiva melodica risultano centrali. Con quasi dieci minuti, «Difference Of Emphasis» è l’episodio più esteso e concettualmente denso dell’album, incentrato sullo scandaglio di sfumature, frizioni e prospettive divergenti fatte di sezioni contrastanti, spostamenti di diversa intensità, un’architettura compositiva più articolata, nonché un’evoluzione dell’ortografia verso moduli meno prevedibili, attingendo a taluni parametri del jazz europeo contemporaneo, teso alla complessità strutturale e alla ricerca timbrica.

La brevità di «Self-Portrait» in apertura della B-side, attesta il passaggio più conciso dell’album, facendo di esso una miniatura musicale o una sorta di interludio. La natura espressiva risulta più intima e personale, concentrandosi sull’essenza melodica come un momento di emersione e mettendo in luce l’abilità del quintetto nell’esprimere concetti profondi in spazi ristretti, dono tipico di quei jazzisti che sanno condensare emozione e tecnica. «Wiechmann» possiede un carattere distintivo ed ispirato, segnato da una perlustrazione approfondita strettamente legata alla tradizione jazzistica shorteriana, nonché da un approccio compositivo segnato da un’enfasi su sonorità quasi spirituali e metafisiche. La title-track, «For Once», conferma e consolida l’identità sonora dell’album. Formalmente evolutiva, profila un’assertività maggiore ed una metodologia improvvisativa più audace, di certo un modo per allargare il cerchio tematico. «Questions» conclude l’album con un’apertura meditativa, quasi con una suspance cinematografica che presto si dissolve in uno storytelling più esteso, il quale innesca, però, un senso di incertezza, dubbi ed interrogativi esistenziali. La durata considerevole diventa un open space per l’attività dialogica dei sodali, intensa e mirata ad una conclusione aperta, attraverso elementi di impromptu più liberi e strutture che riflettono la ricerca di risposte. Vengono così evocati temi profondi ed universali che esortano il fruitore a riflettere, come quasi tutte le composizioni di Fasoli che oltrepassano sempre il classico e rassicurante effetto audiotattile del jazz, consegnandolo, per contro, al dominio del pensiero. Con il suo sguardo moderato nello specchietto retrovisore della storia e quanto mai proiettato verso la contemporaneità, «My Dream» non raffigura solo l’anello di una filiera discografica, ma un invito ad osservare il mondo del jazz attraverso una lente d’ingrandimento puntata sull’innovazione. In un’epoca, come quell’attuale, in cui la musica risulta più accessibile che mai, oggi come allora, a distanza di trentotto anni, il quintetto ci ricorda quanto il jazz sia un scandaglio in profondità ed un carotaggio interiore distante dalla funzione epidermica, volatile e parcellizzata della musica odierna, fatta di strategie di marketing compulsive, deperibili e volatili.

Claudio Fasoli Quintet, 1987

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