Un viaggio nell’universo musicale di Marco Evangelista. Il suono abitato e il respiro del flicorno

Marco Evangelista
Evangelista, con una modalità d’impiego sapiente, disegna ambienti, scolpendo pause e facendo affiorare pensieri. Ogni episodio discografico diviene un luogo ed una postura, svelando una musica che si abita, oltre che ascoltarsi.
// di Francesco Cataldo Verrina //
Marco Evangelista, classe 1984, napoletano di nascita e umbro di adozione, si caratterizza come un musicista di ottima levatura, abile nel coniugare rigore formativo e sensibilità interpretativa. L’iniziazione al linguaggio sonoro si compie tra le mura domestiche, ove il pianoforte diviene, sin dall’età di sei anni, strumento di esplorazione e disciplina. Intorno ai dieci anni, l’ascolto di una registrazione dell’orchestra di Duke Ellington innesca una vocazione che s’indirizza verso la tromba, successivamente sublimata nel flicorno, eletto quale voce esclusiva per le sue esecuzioni più recenti.
La traiettoria formativa si delinea con intensità: nel 1999 partecipa alle clinics Berklee At Umbria Jazz, esperienza che rinnova nel 2001, ricevendo il riconoscimento di Miglior talento dell’edizione. In quegli anni s’affianca alla Terni Jazz Orchestra diretta da Marco Omicini, con cui collabora sino al 2004. Parallelamente, approfondisce la composizione presso il Conservatorio Morlacchi di Perugia, dove nel 2015 discute una tesi di secondo livello imperniata su una propria opera di ricerca intitolata «Tavola dei suoni espansi», disponibile dal 2019 anche in versione inglese. L’attività di Evangelista non si limita all’ambito esecutivo. Egli si dedica con costanza alla produzione e all’arrangiamento, realizzando circa ottanta progetti tra Italia, Etiopia e Stati Uniti. Nel 2020 pubblica «Musical Heritage», primo album a proprio nome, in cui si fondono standard, cover e composizioni originali, animate da sonorità elettroniche e suggestioni reggae, soul e jazz. Due anni dopo, nel Mellotone Studio da lui inaugurato a Perugia, prende forma «A Place To Be», secondo episodio discografico, in cui il ritorno all’acustico si accompagna ad una partitura più intimista e riflessiva. Il terzo lavoro, «Time For Ballads», registrato in un solo giorno secondo la prassi jazzistica più autentica, sancisce una tappa di rinascita dopo quindici anni di distanza dagli strumenti a fiato. Il flicorno, con la sua aura fonica vellutata, diviene il medium ideale per un lirismo pacato, sostenuto da arrangiamenti protesi verso la rarefazione e la delicatezza. Le voci di Barbara Baldaccini e Mike Warren, ospitate in due tracce, amplificano la dimensione evocativa del progetto. Attualmente Evangelista alterna l’attività concertistica alla didattica ed alla produzione, mantenendo viva una ricerca che non si esaurisce nel gesto performativo, bensì si rinnova nel pensiero musicale e nella cura del dettaglio timbrico. La sua figura si dispone nel panorama contemporaneo come esempio di musicista consapevole, in grado di far dialogare tradizione e sperimentazione con eleganza e profondità di visione.
Nel paesaggio sonoro afro-americano e statunitense del secondo Novecento, il flicorno ha trovato interpreti capaci di modellarne la voce con raffinatezza e profondità espressiva, delineando traiettorie che possono offrire un fertile confronto con la ricerca di Marco Evangelista. Tra i personaggi più emblematici, Art Farmer si distingue per aver elevato il flicorno a strumento solista, conferendogli una fisionomia lirica e vellutata, lontana dalle asperità della tromba. La sua pagina musicale si connota per un fraseggio morbido, una cantabilità che non indulge mai nel sentimentalismo, ha si afferma con misura e consapevolezza. Evangelista ne raccoglie l’eredità non in senso imitativo, ma nel gesto di un’elaborazione che privilegia la nuance, la velatura acustica e la sospensione armonica. Clark Terry, pur noto soprattutto come trombettista, ha impiegato il flicorno con una leggerezza ritmica e un’ironia timbrica che ne amplificano la versatilità. La sua impronta linguistica, fondata su un fraseggio swingante e su un uso giocoso delle articolazioni, si discosta dalla postura più meditativa di Evangelista, ma suggerisce un contrappunto utile per comprendere le potenzialità espressive dello strumento. Più recente, il lavoro di Tom Harrell si rivela affine per la cura del dettaglio armonico e per una tecnica esecutiva che si estrinseca secondo logiche interne, mai esibite. Harrell impiega il flicorno come estensione poetica del pensiero musicale, con una sensibilità che trova eco nella ricerca di Evangelista, soprattutto nei brani in cui la forma si dissolve in una tessitura rarefatta, sostenuta da progressioni oblique e da una geometria timbrica mai prevedibile. Nel contesto afro-americano, anche Wallace Roney ha occasionalmente impiegato il flicorno, pur mantenendo una passione per la tromba. La sua pagina sonora, intrisa di spiritualità e tensione modale, dispensa spunti di confronto laddove Evangelista perlustra la verticalità armonica e la vaporizzazione ritmica, pur evitando le impennate drammatiche che caratterizzano Roney. Infine, il lavoro di Eddie Henderson, soprattutto nei progetti legati alla Mwandishi Band di Herbie Hancock, rivela un uso del flicorno come strumento di fusione timbrica, integrato in un ambiente sonoro elettrico e stratificato. Evangelista, pur operando in un habitat più acustico e intimista, condivide con Henderson la volontà di far dialogare il colore sonoro con la struttura formale, evitando ogni rigidità. Questi numi tutelari, ciascuno con una propria impronta, offrono coordinate interpretative che non si sovrappongono, bensì si rifrangono nella ricerca di Evangelista, il quale non si rifà ad un modello, ma ne fa affiorare le risonanze, componendo un profilo acustico che, pur guardando nello specchietto retrovisore della storia, punta verso ad una ortografia sonora personale e meditativa.

Marco Evangelista si colloca in una linea interpretativa che, pur evitando ogni adesione mimetica, dialoga con le posture espressive di Chet Baker, Roy Hargrove e Tony Fruscella, ciascuno portatore di una visione timbrica e armonica distinta, ma convergente in alcuni tratti con la sua ricerca. La relazione con Chet Baker si scompone in modo obliquo. Evangelista non ne riprende il languore ostentato né la teatralità del fraseggio, bensì ne distilla l’attitudine a costruire una filo tematico che si srotola naturalmente senza forzature. Il flicorno, strumento prediletto da Evangelista, rimanda alla sonorità più vellutata del Baker europeo, quella che emerge nei lavori con Paul Bley o nei dischi per la ENJA, ove la fragilità dell’imboccatura si trasforma in cifra poetica. Tuttavia, Evangelista evita la deriva manierista e la ripetizione degli standard, prediligendo una tensione compositiva ed interpretativa che si rinnova nell’estetica e nella scelta armonica. Con Roy Hargrove il confronto si sposta su un piano più ritmico e strutturale. Hargrove, interprete brillante del post-bop, ha saputo crogiolare tradizione e modernità, integrando nella sua sintassi musicale elementi soul, funk e hip-hop. Evangelista, pur distante da quella vivacità urbana, condivide la volontà nell’interfacciare galassie sonore distanti, come dimostrano le contaminazioni reggae e soul nel suo primo album. Tuttavia, mentre Hargrove è attratto dall’energia e dalla brillantezza, Evangelista si orienta verso una rarefazione espressiva, una geometria timbrica più meditativa. Tony Fruscella rappresenta forse il riferimento più sottile e coerente. La sua tromba, sospesa tra bebop e cool, si distingue per un’insinuante delicatezza. Fruscella suonava Bach ad orecchio e bebop di notte, incarnando una continuità di sensibilità tra mondi apparentemente distanti. Evangelista, come Fruscella, protende verso la linearità melodica, la filigrana armonica e la dilatazione timbrica. Entrambi costruiscono una narrazione musicale interessata all’introspezione. L’affinità risiede nella capacità di traslare la tecnica in racconto, il suono in atto poetico. Evangelista non si rifà a nessuno di questi modelli in modo diretto, ma ne fa affiorare le risonanze. La sua musica si sviluppa nel riflesso di questi precursori, componendo un profilo acustico che si ciba di ricordi, ma si dirige subito verso una sintassi personale, in grado di far emergere una fisionomia sonora che non replica, bensì rielabora.
Nel panorama europeo, la voce di Marco Evangelista si attesta in una posizione singolare, non assimilabile né ai modelli storici né alle tendenze più recenti, ma versata nel dialogare con entrambi mediante una sintassi che mira alla riflessione timbrica ed alla coerenza formale. Il confronto con i flicornisti e trombettisti europei, tanto del passato quanto contemporanei, fa emergere affinità sottili e divergenze strutturali che meritano una lettura approfondita. Nel Novecento storico, Dusko Goykovich si pone quale un riferimento imprescindibile per la versatilità nel fondere la tradizione afro-americana con una sensibilità mitteleuropea. Il suo flicorno, caldo e avvolgente, si sposta entro strutture armoniche che optano per la cantabilità ed il colore. Evangelista ne condivide la predilezione per la linea melodica, ma ne diverge nella scelta di una metodologia più intimista, meno incline alla brillantezza e più orientata verso una rarefazione espressiva. Kenny Wheeler, pur britannico di adozione canadese, offre un altro punto di contatto. La sua pagina musicale, stratificata e obliqua, si dipana secondo logiche interne che sfuggono alla linearità. Evangelista ne raccoglie l’eredità nell’implementazione di ambienti sonori non risolutivi, dove il flicorno diviene veicolo di una tensione armonica sottile, mai esibita. Tuttavia, mentre Wheeler tende a dissolvere la l’involucro in una tessitura quasi cameristica, Evangelista mantiene un ordine relazionale più definito ed una geometria timbrica che non si frantuma. Nel contesto francese, Erik Truffaz ha impiegato il flicorno in chiave elettronica, integrandolo con ambienti digitali e ritmi urbani. Evangelista, pur avendo esplorato sonorità analoghe nel suo primo album, si distanzia da quella pulsazione metropolitana, preferendo un modus agendi che si dirama nel silenzio, nella pausa e nella sospensione. La sua ricerca timbrica s’indirizza verso una velatura acustica che rifugge l’effetto, a tutto vantaggio della sfumatura. Più vicino alla tradizione classica, Sergei Nakariakov ha elevato il flicorno a strumento solista in ambito concertistico, trascrivendo opere di Haydn e altri autori per valorizzarne la cantabilità. Evangelista, pur condividendo la cura del dettaglio acustico, agisce in una direzione opposta: non cerca la virtuosità né la trascrizione, ma la composizione originale e la forma che nasce da una necessità interiore, non da un adattamento.Tra i contemporanei italiani, Paolo Fresu rappresenta una figura di riferimento per l’uso poetico del flicorno. Tuttavia, Evangelista ne diverge nella postura espressiva, tanto che dove Fresu indulge nella sospensione lirica, Evangelista preferisce una partitura più asciutta, più rigorosa e meno incline alla metafora.
Evangelista, collocandosi in una posizione di ascolto critico rispetto alla tradizione europea, ne raccoglie le risonanze, ne distilla le affinità, relegando le formule. Il sua regola d’ingaggio, sagomandosi secondo un ordine interno che privilegia l’indagine, la misura e la consapevolezza timbrica, diviene pienamente adattabile. In tal senso, la sua fase costruens si distingue per una sobrietà che non rinuncia alla profondità, ma la tratteggia con garbo e con eleganza e rigore. Rispetto a Franco Piana, pur condividendo il flicorno come veicolo espressivo d’elezione, ne organizza l’impiego su presupposti divergenti, che attendono a visioni musicali distinte ed attitudini compositive non combaciabili. Franco Piana, figlio d’arte e sostenitore di una scrittura che si solidifica in ambiti orchestrali e cameristici, impiega il flicorno come voce narrante, capace di fondersi con gli archi, i fiati e le strutture armoniche più ampie. Nei suoi lavori, come in «Think Of You» o «Speedy», il flicorno assume una funzione quasi cinematografica, in cui disegnando panorami, suggerendo atmosfere, l’ottone si amalgama con il contesto sonoro in un’aura sospesa e fiabesca. Il fraseggio di Piana si distingue per limpidezza e per una cantabilità che non si presta alle asperità. Evangelista, al contrario, appare foriero di un modulo che si evolve per sottrazione e per rarefazione, in cui il flicorno parla con il silenzio, con la pausa e con la rarefazione. La musica tende all’introspezione, mentre la sua voce non si amalgama, ma si dimena, componendo un profilo acustico alimentato dalla memoria e proteso verso una sintassi personale e riflessiva.
Il rapporto di Marco Evangelista con l’elettronica si configura come un momento di indagine e di perlustrazione transitoria, mai totalizzante e mai risolta in una cifra stilistica dominante. L’elettronica, per lui, non rappresenta un territorio da colonizzare, bensì uno spazio da interrogare, da attraversare con cautela, da impiegare come estensione timbrica e non come sostituzione del gesto acustico. Nel primo album, «Musical Heritage», l’impiego di sonorità elettroniche si manifesta in forma di ambienti sonori, di texture digitali che non sovrastano, ma accompagnano. Le suggestioni reggae e soul s’innestano su una base jazzistica che conserva l’ordine interno della forma, mentre l’elettronica interviene come velatura, come sfondo, come dispositivo di amplificazione emotiva. Non si tratta di una fusione, bensì di una coabitazione, dove il flicorno mantiene l’aura fonica, la fisionomia espressiva, mentre l’elettronica ne espande il campo percettivo. Evangelista non si affida mai alla pulsazione sintetica come motore ritmico, né alla manipolazione digitale come strumento compositivo. Piuttosto, impiega l’elettronica quale spazio di riverbero e come ambiente sonoro che accoglie la voce acustica senza deformarla. In questo senso, la sua postura si distingue da quella di Erik Truffaz o Nils Petter Molvær, che integrano l’elettronica in modo più strutturale. Evangelista preferisce una presenza discreta, una traccia e un’ombra. Nel secondo progetto, «A Place to Be», l’elettronica si ritrae, lasciando spazio a una scrittura più intimista, più raccolta, ove il flicorno torna protagonista in un ambiente acustico che privilegia la trasparenza e la misura. La scelta non rappresenta una rinuncia, bensì una ridefinizione: l’elettronica non viene esclusa, ma ripensata, collocata in una posizione marginale, utile solo laddove il colore sonoro lo richieda. In definitiva, Evangelista non si lascia sedurre dalla tecnologia, né la respinge. La interroga, la impiega, la modula. Il suo rapporto con l’elettronica si afferma come un dialogo intermittente, mai risolto e sempre aperto.
Evangelista, con una modalità d’impiego sapiente, disegna ambienti, scolpendo pause e facendo affiorare pensieri. Ogni episodio discografico diviene un luogo ed una postura, svelando una musica che si abita, oltre che ascoltarsi. Marco Evangelista, trattando il piano armonico con una sensibilità che rifugge ogni rigidità funzionale, predilige un’intelaiatura accordale che si estrinseca secondo logiche interne, mai esibite e quanto meno scolastiche. La scrittura, modellando progressioni che si espandono per accatastamento, per slittamento e per dissolvenza, si sottrae alla successione canonica dei gradi tonali. L’accordo, nella sua visione, non segna un punto di arrivo né una funzione da risolvere, rivelandosi piuttosto come un campo di risonanza ed una trama espressiva che sostiene la linea melodica senza vincolarla. Optando per strutture che si aprono su intervalli obliqui e su quinte vuote, Evangelista solca un terreno armonico di rara intensità. Il flicornista ha così tracciato, sulla scorta di tre episodi discografici, un percorso che non si risolve in una progressione cronologica, ma si annuncia come una trilogia di ambienti sonori, ciascuno con una propria fisionomia timbrica, una logica armonica ed una rete di suggestioni extramusicali, dove ogni disco non si limita a esibire una scrittura, ma rimanda ad un mondo e ad un pensiero. «Musical Heritage» si sostanzia come primo gesto pubblico, un’escavazione emozionale che si staglia tra standard, cover e composizioni originali, sostenute da una tessitura elettronica che non invade, ma accompagna. Il flicorno, in tale contesto, si attesta come voce riflessiva, votata al dialogo dialoo con ambienti soul e reggae senza perdere la propria aura fonica. La relazione con i musicisti si organizza in forma di collettivo, dove ogni strumento individua una specifica disposizione. Le suggestioni letterarie affiorano nella scelta dei titoli e nelle atmosfere, nelle quali s’avverte una risonanza con la narrativa afroamericana, con le geometrie urbane di James Baldwin e con le dissolvenze poetiche di Langston Hughes. L’elettronica, impiegata con misura, rimanda a certe tavole di Moebius, dove il paesaggio si dilata senza confini ed il suono diviene spazio immaginativo. «A Place To Be», segnando un ritorno all’acustico, formula una scrittura che si ritrae, si raccoglie e si modella secondo una ratio di sottrazione. Il flicorno, assumendo una funzione quasi diaristica, suggerisce che ogni nota sia scelta e qualunque pausa meditata. La relazione con i musicisti, divenuta più intima e cameristica, trasforma il dialogo in una condivisione di silenzi, tessendo un’atmosfera di rara intensità. Le suggestioni filosofiche, affiorando nella struttura, palesano un disco che procede come un pensiero che s’interroga, che non cerca risposte, ma aspira a chiarimenti. Si avverte l’eco di Lévinas, nella centralità dell’altro, e di Merleau-Ponty, nella corporeità del suono, componendo un’esperienza sensoriale completa. Le immagini che affiorano, rimandando ad Hopper, non sottolineano la solitudine, bensì la sospensione, evocando una luce che ne smaschera l’essenza. «Time For Ballads», incarnando una rinascita, segna il ritorno agli strumenti a fiato dopo quindici anni di silenzio. Registrato in un solo giorno, il concept si afferma secondo la prassi jazzistica più autentica, reimmaginando la sintassi con una sobrietà che esclude ogni retorica. Il flicorno, assumendo il ruolo di voce meditativa, si erge su arrangiamenti propedeutici alla rarefazione e alla delicatezza. Le relazioni con i musicisti, distribuendosi come un cerchio, superano ogni gerarchia, in cui le voci di Barbara Baldaccini e Mike Warren, amplificando la dimensione evocativa, non sovrastano mai. Le suggestioni fumettistiche, che emergono nella costruzione delle atmosfere, tradiscono una prossimità con le tavole di Lorenzo Mattotti, dove il colore, lungi dal descrivere, suggerisce, mentre il tratto, anziché delimitare, vibra. Sul piano filosofico, il costrutto si muove nel riflesso di Simone Weil, indagando la tensione tra necessità e grazia, tra forma ed abbandono, tessendo un dialogo tra suono e pensiero.
