Franco Piana: regista armonico e tessitore di forme

Franco Piana
Franco Piana non si limita ad interpretare o a dirigere: egli plasma, modella, compone nel solco di una scuola di pensiero che non si esaurisce nella ripetizione, bensì si rinnova nel gesto creativo. La sua scrittura, sempre consapevole e tecnicamente raffinata, si distingue per una trama espressiva che sa connettere la geometria armonica con la velatura acustica, delineando un profilo che rimanda alla figura del regista armonico, capace di far dialogare le voci strumentali in un ordine interno coerente e immaginativo.
// di Francesco Cataldo Verrina //
Franco Piana, nato a Refrancore nel 1957, incarna l’essenza di uno dei jazzisti più eloquenti del panorama italiano, non soltanto per la sua padronanza strumentale, bensì per l’attitudine a generare impianti compositivi di rara finezza e per una sorgiva vocazione alla scrittura orchestrale. La formazione, avviata in seno al contesto familiare già permeato di prassi musicale, si sviluppa precocemente sotto l’egida del padre Dino, arricchendosi grazie all’incontro con Giancarlo Gazzani e Giorgio Gaslini, da cui assorbe una visione strutturale del jazz, fondata su rigore esecutivo e sull’apertura interdisciplinare.
La militanza nel Sestetto Piana-Valdambrini, a partire dal 1978, segna una fase di intensa attività concertistica, in cui la sua tromba si fa veicolo di un linguaggio che coniuga tradizione ed invenzione, partecipando a manifestazioni di rilievo internazionale e contribuendo alla definizione di un’identità sonora collettiva. L’attività compositiva di Franco si dirama in una pluralità di ambiti: dalla scrittura per Big Band alla realizzazione di colonne sonore, fra cui quella per il film di Lucio Fulci «Door To Silence». La fondazione della «Dino-Franco Piana Jazz Orchestra» e successivamente del Brass Ensemble testimonia una vocazione alla costruzione modulare e alla direzione di grandi formazioni, in cui l’equilibrio tra partitura ed improvvisazione viene costantemente rinegoziato. Nel fluire della sua carriera, Franco ha saputo tessere relazioni artistiche con interpreti di assoluto rilievo – da Enrico Pieranunzi a Fabrizio Bosso, da Roberto Gatto a Paolo Fresu – partecipando a progetti che coniugano ricerca acustica ed escavazione espressiva, come in «Seven» premiato quale miglior disco dell’anno. L’attività didattica, svolta in diverse istituzioni ed tramite seminari dedicati alla storia delle Big Band, sancisce una vocazione pedagogica fondata su una robusta formazione e su una prospettiva critica del repertorio orchestrale.
Il sodalizio artistico tra Franco Piana e Stefania Tallini si dibatte secondo una ratio di interscambio paritetico, in cui la dimensione duale non si limita ad una semplice giustapposizione timbrica, bensì si attesta come un file-sharing propedeutico all’indagine espressiva. L’album «E se domani» rappresenta il punto di massima sintesi di questa intesa, dove il flicorno ed il pianoforte interagiscono sulla scorta di un equilibrio instabile ma fertile, versato nell’imbastire una tessitura sonora priva di gerarchie, in cui le funzioni tematiche e quelle improvvisative si sovrappongono e si amalgamano. La Tallini, pianista di raffinata sensibilità e di solida formazione compositiva, modella un impianto accordale che non si limita a sostenere, bensì interagisce con l’ottone di Piana, il quale, da parte sua, plasma il colore fonico del flicorno con una varietà di accenti che spaziano dal lirismo più vaporoso alla percussività più audace. In taluni episodi, la voce stessa diventa strumento, con incursioni vocali che ampliano la gamma espressiva ed introducono una dimensione performativa inattesa. La loro collaborazione si sorregge su una complicità che travalica il mero interplay, trattandosi di una vera e propria coabitazione musicale, in cui ogni scelta si rispecchia nell’altro, generando un ambiente acustico ricco di sfumature, velature e risonanze interiori. L’assenza di una sezione ritmica tradizionale consente una dilatazione degli spazi, in cui i ruoli si ridefiniscono costantemente, secondo la regola della reciprocità e dell’ascolto intensivo. In questo quadro, il rapporto tra i due musicisti si estrinseca non tanto nella complementarità, quanto nella capacità di distillare un ordine interno condiviso, dove la ricerca dell’essenzialità diventa principio germinativo. La Tallini, con il suo pianismo immaginifico e ricettivo, e Piana, con la sua fisionomia sonora sempre mutevole, delineano un tracciato che si nutre di spontaneità, ma che mette in luce una filigrana sottocutanea di estrema coerenza e raffinatezza estetica. Un incontro che non si limita a sommare due personalità, bensì le fa dialogare in un unico impeto creativo.
La semantica sonora di Franco Piana si sviluppa nel mirroring di una tradizione afro-americana che egli non replica pedissequamente, bensì rielabora con consapevolezza critica e sensibilità strutturale. Le sue frequentazioni artistiche con figure come Chet Baker, Bob Brookmeyer, Mel Lewis e Bob Mintzer non si limitano ad episodi performativi, ma evidenziano un’effettiva assimilazione di moduli idiomatici e di prassi orchestrali maturate nel secondo Novecento statunitense. Il suo rapporto con la scuola afro-americana si dirama secondo una logica di rispetto e di rielaborazione. La lezione di Duke Ellington, ad esempio, non si traduce in citazione, bensì in una concezione dell’orchestra come organismo plastico, capace di generare ambienti sonori mutevoli e di far dialogare le individualità strumentali in un ordine interno coerente. La scrittura, pur non rinunciando alla verticalità armonica, si distingue per una tessitura contrappuntistica che rimanda alla tradizione europea, ma che s’incanala nel continuum della libertà improvvisativa statunitense. Rispetto ai maestri del dopoguerra, Piana si attesta in un punto di equilibrio. Ad esempio, non aderisce al free jazz radicale, bensì ne assorbe la tensione formale e la spinta espressiva, integrandole in strutture tematiche più definite. La sua affinità con Gil Evans, ad esempio, si estrinseca nella cura dell’aura fonica e nell’attitudine nel plasmare la fisionomia del suono attraverso elaborazioni orchestrali e velature policromatiche, mentre la sua distanza da modelli come Ornette Coleman o Cecil Taylor si coglie nella predilezione per un impasto compositivo più variegato e meno destrutturato. In seno alla tradizione californiana, ereditata anche per via familiare, si riconosce una propensione alla chiarezza espositiva e alla cantabilità della linea tematica, che individua nel flicorno un alleato fedele per delineare profili acustici morbidi e interiormente articolati. Tuttavia, Piana non si limita a convocare al proscenio le ambientazioni «semifredde» della West Coast, piuttosto la sua partitura si ciba di intersezioni ritmiche e di geometrie armoniche che rimandano tanto alla scuola di Thad Jones quanto alla lezione orchestrale di Quincy Jones, pur mantenendo una propria autonomia stilistica. A conti fatti, Franco Piana non si caratterizza come epigono, bensì come interprete autonomo ed eloquente di una tradizione che egli rilegge con sguardo europeo, facendo leva su una formazione solida e su una visione compositiva che coniuga rigore e immaginazione.
Nel fluire di una genealogia trombettistica che attraversa il secondo Novecento e si estende sino alle soglie del contemporaneo, i nomi di Tom Harrell, Roy Hargrove, Chet Baker, Tony Fruscella, Art Farmer e Lee Morgan delineano un tracciato stilistico variegato, in cui si alternano posture liriche, frizioni ritmiche, geometrie armoniche e sensazioni aurali divergenti. Franco Piana, pur collocandosi in un contesto geografico e culturale differente, partecipa a questo discorso con una voce che rielabora, riflette e modella. La cantabilità rarefatta di Chet Baker e la fragilità espressiva di Tony Fruscella trovano in Piana un interlocutore sensibile, capace di far risuonare il flicorno in una ambientazione quasi vocale, dove la linea melodica si distende con naturalezza e la velatura acustica si fa veicolo di interiorità. Tuttavia, a differenza di Baker, la cui poetica si nutre di una malinconia sospesa, Piana ammannisce il discorso con una consapevolezza strutturale più marcata, frutto di una formazione compositiva solida e di una prassi orchestrale maturata nel tempo. La geometria timbrica di Art Farmer, nutrita da un senso di misura e da una disposizione spaziale delle note che rasenta l’ascetismo, trova in Piana un’affinità profonda. Infatti, entrambi prediligono la curvilinearità del suono, la fluidità delle sfumature, la predisposizione a costruire ambienti sonori coerenti e multistrato. Tuttavia, mentre Farmer agisce in un contesto post-bop americano, Piana impianta quella lezione in un humus europeo, dove la scrittura si fa più modulata e la direzione orchestrale assume un ruolo centrale. Tom Harrell, con la sua scrittura introspettiva e la versatilità nel fondere razionalità armonica e slancio poetico, rappresenta un riferimento implicito per Piana, soprattutto nella costruzione di impianti compositivi che non rinunciano alla complessità, ma la rendono accessibile attraverso una sintassi musicale fluida e sdrucciolevole. Roy Hargrove, invece, con la sua energia ritmica e l’apertura verso il neo-soul e l’hip-hop, si porta in una traiettoria più distante, benché la sua versatilità e l’attitudine a far dialogare mondi differenti possano essere lette come una coalescenza metodologica con l’approccio interdisciplinare di Piana. Lee Morgan, con la sua veemenza espressiva e la sua propensione al fraseggio incisivo, rappresenta un polo opposto rispetto alla poetica di Piana, il quale predilige la misura, la riflessione e la modularità. Tuttavia, anche in questa distanza si coglie una forma di compliance, poichè entrambi concepiscono la tromba non come semplice strumento solista, bensì come voce capace di delineare un’identità sonora, di articolare un pensiero musicale e di generare una racconto che assorbe stimoli ambientali. Franco Piana non si pone come epigono né come antagonista. Egli s’inserisce nel tessuto di questa tradizione, ne riconosce le matrici, ne rielabora le istanze, trasducendole in un linguaggio personale, variegato ed acusticamente eloquente, alla medesima stregua di artigiano della materia, un curatore timbrico, un regista armonico che, nel solco di queste voci, traccia una propria traiettoria.

Nel tessuto espressivo del jazz italiano, l’uso del flicorno da parte di Franco Piana, Paolo Fresu ed Enrico Rava si evidenzia secondo tre prospettive distinte, ciascuna radicata in una propsettiva poetica ed in una tecnica peculiare, ma accomunate da un acclarato desiderio di cantabilità e di una fisionomia acustica ben precisa. Franco Piana impiega il flicorno come veicolo di una scrittura orchestrale interiormente articolata, dove il colore sonoro si modella in funzione di una visione compositiva strutturata. La sua prassi non si limita all’esecuzione solistica, bensì si innesta in impianti formali complessi, in cui il flicorno assume il ruolo di voce narrante, capace di delineare profili acustici morbidi, stratificati, e di dialogare con l’intera tessitura orchestrale. La sua sonorità, mai esibita, si distingue per una velatura acustica che rimanda alla scuola ellingtoniana, ma filtrata attraverso una sensibilità europea, dove la misura e la riflessione prevalgono sull’urgenza espressiva. Paolo Fresu, al contrario, fa del flicorno uno strumento di immediata comunicazione emotiva. La sua predilezione per l’escavazione emozionale e la rotondità del suono si traduce in una poetica che coniuga lirismo mediterraneo ed apertura verso linguaggi eterogenei. Fresu alterna il flicorno alla tromba con naturalezza, ma è nel primo che trova la sua voce più intima, fatta di un suono caldo, suadente, capace di far emergere scenari molteplici e di fondersi con ambienti sonori che spaziano dal folk alla musica colta, dalla canzone d’autore al jazz modale. La sua prassi, pur nutrita da una solida formazione accademica, si distingue per una spontaneità che non rinuncia alla precisione, ma la trasfigura in gesto poetico. Enrico Rava impiega il flicorno come estensione della propria voce interiore, in una dimensione quasi pittorica, dove ogni nota si fa pennellata e qualsiasi fraseggio si trasforma in gesto. La sonorità, più rarefatta e sospesa rispetto a quella di Fresu, si nutre di silenzi, di attese e di spazi vuoti che diventano parte integrante del discorso musicale. Rava non cerca la perfezione acustica, bensì l’imperfezione eloquente, quella frattura che apre alla possibilità dell’imprevisto. Il flicorno, in tale contesto, diventa strumento di riflessione, quasi un atto politico In sintesi, se Piana si distingue per una visione verticale e variabile, Fresu per una cantabilità emotiva e meticcia, Rava per una poetica del vuoto e della sospensione, tutti e tre convergono nella scelta del flicorno come strumento atto a superare la retorica della tromba, al fini di accedere ad una dimensione più intima, più sfumata ed più umana. Un gesto condiviso, ma declinato secondo tre grammatiche differenti.
Nel panorama europeo contemporaneo, il flicorno affiora come uno strumento privilegiato per una pluralità di poetiche, spesso divergenti, talvolta convergenti, ma sempre indicative di una ricerca aurale ed estetica che supera la funzione solistica per accedere ad una dimensione più multitasking. Franco Piana, con la sua visione strutturale e la vocazione orchestrale, si posiziona in un ambito peculiare, che può trovare consonanze e dissonanze con alcune delle voci più significative del jazz continentale. Tra le figure che potrebbero condividere un terreno comune con Piana, si distingue il serbo Dusko Goykovich, la cui scrittura per big band e il suo uso del flicorno come strumento di cantabilità lirica e di profondità armonica rivelano una sensibilità affine. Entrambi concepiscono il flicorno come veicolo di una narrazione musicale che si nutre di misura, eleganza e consapevolezza formale, evitando l’esibizione virtuosistica in favore di una costruzione modulare. In una prospettiva più intimista, il francese Erik Truffaz si colloca in una traiettoria divergente: il suo impiego del flicorno s’impianta in habitat sonori contaminati da elettronica, minimalismo e suggestioni ambient, dove la struttura si dissolve in favore di una poetica del flusso. Truffaz predilige l’evocazione, la sospensione e la rarefazione, mentre Piana genera il discorso secondo una tipologia compositiva più definita, più ingegneristica. Tuttavia, entrambi condividono una propensione verso la cantabilità e una predilezione per la sfumatura acustica. Il norvegese Mathias Eick, con la sua scrittura che crogiola jazz nordico, musica da camera e ambientazioni cinematiche, rappresenta un altro polo di possibile confronto. Il suo flicorno si sposta agilmente in ambienti acustici dilatati, dove la melodia si fa paesaggio e l’impianto si dissolve in una sorta di impressionismo sonoro. Piana, pur non rinunciando alla suggestione, mantiene una coerenza formale più marcata, una direzione armonica più esplicita ed una tensione produttiva che lo distingue. Sul versante italiano, Fabrizio Bosso offre un esempio di virtuosismo controllato, dove il flicorno si alterna alla tromba in una dialettica continua tra lirismo e energia. Bosso, pur condividendo con Piana alcune radici stilistiche, si orienta verso una prassi più performativa e più esposta, mentre Piana predilige la misura, la riflessione e l’implementazione progressiva.Tuttavia, entrambi si distinguono per una padronanza tecnica e una musicalità eloquente che li rende interlocutori credibili nel contesto internazionale. Franco Piana si attesta nel solco di una tradizione europea che non rinuncia alla lezione afroamericana, ma la rilegge con sguardo critico e con una sensibilità estetica che lo rende affine a figure come Goykovich, complementare a voci come Truffaz ed Eick, e in un rapporto dialogico costante con colleghi italiani come Bosso. Un tessitore di trame sonore che, nel gesto del flicorno, trova la propria cifra distintiva.
Franco Piana attinge con perizia ad un ventaglio armonico che si colloca nel solco della tradizione tonale estesa, ma che non esita a incorporare elementi della prassi modale, della scrittura jazzistica post-bop e di una concezione orchestrale che riflette la lezione europea del Novecento. La grammatica accordale non si limita alla concatenazione funzionale dei gradi tonali, bensì si dipana mediante sovrapposizioni, modulazioni e progressioni che mettono in luce una padronanza tecnica ed una sensibilità compositiva di rara finezza. Nel suo impianto accordale si riconoscono le tracce di una formazione classica, nutrita da studi rigorosi e da una pratica costante con l’orchestra, dove la gestione delle tensioni e delle risoluzioni non si affida mai a formule precostituite. Piana fa leva su accordi estesi, spesso arricchiti da none, undicesime e tredicesime, ma sempre integrati in un contesto coerente, dove la stratificazione timbrica e la disposizione delle voci concorrono a generare un ambiente sonoro complesso e fluido al contempo. La sua scrittura si distingue per l’uso calibrato delle dominanti secondarie, delle modulazioni ai toni vicini e lontani, e per una predilezione verso le progressioni che non si risolvono immediatamente, mantenendo una tensione armonica che non appare mai gratuita, bensì funzionale alla narrazione. In taluni episodi, si coglie l’influenza della scuola francese – Debussy e Ravel – nella gestione delle ambiguità modali e nella costruzione di atmosfere sospese, ma sempre ricondotte a un ordine interno. Nel contesto jazzistico, Piana si muove con agio tra le strutture del bebop ed le aperture al cool jazz, ma è nella scrittura per ensemble che la sua visione accordale si espande, al punto che l’armonia non costituisce soltanto fondamento, bensì un arazzo policromo, un disegno ed una geometria timbrica. L’uso del flicorno, strumento dalla coloritura morbida e dalla proiezione lirica, gli consente di esplorare le risonanze più abissali degli accordi, di far emergere le sfumature e di scolpire il suono con una delicatezza che non rinuncia alla precisione.
Nel corpus discografico di Franco Piana, alcune pagine musicali si distinguono per la loro elasticità nel coniugare scrittura orchestrale, lirismo strumentale ed una visione armonica che dialoga con le arti, la letteratura ed il pensiero filosofico. «Reflections», inciso con il Dino & Franco Piana Ensemble, declina una narrazione musicale stratificata, dove ogni componimento assume la funzione di capitolo in un racconto sonoro. La varietà degli organici – dal quartetto d’archi al quartetto di flauti, dal duo flicorno-piano alle scritture swinganti per flicorno e trombone – testimonia una volontà di perlustrazione timbrica ed una padronanza nella gestione delle voci che rimanda alla prassi orchestrale di Gil Evans o alla geometria armonica di Ravel. I passaggi accordali, spesso costruiti su sovrapposizioni modali e su progressioni non risolutive, richiamano atmosfere sospese, in bilico fra tensione e contemplazione, dove la dissonanza non è mai urto, bensì velatura. In «Seven», Piana si circonda di interpreti di assoluto rilievo – Enrico Pieranunzi, Fabrizio Bosso, Roberto Gatto, Max Ionata, Giuseppe Bassi, Lorenzo Mannutza ed Enrico Rava – al fine di delineare un impianto compositivo che si nutre di contrappunto e di una gestione armonica che fa da cassa di risonanza la lezione del secondo Novecento europeo. Le progressioni, spesso costruite su concatenazioni di accordi estesi, si muovono secondo una logica narrativa che richiama il cinema di Michelangelo Antonioni, quasi ambienti sonori che non si chiudono, ma si dilatano, lasciando spazio all’interpretazione e alla riflessione. «Conversation», registrato con la propria Big Band, rappresenta una delle vette della sua scrittura orchestrale. Qui il flicorno assume la funzione di voce guida, con l’attitudine a delineare la trama espressiva con una cantabilità che rimanda alla poesia di Eugenio Montale, in cui ogni fraseggio appare cesellato, qualsiasi nota risulta scelta con cura e qualunque pausa è carica di senso. L’armonia, mai didascalica, si articola mediante modulazioni inattese, sovrapposizioni timbriche e una gestione delle tensioni che sancisce una visione filosofica del suono, ossia il pensiero musicale come forma di conoscenza e come spazio di meditazione. «E se domani», frutto della collaborazione con Stefania Tallini, si distingue per la sua dimensione cameristica e per una scrittura che fa leva su un’interazione paritetica tra flicorno e pianoforte. La Tallini, con il suo pianismo immaginativo e ricettivo, modella ambienti armonici che si aprono alla voce di Piana, la quale si muove con una delicatezza che richiama la pittura di Morandi: tonalità tenui, forme essenziali, silenzi eloquenti. In alcuni episodi, la voce stessa diventa strumento, introducendo una dimensione performativa che rimanda al teatro di Carmelo Bene, dove il suono non è mai semplice veicolo, ma gesto, incarnazione e presenza. In tutti questi album, Franco Piana si rivela non soltanto come trombettista-flicornista di solida formazione, ma come regista armonico, come tessitore di trame sonore, come pensatore musicale in grado di far dialogare le discipline, di evocare paesaggi interiori e di costruire un ordine interno che che assume i connotati di una rivelazione. Una voce che, nel fluire del tempo, continua a interrogare il suono, a modellarlo ed a restituirlo sotto forma di pensiero. Registrato con la Dino-Franco Piana Jazz Orchestra, «Interplay For 20» rappresenta una sintesi della sua visione orchestrale. Le composizioni e gli arrangiamenti si dipanano secondo una ratio di costruzione variabile, dove la trama espressiva si sviluppa in modo fluido e coerente. Il flicorno non assume mai il ruolo di protagonista assoluto, ma resta parte integrante di un disegno armonico che si nutre di equilibrio e di assertività. Le progressioni accordali, spesso non risolutive, generano un ambiente sonoro che richiama la pittura astratta e la filosofia della forma. Franco Piana pesca nel mare vasto dell’armonia con l’occhio del compositore strutturale e la mano dell’artigiano del suono: ogni accordo viene pensato, qualunque progressione risulta motivata, qualsiasi dissonanza è risolta o lasciata in bilico secondo un atteggiamento che rifugge la retorica ed abbraccia la complessità. Egli non si limita ad interpretare o a dirigere, ma plasma, modella e compone nel solco di una scuola di pensiero che non si esaurisce nella ripetizione, bensì si rinnova nel gesto creativo.
