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«Historicity» non propone una sintesi, ma una riflessione, in cui il trio non appare mai alla ricerca di attestati merito. Oltremodo, in tale dimensione, il pianoforte di Iyer fornisce una piattaforma adatta ad un compositore strutturale, abile di far conversare le tradizioni con il presente, senza mai cedere alla retorica. Il risultato non si misura in virtuosismo, ma è rintracciabile nell’intensità formale, nella precisione del pensiero e nella capacità di ascolto reciproco.

// di Francesco Cataldo Verrina //

Accade solo in alcuni casi particolari, soprattutto quando si tratta di edizioni doppie su vinile che il materiale musicale venga distribuito su tre facciate anziché quattro. Nello specifico l’artificio tecnico è servito per inserire nel microsolco le stesse tracce contenute nell’edizione in CD. Al netto del dettaglio tecnico, «Historicity» del Vijay Iyer Trio si attesta una come una pagina musicale di rara coerenza formale e tensione espressiva, dove la struttura del piano trio viene esplorata con una profondità che travalica la consueta dialettica fra tradizione e innovazione. L’interazione fra i tre sodali non si limita alla comunicazione strumentale, ma si articola come processo compositivo in tempo reale, secondo una logica d’implementazione modulare che trasforma ogni brano in spazio sonoro condiviso.

Vijay Iyer, al pianoforte, modella un linguaggio che si radica nella variabilità ritmica e nella stratificazione armonica, facendo leva su una sintassi che alterna arpeggi liquidi, frasi spezzate e modulazioni impercettibili. Il suo tocco, mai enfatico, scolpisce il tempo con una precisione che non rinuncia alla flessibilità, generando un flusso che si espande e si contrae secondo logiche interne. Marcus Gilmore, alla batteria, interviene come tessitore ritmico, disegnando un profilo acustico che si distingue per varietà timbrica e per una pulsazione che non si limita a sostenere, ma che plasma il clima e ne determina la fisionomia. L’alternanza fra rullanti acuti ed immersività della grancassa genera un ambiente sonoro che amplifica il gesto pianistico, creando una trama esecutiva di forte impatto. Stephan Crump, al contrabbasso, si muove nel tessuto con una presenza che non cerca il protagonismo, ma piuttosto definisce l’ordine interno della composizione. Le sue corde si rivelano melodicamente eloquenti, in grado di delineare percorsi accordali che si annodano con le linee superiori, generando contrappunti che che emergono per necessità strutturale. Il suo ruolo, in costante trasformazione, contribuisce all’implementazione di un impianto sonoro che si distingue per equilibrio e tensione. La scelta di repertorio, che include riletture di composizioni di Andrew Hill, M.I.A., Stevie Wonder e Duke Ellington, non assolve ad un esercizio stilistico, bensì ad un’operazione critica, dove ogni passaggio viene riallocato in un contesto ritmico-armonico che ne ne evidenzia inedite possibilità. Iyer interpreta, ma al contempo costruisce, plasma e riorganizza. La sua verve, anche nei contenuti originali, si differenzia per una geometria timbrica che non indulge mai nel pretesto ornamentale, radicandosi in una visione compositiva di estremo rigore. Nell’album, ogni traccia si sostanzia come episodio sonoro autonomo, ma inserito in una in un metodo compositivo che privilegia la stratificazione ritmica, la tensione armonica e l’impianto estetico, in cui il Vijay Iyer Trio modella e trasfigura. La relazione fra i tre strumentisti si dipana alla medesima stregua di una tessitura polifonica, dove ogni passo esecutivo s’innesta nel respiro collettivo, dispensando una trama che richiama, per opulenza e precisione, le geometrie visive di Paul Klee e le perifrasi narrative di Italo Calvino.

La title-track, «Historicity», quale opener, si distribuisce su cellule ritmiche iterate che si espandono secondo logiche frattali. Il pianismo di Iyer, percussivo e multistrato, mette in moto una pulsazione interna che si trasforma subito in colore. Crump, con un pedale di basso che non si limita a sostenere, plasma un fondale armonico che consente a Gilmore di impostare una sintassi ritmica complessa, fatta di accenti spostati e di silenzi significativi. Il risultato evoca la pittura seriale di Sol LeWitt, dove la ripetizione genera variazione e la struttura diventa forma. «Somewhere», rilettura di Bernstein e Sondheim, viene smontata mediante una triplicazione del tempo originario. Iyer ne dissolve la melodia, lasciando che il tema affiori per allusione, mentre Crump ne riformula la progressione armonica con un walking bass che si muove secondo una razionalità contrappuntistica. Gilmore, con il drumming che alterna sospensione ed incalzare, forgia un ambiente sonoro che richiama le atmosfere di Edward Hopper: solitudine, attesa e luce obliqua. «Galang», brano di M.I.A., si trasfigura in episodio postmoderno, dove la scansione hip-hop viene trasposta in teorema acustico. Il pedale di basso diffonde una vibrazione quasi sospesa, mentre il pianoforte dispensa frammenti ritmici che si accatastano come piani prospettici. L’interazione fra i tre strumenti richiama le sovrapposizioni visive di David Hockney, dove ogni frammento contribuisce alla sagomatura di una visione molteplice. «Helix» si presenta come ballata solo in apparenza, poiché la scrittura armonica, basata su accumulo di quarte e su ambiguità tonali, innesca un clima che s’impianta nel solco della poesia di Wallace Stevens, dove ogni immagine si sviluppa per negazione e qualsiasi parola si radica in un’ebollizione sotterranea. Iyer, con un tocco che alterna leggerezza e abbondanza, modella una linea melodica che si dissolve nel postulato ritmico di Gilmore, mentre Crump ne segue il tracciato con una sensibilità che risulta decisiva. «Smoke Stack», omaggio ad Andrew Hill, affiora come tessitura multistrato, dove la frizione ritmica si fa protagonista. Gilmore, con un assolo tribale, scandisce il tempo con una calibratura che richiama le incisioni di Escher, mentre Iyer ne segue le orme con una tecnica che alterna frasi spezzate a momenti di lirismo trattenuto. Crump, con l’arco che si fa voce, conforma un fondale che non si limita a dare sostegno, ma instaura un dialogo serrato con i compagni di viaggio. «Big Brother», a firma Stevie Wonder, viene riformulata secondo una logica di destrutturazione timbrica. Il pianoforte, foriero di un fraseggio che allude allo stride, genera un’asimmetria abrasiva che si infila nel tracciato di Thelonious Monk, ma che viene filtrata in virtù di una sensibilità contemporanea. Gilmore aziona il kit percussivo, alternando pulsazione e sospensione, al fine di dare vita ad un habitat sonoro che richiama le atmosfere di Philip Guston, mentre Crump ne definisce il tono con una presenza discreta ma incisiva. «Dogon A.D.», di Julius Hemphill, si presenta come episodio sonoro di forte assertività: la procedura ritmica diviene serrata, incrociandosi in dissolvenza con la struttura accordale. Iyer, portatore sano di un pianismo che alterna surplus e rarefazione, plasma un ambiente che allude alle architetture di Zaha Hadid, dove la forma si sostanzia nel fluire. Crump e Gilmore, in costante dialogo, sgravano una pulsazione che determina la fisionomia del componimento.

«Mystic Brew», a firma Ronnie Foster, viene rinfrescata mediante una metrica inconsueta ed una spinta ritmica che ne ridefinisce il profilo. Il trio si compatta come organismo unico, dove ogni voce contribuisce alla determinazione di un ordine interno. Il risultato attiene alle geometrie musicali di Morton Feldman, dove la ripetizione si fa meditazione e la struttura compare gradualmente. «Trident 2010», scritta da Iyer, promulga un episodio di inquieto lirismo, mentre la partitura accordale, basata su sovrapposizioni politonali, alimenta un clima che rimanda alle ambientazioni di Francis Bacon, dove il contrasto diventa carne e la forma si dissolve. Il trio, in costante ascolto reciproco, converge in un ambiente sonoro teso ad un carotaggio emozionale che scava negli abissi dell’anima. «Segment for Sentiment #2» chiude il cerchio con cromatismo attenuato che si avvicina alla poesia di Paul Celan, fatta di frammenti, silenzi ed allusioni. Iyer, con un tocco che diventa canto, imbastisce una linea che si fissa permanentemente nella mente del fruitore. Crump e Gilmore, in perfetta sintonia, ne seguono le indicazioni, lasciando che la musica prenda corpo nel respiro. L’intero album si rivela come un impianto modulare, dove ogni tassello contribuisce alla definizione di un apparato compositivo coerente, politematico ed esteticamente eloquente. Il Vijay Iyer Trio, in tale contesto, si conferma come organismo proattivo in grado di far dialogare le arti, la letteratura e la musica secondo un’idea di necessità che diventa virtù. A conti fatti, «Historicity» non propone una sintesi, ma una riflessione, in cui il trio non appare mai alla ricerca di attestati merito. Oltremodo, in tale dimensione, il pianoforte di Iyer fornisce una piattaforma adatta ad un compositore strutturale, abile di far conversare le tradizioni con il presente, senza mai cedere alla retorica. Il risultato non si misura in virtuosismo, ma è rintracciabile nell’intensità formale, nella precisione del pensiero e nella capacità di ascolto reciproco.

Vijay Ayer Trio
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