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Il gruppo propone un innovativo modo di eseguire gli assoli all’unisono, mentre l’impianto melodico è tutto nella mente e nelle dita di Zawinul che, attraverso il moog, gioca a fare il mago con le nuove tecnologie dell’epoca.

// di Francesco Cataldo Verrina //

«Non so quale sarà il prossimo disco», disse Joe Zawinul nell’estate del 1972, «ma sarà qualcosa di diverso! Abbiamo imparato cose nuove ogni sera, e stiamo ancora crescendo». Il disco in questione sarà «Sweetnighter» del 1973, terzo capitolo della saga dai Weather Report, i quali abbandonarono le forme libere e vaganti dei loro primi due album per cimentarsi in composizioni più estese sostenute da un corposo groove. Le nuove regole d’ingaggio diverranno propedeutiche allo sviluppo compositivo di classici album come «Black Market» ed «Heavy Weather». Qualche tempo più tardi lo stesso Zawinul chiarì la sua posizione: «Ero uscito dalla band di Cannonball, e naturalmente volevo suonare un po’ più funky di quello che suonavamo all’epoca. All’inizio, i Weather Report erano una band quasi completamente improvvisata, ed io volevo un po’ più di struttura. Soprattutto non stavamo vendendo abbastanza dischi, così ho scritto «Boogie Woogie Waltz» che c’ha fatto spiccare il volo».

«Sweetnighter» è meno cerebrale e più fisico, la musica è più tangibile e fruibile al primo impatto, mentre affiorano le torride sonorità di Sly & The Family Stone e le acide vibrazioni del sound di Norman Whitefield, in cui il sodalizio tra jazz, soul ed elettronica riporta alla mente la svolta di Herbie Hancock. In effetti, «Sweetnighter» fu la nuova formula vincente della premiata ditta Weather Report, almeno in parte. Zawinul assunse il controllo della band, allontanandola dall’improvvisazione collettiva che segnava le sue performance dal vivo, portandola verso composizioni più strutturate che enfatizzassero il legame con un tagliente funk metropolitano imperniato su un groove massiccio, arricchito da una ridda di percussioni. L’inedita dottrina filosofica del gruppo venne declamata ed evidenziata nei brani dominanti dell’album: «Boogie Woogie Waltz», «125th Street Congress» e «Non-Stop Home». Le altre tracce segnarono la linea di confine con i precedenti lavori dei Weather Report, facendo di «Sweetnighter» un disco di passaggio dalla prima fase del gruppo, più esplorativa e sperimentale, a quella che potremmo definire più concreta e matura. La vera peculiarità di «Sweetnighter» è costituita dalla quasi totale mancanza di assoli dei singoli strumentisti, in particolare da parte di Shorter, dedito più che altro a commentare, rifinire e decorare i passaggi in ogni traccia; per contro il gruppo propone un innovativo modo di eseguire gli assoli all’unisono, mentre l’impianto melodico è tutto nella mente e nelle dita di Zawinul che, attraverso il moog, gioca a fare il mago con le nuove tecnologie dell’epoca.

Zawinul spiegò spesso le motivazioni del mutamento genetico. C’era da parte loro soprattutto il desiderio di porre fine al nomadismo improvvisativo, alla fluttuazione creativa, alla ricerca e alla composizione quasi in tempo reale che, fino a quel momento, avevano caratterizzato la band, specie nei set dal vivo. «Non ero rimasto completamente soddisfatto da nessuna del due formazioni, quella del 1971 e quella del 1972», spiegò Zawinul verso la fine degli anni Settanta. «Una sera suonavamo come i migliori musicisti del mondo e altre sere non riuscivamo a decollare. Molte sere, quando non c’era la magia e l’intesa, era una catastrofe (…) I primi due dischi erano indagini, con il secondo album ci siamo resi conto di ciò che non potevamo fare: Wayne ed io siamo sempre stati più o meno sulla stessa lunghezza d’onda e ciò che volevamo fare è in questo terzo disco (…) volevamo che la band diventasse più forte ritmicamente, anche più forte di Miles e di tutti quelli che avevano imboccato certe direzioni». In «Sweetnighter» diventa decisiva l’impostazione della ritmica, la convinzione di volere comunicare attraverso il tappeto percussivo. Tutta la musica afro-americana si stava aprendo al ballo e al fenomeno delle discoteche. Per paradosso, la volontà di musicisti di ogni razza o estrazione era quella di dare anche un corpo fisico alle emozioni. L’intellettualismo ed i cerebralismi allucinati post-sessantottini stavano lentamente scemando verso il nulla. «Boogie Woogie Waltz, così come «125th Street Congress», sono caratterizzate da una doppia traccia di basso dove emerge l’abilità di Miroslav Vitous che presto lascerà il gruppo. Questa sarà la sua ultima apparizione nei Weather Report. L’abbandono del bassista propizierà l’ingresso di Alphonso Johnson e, soprattutto, di Jaco Pastorius, il quale porterà la super-band sul tetto del mondo.

Il brano di apertura della durata tredici minuti, composto da Joe Zawinul, si srotola su un substrato ritmico-armonico abbastanza serrato, diverso dalle fluviali improvvisazione libere degli album precedenti, puntando, per contro, su innesti sonori abrasivi e taglienti di stampo funkified, tanto da ingabbiare l’ascoltatore con un’esca più semplice ed efficace, per poi intrappolarlo in una serie di partiture più complesse e jazzly, sulla falsa riga di Eumir Deodato. «Manolete», a firma Shorter, è un via di mezzo tra il vecchio mood dei Report e quello appena inaugurato: il brano è più intenso e riflessivo, tanto da aprire la strada ad «Adios», componimento breve e concentrato su un’atmosfera sotterranea e crepuscolare, in cui domina l’effettistica di Zawinul e del suo marchingegno elettronico. Dopo questa breve camera di decompressione, l’avvento della B-side riapre le danze con i dodici minuti di «125th Street Congress», sempre farina del sacco di Zawinul. Il lungo brano è segnato dall’uso quasi spasmodico del basso e del sassofono tenore che marchia il territorio con strappi brevi e mirati; così mentre il groove di matrice funk torna a torreggiare su tutto l’impianto sonoro, basso e sintetizzatori duettano a meraviglia con un Wayne Shorter illuminato da uno stato di grazia. «Will», firmata da Miroslav Vitous, è un breve intermezzo giocato sempre su una perfetta sintesi tra jazz e funk, anche se si staglia su un groove più lento e fangoso, che riporta alla mente le limacciose atmosfere di Norman Whitefield. «Non Stop Home» è un’altra creatura di Wayne Shorter, ancora improntata alla sperimentazione di un crossover basato su linee armoniche di tipo jazz ed innesti ritmici d’ispirazione funkiness, dove il basso, sostenuto dall’effettistica di Zawinul, diventa ancora il vero marchio di fabbrica.

Registrato al New Haven Connecticut Recording Studio, fra il 3 ed il 7 febbraio 1973, l’album vide la partecipazione di molti musicisti, a parte il nucleo di base della band costituito da Joe Zawinul piano acustico, elettrico e synth, Wayne Shorter sax soprano e tenore, Miroslav Vitous basso elettrico e acustico, Eric Gravatt batteria e Dom Um Romão percussioni. Nonostante l’oscurantismo in cui versava la critica dell’epoca, specie in Italia e la sottovalutazione immediata, «Sweetnighter», pur lontano dai futuri successi commerciali della band, è un lavoro di altissimo livello, capace di ripagare la pazienza perfino del neofita, poiché dotato ancora di attualità e longevità artistica. Oggi, ex-post, possiamo considerarlo un vero capolavoro post-funk o pre-BAM, al pari di «On The Corner» di Miles Davis o «Head Hunters» di Herbie Hancock.

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