// di Francesco Cataldo Verrina //
Stuart Nicholson, nell’introdurre le note di copertine del disco dice: «Tutte le storie iniziano da qualche parte e, nel caso degli Sphere, la cui sofisticata eloquenza musicale ha caratterizzato gli anni Ottanta, la storia inizia con il Kenny Barron Trio». Anch’io posso partire da un inizio ben preciso per quanto riguarda la mia attività di critico musicale, soprattutto con una considerazione del tutto personale: ascoltare un album del genere, per me, è una duplice emozione, perché io quel giorno c’ero, seduto in un angolo del Teatro Morlacchi di Perugia. Era il 14 luglio del 1986, quando il concerto «Sphere Live At Umbria Jazz» venne fissato su nastro. Da giovane cultore dei sassofonisti jazz, ero corso ad ascoltare soprattutto il mitico Charlie Rouse, l’unico sassofonista nella storia che, per oltre un decennio, aveva trovato una perfetta compliance con il difficile sistema accordale di Thelonious Monk, ma tutto l’insieme fu per me una rivelazione.
Per questa e altre considerazioni, sono ancora qui, dopo trentotto anni, a scervellarmi per cercare di capire e spiegare al mondo la forza evocativa di una tipologia jazz che oltrepassa le barriere dello spazio e del tempo, che ha attraversato mode e tendenze, uscendo indenne e più vivo che mai. «The Complete Live At Umbria Jazz» degli Sphere è delle più seducenti registrazioni live di jazz mainstream degli anni Ottanta. In special modo, adesso acquisisce tutta una serie di valori aggiunti, grazie alla nuova Red Records di Marco Pennisi che ha immesso sul mercato la sessione completa spalmandola su un doppio album in vinile 180 gr, una produzione di pregio e di qualità audiofila, caratterizzata da una grafica accattivante. Gli Sphere sono stati un eccellente quartetto sax-led capace di spaziare tra bop classico, hard-bop e post-bop, quattro superbi musicisti in perfetta armonia, abili nel fare oscillare l’anima, il corpo e la mente. Si dice che nel jazz molti capolavori siano nati dall’estro di un momento irripetibile o da incontri casuali ed occasionali fra musicisti i quali, dopo quella sessione e in quel determinato line-up al completo, non abbiano mai più suonato insieme in altri dischi: un caso su tutti «Kind Of Blue» di Miles Davis. Ci sono, per contro, esempi eloquenti di quintetti affiatati e stabili come quelli dello stesso Davis o il classico quartetto coltraniano che hanno scritto pagine memorabili della storia del jazz, fissando nuove regole d’ingaggio, riprese ed imitate da una pletora di succedanei. Gli Sphere rispondevano al concetto di formazione stabile, con Charlie Rose al sax tenore, Kenny Barron pianoforte, Buster Williams contrabbasso e Ben Riley batteria, caratterizzandosi come una delle formazioni jazz più apprezzate del decennio rampante e dell’edonismo reaganiano, operando sul lineage della grande tradizione post-bop di matrice afro-americana. Gli Sphere capirono subito che fra loro si stabiliva una sinergia quasi trascendentale. Un super-gruppo inter pares, gestito come una cooperativa, un società, che includeva una casa editrice musicale, ed un marchio registrato, al fine di mantenere il controllo artistico sulla loro produzione: paga uguale per tutti e medesimo potere decisionale all’interno dell’ensemble. All’indomani della loro costituzione queste furono le parole di Ben Riley: «Con la consapevolezza di che cosa Rouse portava nella musica e il feeling che ciascuno di noi ha messo nel suonare in quel fine settimana, capimmo che era la volta buona».
«The Complete Live At Umbria Jazz» degli Sphere si sostanzia come uno dei momenti salienti della breve vita artistica di questo gruppo, pubblicato in vinile dalla Red Records e ristampato in CD con il titolo «Pumpkin’s Delight», alcuni anni dopo il loro scioglimento avvenuto nel 1988 a causa della morte di Charlie Rouse. Per volere di Alberto Alberti (fondatore di Umbria Jazz nel 1973 assieme a Carlo Pagnotta) e Sergio Veschi della Red Records, il disco venne immesso nuovamente sul mercato, quale omaggio alla memoria del sassofonista, come recitava chiaramente l’epigrafe riportata nelle note di copertina: «Dedicated to Charlie Rouse, a man of great feelings, umanity and a great tenor saxphone player». La title-track «Pumpkin’s Delight», un concentrato di blues turbolento composto da Rouse, utilizzato come opener del concerto, diventa il vero fiore all’occhiello dell’album. Barron è costantemente nelle grazie di Euterpe, esponendo tutto il meglio del suo campionario stilistico. «Saud’s Song» si caratterizza in apertura con un potente assolo del sassofonista, maestro nell’arte di ridare vita al sistema accordale rimodellandolo sotto forma di melodia a presa rapida, su cui innestare piccole stille di arte improvvisativa. Il componimento, che richiama lo standard «Honeysuckle Rose», fu firmato dall’allora giovanissimo Kenny Barron, il quale lo strutturò come un compatto up-tempo, un veicolo ricco d’inventiva capace di trasportare il line-up verso un moderno post-bop, dimostrando tutta l’abilità strumentale e compositiva di quello che sarebbe diventato uno dei pianisti più richiesti in svariate sessioni di registrazione durante il decennio successivo. Al bassista Buster Williams si deve la composizione di «Christina», dedicata alla nipotina, una fascinosa ballata, abissale e struggente, su cui il piano di Barron ed il sax di Rouse ricamano con il filo del pathos intriso di poetica, mentre «Tokudo» si coagula come un hard-bop snocciolato magistralmente in scioltezza, locupletato dal solito Rouse con la sua scintilla monkiana e dall’apprendista stregone Barron che garantisce un comping da accademia del jazz; «Decaptkon», su cui Charlie Rouse applica ancora il metodo monkiano della melodia ricreata attraverso le note presenti negli accordi, rappresenta uno dei momenti più insoliti ed impegnativi del repertorio del quartetto, segnato dalla pennellata estrosa e brillante di Ben Riley e da un memorabile assolo del contrabbassista-autore.
Non molto tempo addietro, durante una ricerca nell’archivio della Red Records sono stati rinvenuti di due nastri considerati vuoti. Dopo un attento ascolto, è stata scoperta una singola traccia degli Sphere su ciascuna delle bobine. Un fatto rilevante che aggiunge ancora più fascino e sostanza al live set realizzato al Morlacchi di Perugia nel 1986. «If I Should Lose You», eseguita quasi in overclocking, è una lectio magistralis di estetica del bop post-moderno che, con i suoi diciassette minuti e quaranta secondi di iperbole creativa ed improvvisativa, diventa un imponente arazzo cromatico che mette in luce tutto il talento dei quattro sodali con Barron e Rouse che fanno da anfitrioni in prima fila. La seconda traccia scoperta è una versione di «Trinkle Tinkle», uno dei brani preferiti di Monk. Mentre Rouse e Riley ne conoscevano già ampiamente le dinamiche esplicative per averla suonata un’infinità di volte con il Monaco, dal canto suo Barron, non solo ne penetra immediatamente l’humus, ma vi apporta un senso di rinnovata vitalità ed un mood decisamente più attuale, se non altro meno canonico. Lo stesso Rouse, sospinto dal fluente apporto accordale di Barron, ne traccia inediti contorni melodici. «The Complete Live At Umbria Jazz» degli Sphere, oggi più che, diventa un disco che non dovrebbe mancare nella collezione di ogni vero cultore del jazz moderno.