Jacopo Tomatis

di Guido Michelone

Dopo Paolo Fabbri (di cui fra l’altro è allievo al Dams di Torino una ventina di anni or sono) Jacopo Tomatis è sicuramente il docente italiano più noto e apprezzato di una nuova materia che va sotto il nome di Storia della Popular Music. Sotto tale definizione – la cui traduzione, ‘musica popolare’, crea ancora qualche dubbio o perplessità in ambito critico – perché vi si può collocare di tutto o jazz, jazz compreso, almeno quel jazz che nel suo primo mezzo secolo di vita è autenticamente popular o popolare. Ma anche giungendo ai nostri giorni – con la fusion, per esempio – vi sono esempi estremamente di fare o ascoltare il jazz.

Il quarantenne originario di Mondovì (Cuneo) – musicologo, giornalista, ricercatore, folksinger, insegnante di Storia della Popular Music all’Università di Torino e nei Conservatori di Pescara e Milano – esordisce sul bimestrale «World Music», dalla breve parabola, per passare al. «Giornale della musica», dove nel 2008 diventa redattore nonché responsabile delle sezioni dedicate a jazz, a pop, etnica, oltre dirigere Premio Loano per la Musica Tradizionale Italiana.Tra il 2019 e il 2024 pubblica tre libri fondamentali per la popular music – Storia culturale della canzone italiana, E ricomincia il canto, Bella ciao. Una canzone, uno spettacolo, un disco (tutti per il Saggiatore), ma in quest’intervista l’attenzione è concentrata ovviamente sul jazz.

D In tre parole chi è Jacopo Tomatis? Raccontaci in breve la tua attività professionale.

R La mia biografia sulle fascette dei libri riporta di solito “musicologo, giornalista musicale e musicista” – in effetti ho fatto un po’ tutti i lavori della filiera (oltre ad altri meno “prestigiosi”) prima di finire a fare il ricercatore. Ho cominciato come giornalista in una testata che non c’è più, «World Music Magazine», poi ho continuato con «Il giornale della musica» (con cui ancora collaboro), oggi scrivo anche sulla «Domenica del Sole 24 Ore». Come musicista porto avanti un progetto che si chiama Lastanzadigreta, con cui vincemmo una Targa Tenco Opera Prima qualche anno fa, nel 2017. Come ricercatore (precario) insegno popular music all’Università di Torino, a Bologna per il Master in Promozione e produzione musicale, ma ho insegnato anche in Conservatorio, a Pescara e Milano…

D A che età e come hai scoperto la musica? Cosa ascoltavi da bambino?

R In verità, uno dei miei primi ricordi musicali riguarda proprio il disco di Bella ciao del Nuovo Canzoniere Italiano, che girava su una cassettina sulla macchina dei miei e nel mio walkman: il mio interesse per le musiche “popolari” nasce da lì. Conoscevo tutte le canzoni a memoria. Non è propriamente un ascolto normale, per un bambino degli anni novanta… in generale, sono stato un bambino e un adolescente molto snob, di quelli insopportabili che ascoltano i cantautori, il progressive rock e che giudicano gli altri perché ascoltano cose troppo commerciali. Poi per fortuna mi sono redento, e i miei ascolti si sono aperti, dal rap all’elettronica…

D Che rapporto hai con il jazz?

R Premettendo che dovremmo metterci d’accordo su che cosa intendiamo con “jazz”, non è mai stata la “mia” musica, quella che ascoltavo per mio piacere personale. Mi ci sono poi avvicinato per ragioni professionali, riscoprendo i classici e in generale imparando ad apprezzarne soprattutto le derivazioni recenti più coraggiose, forse più vicine alla mia sensibilità di ascoltatore “pop” o comunque in grado di superare i noti cliché da jam session (che per molte persone ancora rappresentano “il jazz”).

D Concordi che per un lungo periodo il jazz è musica ballabile e quindi facente parte a pieno diritto della storia della popular music? Ha ancora un senso oggi la parola jazz? Se sì perché?

R Pure la categoria di “popular” andrebbe decostruita – ma certo, il jazz è una musica popular a tutti gli effetti, e lo è stato non solo perché “ballabile” ma perché diffusa attraverso i mass media, orientata all’intrattenimento, espressione di minoranze eccetera eccetera. La parola “jazz” ha senso come ogni parola, perché ci aiuta a comunicare e a spiegarci qualcosa l’un con l’altro… Anche “musica classica” ha senso per questa ragione, anche “popular music”. Ma un conto è ammettere che le parole sono un modo per dare senso al mondo, che sono qualcosa che usiamo, un conto è pensare che “esista” il jazz come musica ben delimitata, eventualmente utile anche a escludere quello che “non è” jazz. Il modo in cui usiamo le parole poi cambia nel tempo. Oggi mi sembra che “jazz” venga usato per indicare un complesso di musiche molto vario, che hanno in comune un certo approccio alla ricerca, all’improvvisazione, e che si richiamano a radici africano americane. In tal senso, è pienamente legittimo usarla.

D Esiste la possibilità in Italia di collaborazioni tra jazzisti, cantautori, musicisti rock, pop, rap, folk?

R Certo. Poi, purtroppo, spesso sono collaborazioni al ribasso. Il problema di molti progetti messi su dai “jazzisti” (ammesso che la categoria abbia senso) oggi è che partono dall’odiato principio della jazzificazione. Io posso prendere qualunque canzone, melodia, genere e jazzificarlo mettendoci un paio di accordi più complessi e un po’ di swing. Spesso si fa per ragioni di festival, di progetti “vendibili” agevolmente in un circuito – quello dei jazz festival – che a differenza di molto pop beneficia di supporto pubblico e dunque “paga”.

D Parli di jazz con i tuoi allievi? Come lo recepiscono? L’allievo che in Università segue un corso di Storia della Popular Music quale bagaglio musicale possiede? Cambia gusti e interessi grazie alle tue lezioni?

R Parlo di jazz come popular music, ma in generale non ritrovo una grande preparazione musicale pregressa nei miei studenti, che in molti casi sono all’Università non per fare un percorso specifico in musica, ma piuttosto in cinema, media o comunicazione. Nel caso del jazz, l’impressione è che ci sia una preparazione “tutto o niente”. Chi è appassionato, magari perché musicista, conosce ogni data di uscita dei dischi di Miles Davis. Chi non è appassionato, ha un’idea del jazz modellata su When the Saints Go Marching In o qualcosa di simile.

D Quindi che obiettivi ti poni nel mio insegnamento?

R Il mio corso cerca di proporre l’ascolto consapevole di molte cose, e soprattutto di mettere ordine in ascolti pop che oggi – come effetto della facilità di reperire materiale via web, e dell’imperante retromania – spesso sono variegati, ricchi, ma poco storicizzati. Magari si conosce Kate Bush perché il suo brano è stato incluso in Stranger Things, ma non si ha idea di quale fosse la musica degli anni Ottanta, di come suonasse. Non credo di poter (né di voler) cambiare i gusti della gente, ma alcuni studenti a distanza di anni vengono a ringraziarmi per avergli fatto scoprire qualcosa… Moltissimi mi hanno ringraziato di averli iniziati agli Skiantos, ad esempio!

D Dei lavori da te intrapresi quali ritieni siano i più gratificanti o esemplari per il tuo contributo alla cultura musicale?

R A me piace fare il ricercatore, e mi piace insegnare. Mi appassiona parlare della musica che mi piace, ma ho l’ambizione – che è un’ambizione politica – di riuscire a capire qualcosa di più del mondo, di chi siamo, di come funzioniamo, attraverso la musica. Non so se ce la faccio, ma per me è sempre stato qualcosa di più del mero esercizio della critica. Altrimenti, non mi occuperei di popular music.

D Un’ultima domanda nel tuo nuovo libro Bella Ciao fai un’ottima analisi sugli arrangiamenti jazzy delle prime versioni discografiche di Bella Ciao. Secondo te, vezzo, una moda o la consapevolezza di una analogia fra jazz e libertà? Jazz musica degli americani liberatori? O jazz come forma di riscatto sociale dei neri (con i quali molta sinistra era solidale)?

R Non vedo qui alcun legame fra jazz e libertà – mi sembra una costruzione a posteriori – o retropensiero sui neri. Quella era musica alla moda, era percepita come musica alla moda presso una certa fascia sociale. Null’altro!

Jacopo Tomatis

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