«Dream Big» di Enrico Valanzuolo, dove la componente onirica diventa l’induttore principale di un itinerario immaginifico (GleAM Records, 2022)

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…la vaporizzazione della realtà in un sogno fatto di lemmi e dilemmi sonori che si dipanano alla medesima stregua di un viaggio che, dall’interno, muove verso l’esterno alla ricerca di un eremo spirituale, ma progressivamente materico…

// di Francesco Cataldo Verrina //

Il sogno è una delle caratteristiche della natura umana che svolge molteplici funzioni: può essere una valvola di sfogo e una camera di decompressione, in cui si addensano, si placano e si diradano tutte le tensioni, i conflitti e i patemi diurni dell’individuo, non sempre legati alla quotidianità, forse a vite vissute precedenti o semplicemente immaginate, addirittura provenienti da un abissale subconscio che trascina il «sognante» in un vortice di sensazioni persino più forti dei quelle reali. Il sogno è anche una non materia attraverso cui la razza umana costruisce castelli in aria ed una realtà parallela, molto simile al concepimento di una tema musicale, di un costrutto melodico o di una canzone. Il sogno sovente è una fuga verso una altrove, e come la musica, è un fuoriuscire dalla realtà esistenziale proiettandosi verso l’altro generalizzato in una forma diversa. Non tutte le costruzioni sonore sortiscono un effetto onirico, ma «Dream Big» di Enrico Valanzuolo, edito dalla GleAM Records, è la vaporizzazione della realtà in un sogno fatto di lemmi e dilemmi sonori che si dipanano alla medesima stregua di un viaggio che, dall’interno, muove verso l’esterno alla ricerca di un eremo spirituale, ma progressivamente materico, il quale si solidifica in un amplesso sonoro, mai complesso, dalle tinte tenui, ma intellegibili, dove la sostanza musicale prende forma attraverso la concretezza di un affiatato line-up, in cui trombettista Enrico Valanzuolo trova la complicità di Eunice Petito al piano, Francesco Fabiani alla chitarra elettrica, Aldo Capasso al basso acustico ed Eugenio Fabiani alla batteria.

Il musicista napoletano si cimenta in sogno di breve durata, quasi una fase REM: cinque composizioni in tutto, quattro farina del suo sacco, in cui il quintetto, ben posizionato ed empatico, sviluppa una trama sonora progressiva e sospesa, dove la componente onirica di un itinerario fantastico ed immaginifico diventa l’induttore principale. La linea di demarcazione sonora è lineare, per quanto i brani evidenzino delle complessità armoniche, ma non ci sono mai eccessivi strappi, impeti o cambi di umore. La temperatura e costante e l’acclimatamento del fruitore è facile e confortevole. Le parole di Paolo Fresu, endorser di lusso, nelle note di copertina, aggiunge qualche elemento di riflessione in più: «Enrico ha un suono che gira in testa. Difficile spiegare, per chi non suona la tromba, l’essenziale importanza dell’equazione suono pensiero. Sono solo cinque i brani di questo interessante lavoro ma sufficienti per affermare quanto il processo mentale risulti corretto. Il resto è estetica. Per quanto questa sia importante ciò che conta è la relazione diretta tra pensiero e suono. Questa si tramuta in un pathos che è vocale e in una emozione condivisa con i suoi magnifici compagni di viaggio. «Dream Big» è uno dei tanti sogni di cui, ora più che mai, necessitiamo».

Parafrasando il trombettista sardo, la compliance fra suono ed emozione diventa come una sorta di tensione e rilascio mentale, che partendo da ambientazioni, quasi sempre sommesse e sospese, raggiunge il nucleo centrale della «natura» delle cose. «Dream Big» è una sorta di graduale risveglio degli elementi naturali e sembra parlare con il linguaggio del vento, delle gocce di pioggia,o di uno stormir di fronde. Ci troviamo di fronte ad un jazz animistico che si manifesta attraverso un piccola alba boreale, dove suoni, rumori, voci e colori mutano seguendo i ritmi lenti della natura. Il lungo intro percussivo di «Introduction. Song for L» produce l’idea di un universo assopito che sta per uscire dal torpore: provate ad immaginare il battito d’ali di migliaia di volatili che avvertono un cambiamento che non tarda ad arrivare con «Portrait Of Kaisariani», in cui un’onda s’infrange sugli scogli per poi accarezzare i flutti con una movenza costante, mentre via via riprende quota, attraverso un piacevole interscambio fra i sodali. Il cerchio si chiude completandosi con una assolo del band-leader in modalità free form, forse a voler sfidare la forza gravitazionale del sistema armonico. La title-track basata principalmente sulle prodezze del piano e della tromba, si snoda su un effluvio di note che si apre su un habitat fatto di essenze, suggestioni, commistioni e credenze proto-jazz, con la bussola che punta l’ago a Nord, ma con il magnete legato ad un sottile filo di canapa partenopea.

«200 Km» è l’unico dei cinque componimenti non scritto dal band-leader, in cui l’architettura ritmo-armonica è implementata su un’intelaiatura scalare di tipo blues. Il flusso sonoro, appuntito e smerigliato dalla chitarra elettrica, è tutt’altro che sognante, ma ruvido e abrasivo sembra impaziente di sfuggire da tutta l’aria compressa e sospesa che lo circonda, aumentando il passo e tentando una via alternativa, in un viaggio finora portato avanti a velocità di crociera. Mentre «Portrait Of Kaisariani» era ispirato ad una vacanza in Grecia, «Quebec» nasce da un viaggio in Canada, mentre la musica sembra descrivere in maniera quasi cinematica le lunghe distese di quei luoghi camuffandosi inizialmente come una ballata newaging disegnata con accuratezza dal pianoforte, le cui note si espandono in lunghezza e larghezza. Il sinergico gioco fra la prima linea d’attacco e retroguardia ritmica riserva un finale a sorpresa, in cui la trama sonora s’inerpica e s’impiglia tra le asperità di un paesaggio umorale e ambientale mutevole. A conti fatti, poco più di trenta minuti di musica non sono sufficienti a tratteggiare tutto il potenzialità ed il talento di un giovane musicista, ma servono a dare delle indicazioni ben precise che lasciano ben sperare per il futuro. Enrico Valanzuolo e di suoi sodali dimostrano di avere un quadro chiaro delle dinamiche jazzistiche contemporanee: il disco è formalmente ben articolato ed assolve alle esigenze ed al sogno di un’opera prima, ma il tempo e l’esperienza daranno al trombettista partenopeo l’opportunità di aggiungere sostanza ed autonomia alla sua formula esecutiva, affrancandola da taluni modelli preesistenti legati al jazz volatile di tipo nordico, o eccessivamente condizionato dai languori mediterranei, nonché di arricchire il numero e la varietà tematica delle prossime composizioni.

Enrico Valanzuolo
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