// di Guido Michelone //

A circa un decennio dalla prima edizione il compositore, studioso, chitarrista, didatta trentino pubblica, sempre per le edizioni del Saggiatore il voluminosissimo ma – proprio per questo – fondamentale 1000 dischi per un secolo, 1788 fitte pagine di analisi e commenti su opere musicali (spesso, soprattutto con l’ingresso del long playing,, da dalla prima Tosca (Giacomo Puccini, 1900) coincidenti con le versioni fonografiche) all’ultima Johann Sebastian Bach – The Goldenberg Varations (Uri Caine, 2000) passando anche tra molti jazz album, se sim pensa che, nell’introduzione, Enrico Merlin, compie di fatto una personale graduatoria sui musicisti più influenti del XX secolo grazie al loro percorso e che soprattutto “grazie alla loro creatività, hanno saputo fornire ripetuti stimoli per l’evoluzione dei linguaggi lungo l’asse del tempo)”; nel jazz sono Ornette Coleman, John Coltrane, Miles Davis, Duke Ellington, Bill Evans, Keith Jarrett, John McLaughlin, Pat Metheny, Charles Mingus, Thelonious Monk, Charlie Parker, Sonny Rollins, Frank Sinatra, Wayne Shorter, Sun Ra, Joe Zawinul, John Zorn. Ma ci sono pure artisti che con una o nessuna scheda va lorto nome (perché magari accompagnatori) svolgono comunque un ruolo primario: sempre nel jazz, alfabeticamente, Louis Armstrong, Joey Baron, Jaki Byards, Don Byron, Ray Charles, Don Cherry, Chick Cotrea, Jack deJohnette, Gil Evans, Ella Fitzgerald, Bill Frisell, Herbie Hancock, Billie Holiday, Dave Holland, Earl Hines, Scott Lafaro, Jaco Pastorius, Bud Powell, Max Roach, John Scofield, Lennie Tristano, Fats Waller: quanto basta in somma per instaurare un gran bel dibattito, assieme agli infinti spunti offerti dalle risposte in quest’intervista inedita,m concepita e realizzata apposta per «Doppio Jazz».

D Hai ripubblicato il tuo longseller, rivisto e aggiornato, dopo circa dieci anni; ieri come oggi ha chi idealmente ti rivolgi? Quale tipologia di lettore/fruitore/ascoltatore ti interessa?

R In questi undici anni il libro ha dimostrato di essere amato da diverse tipologie di pubblico, dal neofita all’esperto, dal jazzofilo al rockettaro, dall’amante di musica classica a quello di elettronica; ma soprattutto sia da melomani sia da audiofili, musicisti e fruitori dell’arte dei suoni. Il sogno era e rimane quello di raccontare attraverso alcuni esempi, come si sia evoluta la storia dell’organizzazione del suono nel secolo scorso.

D Sei in controtendenza rispetto alle guide discografiche ormai sempre più ipersettorializzate (salvo qualche eccezione: anch’io ne so qualcosa). Ti sono costati sacrifici o rimproveri (da parte dei soliti puristi bacchettoni) questo tuo allargarsi a 360 gradi su tutta la musica del XX secolo?

R Mah, semplicemente i ‘talebani’ mi ignorano, non comprendendo la natura e lo spirito di una pubblicazione di questo genere. Continuano a coltivare le loro passioni in modo estremamente circostanziato e con abituale senso di superiorità, convinti che ciò che piace a loro (ovviamente secondo il loro insindacabile giudizio), sarà comunque sempre meglio di qualunque altro stile, corrente o periodo storico. Un’altra fazione penserà l’opposto, per le stesse ragioni.

D Per molti critici questi tipi di guide non servirebbero al neofita che, per avvicinarsi, ad esempio al jazz, non dovrebbe partire dall’hot di New Orleans e Chicago (poi lo swing, il bebop, eccetera fino a oggi) bensì essere folgorato, sulla ‘via di Damasco’, dall’ascolto di un album della Blue Note Records. Tu cosa dici?

R Conoscere il passato e le influenze che hanno portato alla costituzione di una qualunque realtà è l’unico modo di comprenderne le dinamiche espressive. Non si può dimostrare disinteresse per il passato, per ciò che accade fuori dal di cui sopra orticello, nel presente, e/o ignorare o negare un’evoluzione per il futuro. È un approccio sterile e specchio di una totale ristrettezza di vedute che si basa esclusivamente su di una corruzione del concetto di affinità elettiva.

D Un altro problema che hai sollevato nel libro è quello dei supporti tecnologici per la musica riprodotta, di cui comunque ti occupi, per ogni scheda, con dovizie di particolari. In un altro libro appena uscito, l’autobiografia di Sidney Bechet, nella postfazione Stefano Zenni fa notare che i cofanetti di CD (curatissimi sotto ogni aspetto, soprattutto filologico) riguardanti l’opera omnia di questo immenso jazzista sono tutti fuori catalogo e dice di rivolgersi ai mercatini dell’usato per trovare i dischi originari (78 giri, dal 1945 EP e LP) oppure a qualche piattaforma a pagamento dove almeno è garantita la qualità audio. Come la pensi in merito?

R Io amo il supporto fonografico, amo la sua struttura, l’odore della stampa, le grafiche, gli inserti, le note di copertina, soprattutto del formato in vinile. Però, più di tutto, amo la musica. Quello è e deve restare il nostro centro e il nostro obiettivo di melomani. L’Mp3 e altri formati compressi avranno vita breve in quanto lo spazio (ricordiamoci che queste compressioni sono state inventate per poter salvare enormi quantità di dati in supporti di ridotta capacità) sembra non essere più un grosso problema. Sempre di più sono gli appassionati che si rivolgono infatti a piattaforme di streaming ad alta risoluzione. Nel tempo è cambiato radicalmente il concetto di collezionismo, forse anche di possesso, sicuramente di diffusione dell’arte dei suoni. Io consiglio sempre di non andare all’ammasso, ma di cercare d conoscere ciò che si ha. Se poi siete come me, non potrete mai fare a meno del supporto fisico. Comunque. Vale anche per i libri.

D Aggiungo che personalmente non amo la musica liquida, benché la usi in casi estremi. Invece mi sono comprato una fonovaligia dei primi Anni Sessanta a quattro velocità (e due puntine) per ascoltarmi 78 giri di jazz e 45 giri di jazz, pop, rock, folk che mi ha venduto un conoscente. Devo dire che mi soddisfano più questi suoni arcaici che non la ristampa di un 33 giri a prezzo carissimo, dove la manipolazione tecnica è evidente e a uso e consumo degli audiofili impenitenti con giradischi stereo che arrivano a costare anche cifre con quattro zeri (euro, sterline o dollari). Per te quale sarebbe l’ascolto discografico ideale?

R Ogni supporto ha il suo fascino e la sua ragione d’essere. Perfino l’Mp3 è stato importante fino a poco tempo fa… come detto ci permetteva di portare ovunque con noi grandi masse di dati in pochissimo spazio. L’audiofilia può certamente diventare un’ossessione incontrollata. Conosco audiofili con impianti da decine (anche parecchie) di migliaia di euro, che hanno a casa non più di 100 dischi e anche in streaming ascoltano sempre le solite quattro cose. Ma anche in questo caso si tratta di una passione, un po’ perversa forse agli occhi di un appassionato di musica; di fatto però ognuno, con i propri soldi e il proprio tempo, è libero di farci quello che vuole. Certo è che, in quel caso, tali soggetti non possono arrogarsi il titolo di “appassionati di musica”, al massimo di “appassionati di bel suono”. Per non entrare poi nel merito del significato di “alta fedeltà” (su cui tanto ho scritto e ragionato nei miei spettacoli di divulgazione) anche e proprio alle fiere dell’Hi-Fi.

D Torniamo al libro e a questioni di metodo: la scelta dei ‘tuoi’ mille album riguarda la musica del disco come importanza storica o svolta epocale nell’evolversi soprattutto qualitativo e diversificato del linguaggio sonoro. In tal senso hai mai avuto ‘rimproveri’ dai detrattori (magari amanti dell’opera ‘cult’) con la prima edizione? Se sì in cosa ti criticavano, al di là del ‘mi piace o ‘non mia piace’ della pseudocultura di Facebook? Pensi che ci saranno le stesse tipologie ‘negazioniste’?

R A me piacciono le opinioni, anche contrastanti, purché sorrette da un pensiero strutturato e in cui si possano ravvisare dei processi quantomeno logici. Ovviamente vi sono però alcune posizioni che chiaramente hanno a che fare con un bias cognitivo (come va di moda dire oggi). Sostenere per esempio che i Beatles non sapessero suonare o che la loro musica sia stata sopravvalutata e pompata dal mercato (e lo stesso vale per Miles, Ornette, Dylan, Fripp, Eno, perfino su Zappa ne sento di veramente comiche…) dimostra solo di non essere in possesso di effettive competenze nel campo della composizione e/o dell’analisi del costrutto musicale. Poi vi è tutta la componente sociale e di contestualizzazione. Per non parlare di aspetti quali energia, visione, approccio, colore… In alcuni altri casi, invece, le competenze possono anche essere presenti, ma il pregiudizio o la fede cieca in alcune tipologie o stili musicali uccide la capacità di vedere la realtà. Lo so che posso sembrare arrogante dicendo cose come queste, ma il mondo (e soprattutto il Web) è pieno di sedicenti esperti che, all’atto pratico, non saprebbero distinguere un oboe e un clarinetto da un trattore.

D A livello di metodo hai elaborato un doppio triangolo che diventa quasi una Stella di David con al centro l’interplay, concetto jazzistico che tu riesci ad applicare anche alle altre forme musicali: in che modo?

R L’interplay non è assolutamente un parametro puramente jazzistico. Viene a volte descritto con altre definizioni (interazione, concertazione, coordinazione, dialogo strumentale, equilibrio delle parti e delle forme), ma è presente in qualunque forma artistica, non solo nella musica. Ciò che tradizionalmente definiamo con il termine “bellezza” è qualcosa che, a mio modo di vedere, è in strettissima relazione con ciò che, personalmente, identifico con variabili forme di equilibrio. A volte è difficile percepire l’equilibrio in profili a noi non consueti, ma il problema è solo nostro. Ecco perché è necessaria l’applicazione costante per comprendere lingue, linguaggi e metalinguaggi e forme espressive che non sono nemmeno linguaggi. Un vaso di fiori siamo quasi tutti in grado di dire se è dipinto bene, “talmente bene da sembrare quasi vero”, ah ah ah. Ma con l’informale o l’inaudito…

D Ai quattro parametri (melodia, armonia, timbro, ritmo) caratterizzanti l’intera grammatica musicale, tu ne aggiunge altri due di cui è difficile rintracciare – come tu stesso premetti – il carattere scientifico: la dinamica e soprattutto l’espressività: vuoi spiegarle brevemente magari in rapporto a qualche disco jazz famoso?

R In realtà la dinamica è estremamente facile da misurare almeno nella sua accezione più basica. Anzi forse è la più semplice, trattandosi di un fenomeno prettamente fisico, ovvero la differenza tra il pianissimo e il fortissimo. Nell’era degli strumenti elettrificati, però, esce dai parametri abitualmente considerati nell’ambito dell’agogica per divenire un elemento sostanziale nel costrutto della musica. E non solo per le dimensioni estremizzate dall’amplificazione, ma anche per i rapporti di interconnessione tra i vari strumenti. Nel libro cerco di spiegare come funziona il giochino. Per l’espressività parliamo invece della matrice che contraddistingue un artista al di là di timbro e dinamica… delle frasi melodiche e degli accordi. Citando Jerry Garcia: è quella cosa che fa sì che tua nonna ti riconosca se ti sente suonare alla radio. Tutti i grandi ce l’hanno molto pronunciata.

D Nel presentare le centinaia (migliaia se si sommano anche gli orchestrali di ogni formazione) di musicisti, tu dividi la presenza dei musicisti (autori di album) in tre gruppi: 45 musicisti dalla carriera lunga, originale, complessa, poliforme, 31 dalla professionalità diversificata in svariati contesti (non necessariamente da leader), tutti gli altri responsabili di un solo disco epocale. Io personalmente concordo con questa ripartizione che rispecchia anche la quantità del lavoro in rapporto al dato anagrafico: hai trovato ostacoli a mettere in pratica questi tre ‘raggruppamenti’?

R In alcuni casi sì, in altri invece è venuto naturale… Diciamo che inizialmente non mi sono posto dei limiti. Ho iniziato la selezione oltre trent’anni fa… Ho creato un database dove inserivo le varie opere fonografiche, quindi cercavo di descriverne il carattere innovativo e perché… Se non superavano l’analisi venivano parcheggiati in una zona grigia. A volte rivalutati nel tempo. Arrivato a 1000 ho iniziato a fare confronti tra inclusi ed esclusi e avanti così fino alla selezione attuale.

D A differenza di un altro libro epocale con moltissime edizioni, ovvero la Penguin Guide to the Jazz Recordings di Cook & Morton, tu non metti le tipiche stellette da 1 a 5: una scelta meditata, sofferta, necessaria o altro ancora?

R Non sopporto le valutazioni. Ma cosa significano? Ma poi ci sono talmente tanti parametri per giudicare un’opera. E poi queste sono a mio modo di vedere 1000 pietre miliari (selezionate secondo dei parametri che nulla hanno a che fare sul mio gusto esclusivo o sulle vendite o sul gradimento di critici o pubblico), quindi sono tutti primi inter pares… Certo poi alcune sono più “pesanti” di altre, ma questo è ovvio.

D Ho notato una certa disparità nell’inserire dischi di musica colta contemporanea tra i primi tre decenni del secolo e i successivi fino alla quasi assenza negli ultimi due. Anche qui scelta obbligata o altro?

R Perché credo che la musica cosiddetta colta si sia un po’ avvitata su stessa dopo gli anni Sessanta. Il post-Darmstadt ha fatto piazza pulita di tutta una serie di convenzioni, ma al tempo stesso sono stati pochissimi i compositori che hanno saputo fare un passo avanti o uno scarto di lato rispetto al passato. Per assurdo ci sono cose più interessanti in questo scorcio di nuovo secolo, che non negli ultimi 20 anni del Novecento.

D Negli ultimi decenni hai inserito dischi italiani dalla risonanza quasi solo nazionale (Elio E Le Storie Tese ad esempio): una scelta per ‘accontentare’ lettori ed editori italiani o c’è un’altra spiegazione? Te lo chiedo perché, fuori da Regno Unito e Stati Uniti (e in parte America Latina) certe rock star e pop stare sono ‘stelle’ solo in patria.

R Ma il libro non parla solo di dischi famosi, ma spesso di quelli che avrebbero potuto esserlo o che se veicolati in altro modo lo sarebbero stati. Elio E Le Storie Tese sono un caso eclatante. Perché se a un orecchio distratto possono apparire come un’emanazione zappiana, nella scheda relativa spiego invece quali siano le caratteristiche esclusive, riscontrabili anche sul piano internazionale. E lo stesso vale per i coevi N.A.D.

D Riusciresti fra un paio d’anni ad affrontare su libro il primo quarto di secolo del Duemila. Te lo chiedo perché trovo che grazie o meglio a causa delle rete vi sia una dispersione enorme e un’iperproduzione discografica con un’offerta superiore alla domanda. Ad esempio io non riesco a sentire tutti i dischi di jazz italiano che mi inviano ogni anno (e di fronte ai referendum mi trovo in difficoltà).

R Mi piacerebbe molto. In quest’ottica, ho tenuto per anni infatti una rubrica sulla rivista «Jazzit», dove raccontavo di dischi recenti che mi avevano particolarmente colpito. Per compilare un libro però, che altro è rispetto a una seppur blasonata e importante rivista, credo (almeno dal mio punto di vista più vicino alla figura dello storico che del critico) sia necessario un certo distacco temporale per valutare il peso di certe opere. A dire il vero però, sempre per«Jazzit», avevo accettato la sfida lanciatami da Luciano Vanni, di identificare per ogni numero un ipotetico album del futuro. Attraverso la mia esperienza e sensibilità (anche di compositore e musicista) cercavo di identificare quali album avrebbero potuto resistere all’erosione del tempo. Era poco più che un gioco, ma era assai divertente. Chissà magari ci farò un libro… ah ah ah…

Enrico Merlin

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