«We’re All Together Again For The First Time» di Dave Brubeck, Gerry Mulligan, Paul Desmond: ai posteri l’ardua sentenza

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// di Francesco Cataldo Verrina //

.La prima domanda sorge spontanea: chi è il vero titolare di questa impresa, Dave Brubeck (piano), Gerry Mulligan (sax baritono), Paul Desmond (sax alto)? Gli altri due, il bassista Jack Six ed il batterista Alan Dawson erano solo due gregari di lusso. «We’re all together again for the first time», è un buon live, tecnicamente impeccabile, uno di quei prodotti facili e ruffiani che danno l’idea che il jazz non sia poi un affare così complicato e per pochi eletti. Brubeck un valido musicista, che ha fatto avvicinare al jazz anche quelli che cercano nel jazz qualcosa di più masticabile e digeribile, e questo è un bene, ma non ha mai saputo cogliere a mio avviso quella che era l’anima «nera» del jazz, a differenza di altri bianchi come Chet Beker o lo stesso Gerry Mulligan. Registrato nel 1972, durante un tour europeo tra Berlino, Parigi e Rotterdam, il disco in questione, pur professionalmente e tecnicamente impeccabile, è a mio avviso è ridondante, in alcuni tratti da l’idea che ci sia competizione tra i vari protagonisti. Vi do un motivazione quantitativa, c’è uno di troppo: Brubeck e Desmond insieme erano perfetti, così come lo erano (lo furono) Mulligan e Desmond in altre circostanze, tutte e tre insieme eccedono. È come se volessero dimostrare, anche inconsciamente, di essere uno più determinante dell’altro nell’economia del progetto.

Nel disco c’è una freddezza analitica, molto calcolata e tesa al virtuosismo dimostrativo, con assoli lunghi e ripetitivi, e per contro c’è poca sintesi necessaria all’economia di gruppo. Nella versione di «Take Five», alquanto ampollosa, proprio all’inizio: partenza di piano straordinario, subito il sax baritono di Mulligan, quando entra il sax alto di Desmond ricorda il primo sassofono di certe orchestre da music hall (che non è una deminutio capitis), dove il capobanda indossa sempre una giacca blu fosforescente o a quadri come quella di Desmond. «Take Five» fu scritta proprio da Paul Desmond, ottimo contraltista del sax, che con questo brano c’ha fatto una fortuna: la sua fortuna e quella di Dave Brubeck. I due si prendevano alla perfezione ed inventarono a mia avviso questa versione molto smooth del cool jazz. La sonorità del quartetto di Brubeck era caratterizzata dal contrasto tra la politonalità del lavoro pianistico di Brubeck e la voce ariosa del sax di Desmond. Brubeck ne era talmente consapevole che a Desmond veniva proibito per contratto l’utilizzo del pianoforte quando si esibiva come leader in altre formazioni.

«Take Five», che permise a Desmond di campare di rendita e a Brubeck di appropriarsene indebitamente, è un bel pezzo orecchiabile, facile, ma definirlo jazz in maniera ortodossa è un po’ eufemistico, anche se tutto può diventare jazz se opportunamente suonato in certo modo. Nella versione presente nell’album e che apre la seconda facciata, «Take Five» è stata dilatata in maniera spropositata, arriva a durare 16 minuti, ma dopo i primi tre diventa già noiosa: non era consuetudine dei musicisti «cool» della West Coast espandere eccessivamente i brani, liberandosi in assoli lunghi ed improbabili. Ovviamente il punto di eccellenza sono gli inserti e le fughe sempre contenute di Gerry Mulligan, l’unico in grado di tenere il cordone ombelicale legato al jazz. Sembrerebbe ruotare tutto intorno a «Take Five», invece, il meglio dell’album è sulla prima facciata: si parte con «Truth», firmata Brubeck, che pur dilatata in più di dieci minuti, si srotola meglio lungo tutto il percorso: è un funkettone jazzato che crea un atmosfera da film modello «Blaxploitation», la distribuzione delle partiture, ma soprattutto la ritmica nella sua impostazione corre molto sul filo della Fusion.

Siamo nel 1972 ed i condizionamenti sono notevoli A seguire «Unfinished Woman», pezzo scritto da Gerry Mulligan, in cui la band, ritrova la via smarrita, ricordandosi che esiste ancora una parvenza di cool jazz, il lavoro dei sassofoni diventa più ponderato e meno impulsivo; anche se il pezzo è in crescendo, i cavalli di razza non entrano in competizione e Desmond si esprime al meglio; a suggellare la facciata arriva «Koto Song» in una splendida versione lunare, peccato che il pianista suoni musica classica e non jazz, per contro il sax, nell’inserto iniziale, fa un piccolo miracolo e suona «cool» come un tromba in sordina. Sul lato B, dopo, l’interminabile «Take Five, un preambolo, sonoro scritto da Brubeck e chiamato «Rotterdam Blues», introduce la classica «Sweet Georgia Brown», tanto per porre fine, alle solite voci, secondo cui Brubeck non conosceva il blues, peccato l’accompagnamento col battito di mani da parte del pubblico, tipo concerto di Capodanno. Il jazz nei primi anni ’70 stava prendendo traiettorie ardite, la stagione del delirio «free» aveva spostato l’asse dei pensiero dominate verso mondi inesplorati, mentre la fusion cominciava a conquistare la scena, attraverso la contaminazione ed il melting-pot sonoro: era possibile fare qualsiasi cosa vagamente discrepante e chiamarla jazz, pur di non fare o voler fare jazz. Perfino la megalomania dei concerti pop-rock influenzava il jazz nel momento della messa in scena. Si cercava più il contatto fisico con il pubblico e non tanto l’affinità elettiva, il comune sentire, il confronto ideologico e l’elevazione spirituale. Il jazz, perdendo rigore ed austerità, si svendeva sul piano inclinato dello spettacolino sciocco con tanto di accompagnamento da parte del pubblico.

Questo live, «We’re All together Again For The First Fime», risente del clima di quegli anni e va benissimo per i cultori del jazz, va studiato ed analizzato bene per comprendere bene certi fenomeni. Piace a certi rockettari, che vedono nella dilatazione eccessiva dei pezzi da vivo, rispetto agli originali, una sorta di allineamento al mood di quel tempo. Fermo restando che nel jazz esistevano da sempre pezzi originali che occupavano l’intera facciata di un LP, soprattutto in ambito «free». Dave Brubeck (grande musicista, estremamente furbo ed opportunista), come dicevo, ha avuto il merito di far passare per jazz ciò che non lo era, ed a far appezzare il jazz anche a chi ancora oggi cerca di trovarci una sequenza logica ed una struttura a canzone con un ritornello da fischiettare sotto la doccia, non a caso, in epoche recenti, «Take Five» è stato scelto come commento sonoro di un noto spot pubblicitario. Brubeck fu un antesignano del jazz da sala d’attesa per intenderci. È chiaro che il jazz può essere tutto ed il contrario di tutto, spesso il contrario di sé stesso, anche Miles Davis o altre genialità eccentriche l’hanno dimostrato più volte, ma sempre in fase di sperimentazione e di contaminazione. Che poi sia evoluzione o involuzione, ai posteri l’ardua sentenza. Il disco è interessante, ma ci sarebbe un’alternativa.

THE DAVE BRUBECK QUARTET featuring GERRY MULLIGAN, Alan Dawson Jack Six, THE LAST SET AT NEWPORT

Il quartetto di Dave Brubeck, con Gerry Mulligan in veste di guest davvero speciale, da vita ad una memorabile performance, molto ispirata al Newport Jazz Festival del 1971. I quattro furono gli ultimi ad esibirsi, mentre il pubblico si stava già defilando. Le versioni di «Take Five» e «Open The Gates» sono riuscitissime: asciutte, pulite, lineari, e senza tanti orpelli. Il punto più elevato dell’album è però «Blues For Newport» stirata in una lunghissima versione della durata di 16 minuti e 24 secondi, che copre quasi tutta la prima facciata del disco, preceduta da un breve intro di presentazione di circa 40 secondi. Mulligan e Brubeck, supportati dal bassista Jack Six e dal batterista Alan Dawson, si lanciano un una specie di sfida in cui pianoforte e sassofono si alternano mirabilmente, rendendo questo set davvero degno di essere ricordato.

Gerry Mulliga, Dave Brubeck & Paul Desmond
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2 Thought su “«We’re All Together Again For The First Time» di Dave Brubeck, Gerry Mulligan, Paul Desmond: ai posteri l’ardua sentenza

  1. Li possiedo entrambi e, modesto parere personale di appassionato da circa mezzo secolo, non ci vedo una differenza così marcata. Ammetto che “Take Five” di “The Last Set at Newport” sia più brillante anche per merito del “gregario” Dawson.
    Il discorso della lunghezza dei soli non credo che sia una concessione ai fan dei Deep Purple e degli Allman Brothers, tanto per citare due gruppi in voga nel periodo, amati da certi rockettari e pure anche da certi jazzofili, credo che sia proprio nella natura del jazz almeno dall’era del long playing. Anche Freddie Hubbard, Lee Morgan, James Spaulding e soci ci vanno giù “pesante” in “The Night of the Cookers” del ’65 in epoca non sospetta, fatta eccezione per qualche pezzo della Butterfield Blues Band o di John Mayall, cari ai rockettari, visto che il pezzo più corto si aggira sui 19 minuti e mi pare che se la siano cavata piuttosto bene.
    Poi è chiaro che il quintetto/sestetto di Mingus dei primi anni Sessanta che amava eseguire pezzi di lunga durata ha messo in fila capolavori, mentre Brubeck con o senza Desmond ha fatto molti buoni album, in qualche caso oltre, direi verso l’eccellenza, ma non dei capolavori.
    Comunque All Music Guide assegna quattro stelle ad entrambi, mentre Cook e Morton curatori della Penguin Guide, in genere piuttosto severi, assegnano solo tre stelle.
    P.S. mi sarebbe piaciuto che a quel bel quintetto si fosse aggiunto il clarinettista Bill Smith, musicista inopinatamente dimenticato ed eccellente collaboratore di Brubeck tanto quanto i due sassofonisti bianchi.

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