«Meanwhile / The Baggage Room Vol. 2» di Emiliano D’Auria: trame sonore senza confini (Via Veneto Jazz, 2025)
Emiliano D'Auria Quintet
La qualità del progetto risiede nella capacità di trasformare l’esperienza condivisa in materia sonora precisa, e nella scelta di una scrittura che, senza proclami, porta il racconto al livello dell’ascolto consapevole. In questo capitolo, l’arte di D’Auria mostra una coerenza che convince ed una lucidità che invita a restare dentro il fluire della musica, nel riflesso di storie che continuano a chiedere voce.
// di Francesco Cataldo Verrina //
Nell’iter che conduce da «The Baggage Room» a «Meanwhile / The Baggage Room Vol. 2» si avverte una continuità di pensiero che non ripete, ma amplia la matrice narrativa, convertendo il tema migratorio in una fenomenologia della trasformazione personale e collettiva. Ellis Island funziona come emblema di transito e di rigenerazione, non come reliquiario: un luogo mentale dove la memoria si traduce in azione, ed in cui l’energia sociale diventa scibile sonoro condiviso. La scrittura di Emiliano D’Auria, radicata a New York e maturata in un ambiente creativo stratificato, procede con lucidità formale, chiamando a raccolta un quintetto che accende l’interplay come risorsa di significato, piuttosto che come semplice ornamento. La biografia di Emiliano D’Auria, dalla formazione al Saint Louis di Roma e al Conservatorio A. Casella dell’Aquila fino ai lavori con Jano Quartet, «In Equilibrio» e «First Rain», testimonia una cura per la struttura formale e per la ricerca di un ordine interno che non irrigidisce il gesto, ma lo rende intelligibile. «Meanwhile / The Baggage Room Vol. 2» s’innesta nell’alveo di questa disciplina, facendo leva su un quintetto versato e tecnicamente raffinato, ma soprattutto mostrando una maturità compositiva che preferisce la chiarezza alle iperboli, la relazione alla sovradeterminazione.
«The Baggage Room» fissava il vestibolo dell’esperienza migratoria, il momento di attesa e di verifica; il nuovo capitolo orienta lo sguardo verso la prassi quotidiana, verso le storie che si sedimentano nelle città, nei lavori e nelle lingue condivise. Le nove composizioni del primo volume rimandavano a una matrice newyorkese evidente, con pulsazione propulsiva e richiami mediterranei sul piano melodico, e con un retroterra afroamericano che dava corpo alla narrazione. «Meanwhile» rilancia quelle coordinate, ma le spinge dentro un campo relazionale più aperto, dove l’energia di New York agisce da catalizzatore e la forma prende consistenza nei dettagli: infiorescenze ritmiche, risposte contrappuntistiche, geometrie timbriche misurate e una disciplina del silenzio che circonda le frasi e ne valorizza il respiro. Il colore sonoro dell’ensemble si connota per una trasparenza vigile, senza compiacimenti. Dizack colloca la tromba in una sfera luminosa, con attacchi esatti e un vibrato trattenuto; Stephens porta una eloquenza misurata e una cadenza che respira nel medio registro; Rosato stabilisce una base che non grava, bensì orienta; Abadey innesta una gamma dinamica che preferisce la spinta laterale alla verticalità; D’Auria integra tutto con un pianoforte che pensa la forma mentre parla la frase. Ne nasce un ambiente sonoro coerente, dove ogni intervento pesa, e dove il racconto musicale procede con passo fermo e flessibile.
«Timeless Threads» è un opener spronato dal moto elastico del basso acustico e del set percussivo, che stabiliscono una trama regolare sfasata da piccoli scarti metrici. Il pianoforte introduce cellule accordali dilatate, mentre tromba e tenore intrecciano, anzi, fanno dialogare, linee parallele che suggeriscono filamenti temporali sovrapposti. L’intreccio tematico trasforma la linearità in stratificazione, con corrispondenze motiviche che alludono a geometrie visive e, in seno all’ensemble, distribuzioni di ruoli mai rigide. L’andamento mantiene una tensione misurata, con accenti laterali che sorreggono l’evoluzione armonica. «Chasing The Flicker» emerge lentamente alla stregua di un componimento centrato su figurazioni lampeggianti, in cui brevi nuclei s’accendono e si dissolvono. La batteria di Kush Abadey moltiplica gli incastri tramite poliritmie discrete, mentre Jacopo Ferrazza presidia il centro tonale con passo fermo. La tastiera articola progressioni spezzate, mentre i fiati rincorrono il bagliore con frasi sfalsate, al punto che il crescendo s’innalza per accumulo di materiali modali. La chiusura resta in bilico, evitando risoluzioni ovvie e lasciando un margine di attesa. La title-track, «Meanwhile», diventa il nodo concettuale del lavoro, con il profilo melodico assegnato alla tastiera che espande con chiarezza l’idea iniziale. Tromba e tenore costruiscono risposte complementari, alternando appoggi brevi ed aperture ampie, mentre il sostegno ritmico rimane terso, favorendo uno spazio narrativo limpido e temperato. L’ordine interno trasforma l’esperienza condivisa in un racconto sonoro con rilievi dinamici e con disegni armonici che privilegiano la luminosità vigile. L’impressione complessiva è quella di una mappa di relazioni in cui ciascun intervento abbia un peso specifico. «Entr’acte #1» costituisce un intermezzo conciso, respiro collocato fra due capitoli. Tastiera e basso acustico delineano un frammento in equilibrio instabile, mentre le percussioni suggeriscono un moto accennato. Si potrebbe parlare di funzione di soglia, che prepara la successiva espansione senza interrompere il flusso. Breve ma incisivo, con risonanze trattenute e contorni nitidi. «Embracing The Question» delinea una pagina di ampiezza controllata, nella quale Dayna Stephens avvia una linea interrogativa, che piega la frase verso la parola. Il pianoforte risponde con accordi stratificati; tromba e basso tessono variazioni che mantengono il campo aperto e la batteria valorizza pause e silenzi, traslandoli in segni di punteggiatura formale. La tensione permane, piuttosto che chiudersi, mentre il dubbio diventa motore creativo che alimenta una progressione meditativa. La coda conserva una luminosità sobria.
«Distance» rappresenta una Struttura tematica germinativa che lavora su intervalli dilatati ed aperti a spazi melodici di forte impatto suggestivo. La tastiera li popola con passaggi armonici calibrati. Ferrazza sostiene con precisione tonale, Abadey inserisce accenti laterali che spostano il baricentro, e il tenore affiora con controlinee discrete. La lontananza si traduce in scarti di tonalità e dissolvenze, con un profilo acustico terso e privo di compiacimenti. Chiarezza di intenti, senza enfasi superflue. «Entr’acte #2» è ponte breve costruito su frammenti ritmici in primo piano: percussioni e basso definiscono micro-pattern che s’interrompono e ripartono. La tastiera inserisce cluster asciutti, mentre i fiati restano sul bordo, quasi fossero ombre timbriche. Siamo alla funzione di alleggerimento e rilancio, con taglio essenziale. L’episodio custodisce un senso di transito rapido e necessario. «Savoring Life’s Journey» emerge come un componimento di tono meditativo e dal profilo melodico chiaro e contenuto. La tastiera adopera arpeggi discreti; tenore e basso ampliano la tessitura con movimenti dolci, e la batteria stende pennellate leggere che favoriscono una trazione costante. La riflessione si fa canto senza indulgere, grazie a un ordine interno che privilegia misure precise ed una coloritura sonora frugale: un finale raccolto con risonanze calde. «Half Dreaming» si staglia in bilico fra veglia ed immaginazione: la tastiera introduce figure oniriche, i fiati rispondono con frasi frammentate, quasi funkified. Basso e percussioni mantengono una scansione irregolare che suggerisce un ritmo interiore cangiante. L’aura fonica si mostra suburbana, con velature acustiche e contorni sfumati, mentre la narrazione procede per lampi piuttosto che per blocchi compatti. La sensazione è quella di una perlustrazione consapevole, mai vaga. «Entr’acte #3» costituisce l’intermezzo più ampio, nel quale la tastiera articola un modulo che s’innesta su piccole variazioni interne. La batteria distribuisce accenti asimmetrici; basso e fiati completano la tessitura con tratti minuziosi, quasi free form. Siamo alle prese con una cesura che prepara la conclusione, diffondendo un clima di attesa vigile, in equilibrio fra essenzialità e dettaglio. «Echoes Of The Past» suggella l’album, rievocando memorie senza didascalie o un congedo netto privo di retorica: il tenore porta la linea principale, mentre tromba e tastiera scolpiscono un dialogo che accenna a echi lontani. Basso e percussioni sorreggono con discrezione operosa, lasciando spazio alla qualità evocativa. Il ricordo diventa materia sonora concreta. Siamo all’atto finale che consegna all’ascoltatore una prospettiva che guarda indietro per orientare il presente. A conti fatti, la musica di «Meanwhile» non ricostruisce un museo di memorie, piuttosto attiva una mappa di relazioni dove il transito diventa destino e dove la forma tiene insieme provenienze, lingue e desideri. La qualità del progetto risiede nella capacità di trasformare l’esperienza condivisa in materia sonora precisa, e nella scelta di una scrittura che, senza proclami, porta il racconto al livello dell’ascolto consapevole. In questo capitolo, l’arte di D’Auria mostra una coerenza che convince ed una lucidità che invita a restare dentro il fluire della musica, nel riflesso di storie che continuano a chiedere voce.

