Morto Hal Galper, pianista non convenzionale, dalla mente acuta e dalla mano visionaria
Hal Galper
Galper non ha rivestito soltanto la sagoma di un interprete o di un gregario prezzolato: anche come sideman diventava un insostituibile suggeritore, compositore ed arrangiatore. Hal è stato un pensatore musicale, un artigiano del tempo e un architetto del fraseggio.
// di Francesco Cataldo Verrina //
Un’altra figura eminente del jazz del dopoguerra ci ha lasciati: il 18 luglio 2025 si è spento Hal Galper, pianista dalla mente acuta e dalla mano visionaria, collaboratore stretto di Cannonball Adderley, Phil Woods, Chet Baker e dei fratelli Brecker. La sua scomparsa, avvenuta nella quiete della residenza di famiglia a Cochecton, nello stato di New York, chiude un capitolo fondamentale della storia del pianismo jazzistico, ma lascia intatta una eredità musicale e teorica che continuerà a risuonare nelle aule, nei palchi e nelle menti di chi ne ha seguito il cammino.
Il pianista, originario del Massachusetts, classe 1938, non ha rivestito soltanto la sagoma di un interprete o di un gregario prezzolato: anche come sideman diventava un insostituibile suggeritore, un compositore ed un arrangiatore sopraffino. Hal è stato un pensatore musicale, un artigiano del tempo ed un architetto del fraseggio. Il suo range creativo, ampio ed articolato, risulta disseminato in oltre novanta registrazioni, di cui più di trenta da band-leader, a testimonianza una ricerca incessante, una tensione verso l’essenziale ed una volontà di superare i confini del già detto. Lungo l’arco di una carriera, che ha attraversato più di sei decenni, Hal Galper ha sviluppato un linguaggio pianistico che si distingue per un’opulenza ritmica ed armonica fuori dal comune, una tensione interna costante e una concezione del tempo che sfugge alla metrica convenzionale. Il suo tocco, incisivo e stratificato, si fonda su un impianto tecnico solidissimo, ma è soprattutto il fraseggio che scaturisce scaturisce a renderlo un caso a sé. Egli non si limita ad articolare le note, le scolpisce nel flusso temporale, piegando la pulsazione ad una logica interna che si nutre di accelerazioni, sospensioni e rilanci. Nelle performance in piano trio degli ultimi decenni, in particolare con Jeff Johnson e John Bishop, Hal ha portato a compimento la sua concezione del «Rubato Jazz», una prassi esecutiva che dissolve la metrica in favore di una libertà espressiva controllata, in cui ogni gesto sonoro diventa frutto di una scelta meditata.
Il cosiddetto «Rubato Jazz», da lui teorizzato e praticato con coerenza, non costituisce comunque un vezzo stilistico, ma una vera e propria grammatica interpretativa. In tale contesto, il tempo non rappresenta una griglia, ma una materia elastica, che si tende e si rilassa secondo le esigenze espressive del discorso musicale. L’ approccio galperiano trova la massima espressione nei lavori del trio con Jeff Johnson al contrabbasso e John Bishop alla batteria, in particolare negli album Furious Rubato (2007), Trip the Light Fantastic (2011) e Cubist (2018). In queste incisioni, Galper non cerca l’effetto, ma la profondità. Ogni gesto pianistico si sostanzia come il risultato di una riflessione formale, ogni intervallo è carico di intenzione. Tra gli album più significativi, The Guerilla Band (1971) e Wild Bird (1972) testimoniano un momento di fervore creativo in cui il pianista si lascia trascinare dalla corrente fusion, affiancato dai fratelli Brecker. Questa esperienza segnerà il passaggio ad un pianismo più elettrico, in cui Galper non smarrisce mai l’articolazione ed il senso di orientamento jazzistico. Per contro, la scrittura appare serrata e le strutture complesse, mentre l’interazione con gli altri strumenti risulta sempre dialettica e mai decorativa.
Con Reach Out! (1977), Galper torna all’acustico ed inaugura una stagione di provata maturità. L’album, inciso per la SteepleChase, mostra un equilibrio raro tra impeto e controllo, con una tavolozza timbrica che si arricchisce di sfumature liriche ed contrappunti interiorizzati. Speak With a Single Voice (1979), pubblicato dalla Century, prosegue su questa linea, ma con una maggiore tensione formale: le progressioni armoniche si fanno più ardite, il fraseggio più spezzato e l’interazione con i fiati (ancora i Brecker) raggiunge momenti di vera trascendenza. Negli anni ’90, il pianista di Salem (Boston) si dedica con intensità alla dimensione del trio, tanto che Portrait (1989), Invitation to A Concert (1991), Tippin’ (1993) e Rebop (1995, con Jerry Bergonzi) testimoniano una fase di riflessione e sintesi. Il questa fase il pianismo si fa più rarefatto, ma non meno incisivo: il pianista lavora per sottrazione, lasciando che il silenzio diventi parte integrante del discorso musicale, attraverso uno stile, che pur radicato nel bebop, non si lascia mai ingabbiare da formule stantie o da tentazioni devianti. Galper aveva assorbito la lezione di Bud Powell e McCoy Tyner, rielaborandola in una sintassi personale, in cui la verticalità armonica convive con una spinta orizzontale incessante. Di certo un personaggio da scoprire. I più distratti e quanti l’hanno hinora ignorato potrebbero trovarlo sorprendente, poiché sua musica non cerca il consenso, ma la verità del gesto, dove ogni nota risulta necessaria, ogni pausa è pensata, ogni accento diventa parte di un disegno più ampio.

