Dischi scelti a caso e blindfold test: Andrew Hill con «From California With Love» (Artist House, 1978 /1979)
…un pianista in mezzo al guado tra tonalità e assoluta libertà armonica, anzi disarticolazione armonica, tra voglia centrifuga di fuggire dalla tradizione e necessità di rimanervi ancorato, la cosiddetta forza centripeta…
// di Marcello Marinelli //
L’idea dei dischi scelti a caso con il connesso «blindfold test» fa un’altra vittima illustre (vittima si fa per dire, era solo per evidenziare la scelta casuale e io non sono un carnefice). Quando lo metto sul piatto e la puntina comincia a decifrare i solchi del vinile constato che si tratta di solo piano. Sarà solo il primo brano o tutto il disco sarà in solitaria? Dopo alcuni minuti propendo per la seconda ipotesi e parafrasando il grande Corrado Guzzanti mi dico: «La seconda che ho detto». Trattasi di un disco per solo pianoforte. Anche se sono soltanto alla prima facciata, l’andazzo solitario s’intuisce. Chi sarà mai questo pianista che incede in maniera obliqua e frammentata, oserei dire sperimentale (anche se il termine sperimentale credo sia caduto in disuso, ma in preda a una nostalgica e approssimativa definizione corro il rischio di essere antiquato).
Cerco di intuire di chi si tratta. Il primo pianista che mi viene in mente, dalle note a grappolo che produce, in preda ad ansia da prestazione, è Keith Jarrett. Dopo pochissimo, scarto questa ipotesi e capisco di aver sbagliato bersaglio. Ho preso un granchio ma almeno ho qualcosa per pranzo. Non è il pianista ipotizzato, mi viene in mente Andrew Hill ma non ricordo di avere un disco solo del pianista e scarto anche questa ipotesi. Allora chi sarà? Non riesco a individuarlo e miagolo nel buio e mi lascio andare dal fluire della musica. È un pianista in mezzo al guado tra tonalità e libertà assoluta armonica, anzi disarticolazione armonica, tra voglia centrifuga di fuggire dalla tradizione e necessità di rimanervi ancorato, la cosiddetta forza centripeta. Mi arrendo, vado a vedere di chi si tratta: è Andrew Hill e quel pensiero che pensavo sbagliato è giusto. Diciamo che questo desiderio di esserci e di fuggire caratterizza non solo la musica del pianista, ma è anche un tratto caratteristico di noi umani e della nostra ambivalenza comportamentale e di relazione, un susseguirsi di ancoraggi e disancoraggi, il volere un approdo e desiderare una navigazione a vista. Faccio una forzatura tra musica e psicologia, ma tutto l’universo appare concatenato e mi lascio andare all’arbitrarietà del mio pensare.
Andrew Hill non passa per essere uno specialista del piano solo, al suo attivo ha questo disco e con lo stesso repertorio di quella seduta alla Fantasy Record Los Angeles del 1978 un cofanetto di tre dischi edito dalla Mosaic Record col titolo «Mosaic Select 23: Andrew Hill – Solo» che conteneva tutto il materiale registrato. Il resto di piano solo risulta tratto da singoli brani di dischi registrati con svariati gruppi. Questo lato del disco è un’unica composizione di venti minuti che dà il titolo all’album «From California With Love». Sulla base ritmica di questa composizione, il noto cantante della West Coast, 2Pac, ha scritto un inno al famoso stato sull’oceano indiano «California love». Ovviamente visto il lato di scomposizione ritmica del pianista, 2Pac non avrebbe mai potuto comporre il suo brano, la mia era una fake solo per stabilire connessioni altre tra generi che in questo caso hanno in comune solo la California e l’appartenere alla grande ed estesa famiglia afroamericana. Ironia della sorte ambedue gli artisti non erano nativi dell’Ovest: Andrew Hill era nato a Chicago e 2Pac a New York, ma ambedue trasferitisi in California per motivi diversi, nei loro brani esprimevano l’amore per quella terra che li aveva accolti.
Il lato introspettivo e per certi versi meditativo del disco del pianista forse era anche dovuto al momento particolare che il musicista stava vivendo. Sua moglie Laverne Gilette Hill, organista e cantante, era gravemente malata. Qualcuno ha voluto vedere nelle pieghe recondite del disco una sorta di lettera d’amore verso la consorte, ma questo rimane nell’imperscrutabilità del pensiero umano. La compagna venne omaggiata su un brano dell’album «Invitation» del pianista in trio del 1974 intitolato «Laverne». Il lato B «Reverend Dubop» dura «solo» diciotto minuti: quando il termine «solo» ha due valenze diverse. All’inizio mi sembra udire la citazione di «Summertime» di Gershwin, anche se il brano risulta smontato e scomposto, ma perché allora intitolarlo «Reverend Dubop»? Le cose sono due. La prima è che ho preso un abbaglio frutto delle mie reminiscenze anni ’70 dovute all’abuso di acido lisergico, ma io non ho mai fatto mai uso dell’LSD, quindi escludo questa ipotesi (cioè escludo solo l’uso della sostanza stupefacente non il fatto che mi sia potuto sbagliare). La seconda spiegazione è che non la so e mi arrendo all’evidenza del non sapere.
È bello scrivere di musica ascoltando un disco, si sviluppa l’attenzione e si cerca di scoprire tra le sue pieghe musicali qualche rimando o qualche associazione libera. Sono contento di affidare al caso la disamina di un disco e allora mio malgrado ascolto con avidità il frutto del destino e me ne abbevero; magari sarà anche l’ultima volta che lo ascolto vista la mole di materiale a disposizione. Allora citando il suo famoso album del 1964, il suo capolavoro «Point Of Departure», ora mi accomiato con il mio arrivo alla fine del tragitto di esplorazione di questo album e faccio mio il Point de conclusion: «Au revoir mon lecteur hypothétique!».

