«Dark Sides»: le ombre sonore di Roberto Ottaviano, estetica della resistenza e coscienza fonica del presente (Dodicilune, 2025)
«Dark Sides» non si limita a documentare l’attività di un ensemble, ma piuttosto sancisce un’opera che interroga il presente, dove ogni nota diventa gesto di restituzione, ciascun episodio sonoro si fa riflessione e qualunque scelta timbrica si trasforma in atto di responsabilità estetica.
// di Francesco Cataldo Verrina //
Il percorso di «Dark Sides» si colloca all’interno di una linea europea che negli ultimi decenni ha saputo coniugare elementi della tradizione con i linguaggi tecnologici, concimando un terreno fertile per l’interazione fra strumenti di differente estrazione. Tale pratica non si riduce ad una semplice contaminazione, ma piuttosto riforma un tessuto culturale finalizzato a connettere memorie popolari, ritualità mediterranee, radici balcaniche e suggestioni elettroniche, generando un intreccio sonoro che riflette la complessità del continente. La dimensione transnazionale emerge nel modo in cui le fonti musicali vengono rielaborate. L’interdisciplinarità non riguarda soltanto la fusione di strumenti acustici ed elettronici, ma si estende alle connessioni con la filosofia, la letteratura e le arti visive, in un dialogo che trasforma la musica in uno spazio di riflessione collettiva. In questo senso, il jazz europeo contemporaneo si presenta come laboratorio di linguaggi, dove la ricerca timbrica e l’uso delle tecnologie, lungi dal voler cancellare la memoria, la rilanciano in una prospettiva che unisce sensibilità locali e visioni globali.
Il nuovo progetto di Roberto Ottaviano, pubblicato da Dodicilune, si colloca nell’alveo di una ricerca, che non si limita a ribadire la lunga esperienza del sassofonista pugliese, bensì ne rilancia la l’attitudine genetica a coniugare tradizione e sperimentazione. In «Dark Sides» il soprano ed il clarinetto alto si annodano all’oud di Peppe Frana, alle trame elettroniche di Luca «DJ Rocca» Roccatagliati, al contrabbasso, alle elaborazioni digitali di Giorgio Vendola ed alla percussività articolata di Ermanno Baron. La compagine si caratterizza come un opificio sonoro, dove la dimensione acustica e quella elettronica non si contrappongono o si elidono, ma si fondono in una trama esecutiva che si dischiude a nuove prospettive. Il concept assume l’idea di una postura mobile che attraversa latitudini culturali e geografie armoniche. Dall’oud affiora un colore mediorientale, mentre i processi digitali – loops, sampling e modulazioni – riverberano un paesaggio fonico che si staglia tra evocazione ed analisi critica. Il portato sonoro diventa così gesto consapevole, atto di resistenza contro la riduzione estetica e la tentazione autoreferenziale. La selezione dei componimenti eseguiti rivela una pluralità di fonti e di intenzioni. A questi si aggiungano gli originali di Ottaviano, i quali, oltre ad esibire un’acclarata padronanza tecnica, si dipanano nel respiro di una memoria policentrica. La tracklist si solidifica alla stregua di un lotto di idee malleabili che oscillano tra denuncia e contemplazione. Ciascuna pagina sonora si delinea come testimonianza e frammento di un discorso che affronta le ombre del presente – genocidi, manipolazioni finanziarie e avidità sistemica – convertendole in materia estetica. La scrittura di Ottaviano, di robusta formazione e tecnicamente raffinata, si avvale di un sistema sintattico che non rinuncia alla libertà improvvisativa, ma la incanala in impalcature tematiche in grado di intessere connessioni con altre forme d’arte. L’uso calibrato delle elettroniche, scevre dal mero ornamento, diventa parte integrante di un’architettura armonica che si appella alla pittura contemporanea e alla letteratura d’avanguardia. Nel fluire delle composizioni, il colore sonoro si trasforma in fisionomia acustica, mentre la trama espressiva si fa memoria e la musica assume il ruolo di coscienza vigile.
In «A Long Deception» si avverte subito la tensione di un linguaggio che smaschera l’inganno, dove una voce rarefatta si unisce all’oud e all’elettronica per tracciare linee oblique e contrappunti liquidi, quasi ad evocare un teatro dell’assurdo, dove l’incomunicabilità umana recita a soggetto. La successiva «Preachers And Merchants» amplifica il contrasto tra predicazione e mercatura, dove il l’ancia di Ottaviano, con la complicità dell’oud e di una percussione inarrestabile, dispone un fraseggio che richiama una casba ipnotica, mentre le pulsazioni digitali insinuano un mercato sotterraneo ed un luogo di scambio trasversale. «Gabriel’s Message», derivato dal canto natalizio basco «Birjina gaztetto bat zegoen», apporta una dimensione spirituale, con l’oud che disegna arabeschi delicati, mentre Ottaviano s’innalza in un registro luminoso, evocando l’Annunciazione come quadro rinascimentale, sospeso tra devozione e contemplazione. La title track «Dark Sides» si colloca invece nel cuore del progetto, con un tessuto sonoro che richiama le ombre della contemporaneità: il clarinetto basso genera un’aura di tensione urbana, mentre il contrabbasso di Vendola opera come radice profonda, assecondato dalle elettroniche che aprono fenditure indirizzate verso paesaggi urbani notturni. In «Musk Aroma Therapy For Trumpeters», Ottaviano sospinto da una ridda di percussioni, gioca con ironia e provocazione, trasformando il profilo acustico in materia olfattiva e danza tribale al contempo, come se la musica potesse farsi essenza volatile, per poi ricadere sulla terra, divenendo elemento fisico e tangibile. «Syte» porta con sé la memoria balcanica, con un ritmo cadenzato che si articola e si spezza, mentre la malinconia s’insinua nelle pieghe melodiche, riportando alla mente danze popolari e rituali collettivi.
«Waiting The Flood» dispiega un’attesa inquieta, scandita un tempo sospeso, mentre l’ordito strumentale suggerisce un imminente catastrofe. «Bridal Ballad» di Jocelyn Pook, proveniente dall’adattamento de «Il Mercante di Venezia» apporta una bellezza fragile, dal sapore vagamente scandinavo, dove la voce strumentale si piega ad un lirismo che cela un’inquietudine sottile, come in un dramma shakespeariano che non concede tregua. «Spinosa Lacrimae» procede nel solco della filosofia, evocando la tensione tra ragione e sentimento: il sax soprano si fa voce meditativa, mentre l’inteccio percussivo imbastisce un tessuto che ricorda la scrittura geometrica di Spinoza, ma attraversata da da profondi scandagli interiori. «If You Want to Tell Me Something (Shout Up)» emerge da sottosuolo, emanando una quiete instabile che si traduce quasi in un manifesto di pacifica ribellione, amplificata dall’elettronica che s’incarna in un perforante grido collettivo. Infine «Goin’ Home», tratto dalla Sinfonia «Dal Nuovo Mondo» di Dvořák, chiude il percorso con un ritorno che non è semplice nostalgia, bensì ricerca di un altrove interiore. La melodia si distende come cammino verso una patria immaginata, mentre gli strumenti dialogano in un intreccio che restituisce la memoria di un mondo perduto. «Dark Sides» non si limita a documentare l’attività di un ensemble, ma piuttosto sancisce un’opera che interroga il presente, dove ogni nota diventa atto di restituzione, ciascun episodio sonoro si fa riflessione e qualunque scelta timbrica si trasforma in atto di responsabilità estetica.

