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Nel contesto del jazz contemporaneo, «Out Late» si colloca tra quelle produzioni una tantum – frutto di una sorta di allineamento astrale – portatrice di un’assertività strumentale e di una raffinatezza stilistica paragonabili ai momenti più brillanti dell’era Marsalis.

// di Francesco Cataldo Verrina //

Eric Scott Reed, negli anni Novanta pianista di fiducia di Wynton Marsalis, è giunto al suo trentunesimo disco come band-leader. «Out Late» è un album che cattura l’essenza della New York sotterranea ed appartata, evocandone le conurbazioni polarizzanti, la vitalità cinetica, l’intima connessione tra i jazzisti che di notte vagano di locale in locale e, soprattutto, il loro modus vivendi: svegliarsi al tramonto per andare a dormire all’alba. Il Parini avrebbe detto: «A te i lumi chiuse il gallo che li suole aprire altrui». Il titolo stesso è un riflesso di due realtà: da un lato il mondo dei musicisti che vivono ed agiscono nottetempo, dall’altra la catarsi personale di Reed, che attraverso questo progetto racconta un percorso di autoaccettazione e autenticità. Ciò che distingue «Out Late» da molti prodotto coevi è la sua spontaneità, quasi da jam session: nessun artificio, nessun ritocco digitale, solo la purezza del distillato creativo dell’ensemble che agisce insieme in presa diretta, sviluppando un’esalazione sonora cruda e palpabile. Questo processo creativo richiama il modo in cui i patriarchi del jazz post-bellico – come Coleman Hawkins, John Coltrane, Sonny Rollins, Charlie Parker, Thelonius Monk, Bud Powell – approcciavano la musica, con il rischio e l’imperfezione quali strumenti di espressione e di validazione, più che ostacoli da evitare.

L’album porta con sé l’eredità del jazz dei club fumosi e delle sale nascoste negli angiporti metropolitani, ma non si limita a disegnare un quadretto nostalgico: è un’opera viva, radicata nella storia ma pulsante nel presente. La capacità di trasportare l’ascoltatore al nucleo gravitazionale di varie fasi evolutive del jazz moderno, è il segno distintivo di una sessione che non vuole solo essere ascoltata, ma intende essere vissuta, almeno compresa. Nel contesto del jazz contemporaneo, «Out Late» si colloca tra quelle produzioni una tantum – frutto di una sorta di allineamento astrale – portatrice di un’assertività strumentale e di una raffinatezza stilistica paragonabili ai momenti più brillanti dell’era Marsalis. La sua capacità di aprirsi lentamente, di rivelare nuove sfaccettature ad ogni cambio di passo, lo rende un album destinato a non passare inosservato. Quello di Eric Scott Reed si sostanzia come un jazz che soffre, respira, gioisce, vive e sorride. Registrato con un quintetto stellare, tra cui Nicholas Payton alla tromba, Eric Alexander al sax tenore, Peter Washington al basso e Joe Farnsworth alla batteria, «Out late» riverbera fra i solchi l’atmosfera vitale di una New York crepuscolare, lontana di rumori assordanti del prime time, ma pregna di stimoli, voci suoni, rumori e colori, condensati e restituiti dal line-up di Scott attraverso una miscellanea di forza espressiva ed di eleganza formale

L’opener, «Glow» prende corpo sulla scorta di un’introduzione luminosa e delicata, con il pianoforte di Reed che arreda una habitat intimo e confortevole. Il dialogo fra tromba e sax scava in profondità. puntando al quell’enclave mistica situata tra finzione e realtà, tra studio e live, che solo una presa diretta può surrogare, o comunque rendere verosimile. «All’umfrs» è un compost tensioattivo, dal groove incisivo e con un interplay circolare tra i musicisti di prima linea, mentre la sezione ritmica indica le coordinate del movimento con estrema fluidità. «Shadoboxing» si segnala sin dalle prime battute come un inquieto scandaglio ritmico e armonico, con fraseggi complessi ed un senso di tensione che si risolve in momenti di pura improvvisazione. «They» appare come un costrutto brunito e riflessivo, caratterizzato da melodie malinconiche e da un uso evocativo degli spazi sonori, in cui il pianoforte di Reed risulta particolarmente espressivo. La title-track, «Out Late», incarna perfettamente il tema dell’album: una celebrazione della vita notturna e della libertà esecutiva, con un sound caldo e viscerale. «The Weirdos» è una perifrasi lenta e dinoccolata, ma più audace e sperimentale, con cambi di ritmo inaspettati ed una struttura che sfida le convenzioni del jazz straigh-ahead. «Delightful Daddy» suggella l’album con un finale di seta finissima corroborato da un interplay garbato, privo di qualunque tentativo di subornazione fra i sodali, ma ricamato da una melodia perdurante ed a lunga scadenza. L’album, nel suo complesso, è un’escursione fra luci ed ombre, un gioco di squadra alimentato da rotazioni esecutive chiaroscurali che descrivono le varie sfumature della notte, mentre ogni singola traccia aggiunge un tassello multiforme alla circonvoluzione di Reed.

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