Woody Herman e Arrigo Polillo Milano 1969

Woody Herman e Arrigo Polillo Milano 1969

// di Guido Michelone //

D Che ricordo hai di tuo padre quando eri bambino?

R Era un padre aperto, scherzoso, ma poco presente in famiglia. I ricordi sono concentrati soprattutto nei periodi estivi, quando andavamo in vacanza. Mio padre amava molto la montagna, e ci portava a fare un sacco di gite nei monti. Cambiavamo posto ogni anno, nelle Dolomiti o in Piemonte. Fra i miei dodici e i miei diciassette anni, organizzò numerosi viaggi, nei quali portava mia madre, me e mio fratello Marco a visitare l’Italia e un po’ anche l’Europa. Amava molto l’arte, soprattutto l’architettura romanica e gotica, e organizzava questi viaggi in cui visitavamo un sacco di chiese e castelli, in Italia, in Svizzera, in Francia, in Germania, Austria. Io ho visto l’Italia – praticamente tutta – soprattutto in questo periodo: quando poi ho viaggiato da solo sono stato soprattutto all’estero.

D Come fanno certi papà con le fiabe, Arrigo ti ha mai raccontato le storie dei jazz prendendoti sulle ginocchia?

R Forse quando ero molto piccolo lo faceva, ma non lo ricordo. Ricordo invece che scherzava molto con mio fratello Marco, più piccolo di me di tre anni, ma sicuramente non gli parlava di jazz. Peraltro Marco non ha mai amato il jazz.

D Tu come sei arrivato a interessarti di jazz?

R Casa mia era piena di jazz. Quando mio padre era a casa, il giradischi era perennemente acceso, e la musica era al massimo volume. Nei primi anni mio padre – che aveva iniziato a fare l’avvocato – aveva lo studio a casa. Ma ben presto (nel 1958, io avevo 12 anni) incominciò a lavorare in Mondadori, prima come assistente di Arnoldo Mondadori, e poi come dirigente – fece il direttore del Personale per molti anni. Allora, appena rientrava dall’ufficio, incominciava il suo secondo lavoro: la redazione della rivista Musica Jazz e la organizzazione di concerti. La musica suonava fino a notte: ascoltava i dischi che recensiva nei suoi articoli. È stato inevitabile che mi interessassi di jazz. Ero un ragazzo timido ma molto interessato alla cultura. Allora leggevo la enciclopedia del jazz a cui mio padre aveva lavorato e ascoltavo i dischi di cui si parlava. La discoteca di casa era molto ricca: mio padre riceveva moltissimi dischi per le sue recensioni.

D Com’è stata la prima volta, sedicenne, quando tuo padre ti ha portato con sé ‘come fotografo’?

R Fu al settimo Festival del Jazz di Sanremo, che lui organizzò con Pino Maffei nel marzo del 1962. Non avevo ancora compiuto sedici anni. Io ero già molto appassionato di fotografia – direi proprio quasi fanatico, e mi ero fatto un po’ le ossa durante i viaggi turistici di cui ho parlato prima. Allora mio padre mi regalò una macchina fotografica di buon livello (era una Pentax S3, 35 mm), e mi chiese di accompagnarlo ai concerti, per fare fotografia per la rivista Musica Jazz. Ero comunque un autodidatta, nessuno mi aveva insegnato nulla, e non avevo mai fotografato in teatro. La prima volta i risultati furono veramente molto modesti ma mio padre, per incentivarmi, pubblicò una mia foto del festival (Bill Russo che dirigeva la sua orchestra) addirittura in copertina.

D Eri già stato con lui ai concerti jazz? E che ricordo hai?

R Qualche volta, ma ricordo poco. Ricordo bene tutti i concerti che ho fotografato (per un fotografo, le sue fotografie sono uno strumento di rievocazione incredibile), ma di quelli precedenti ricordo solo un concerto a Milano di Miles Davis con John Coltrane, credo intorno al 1960. Fu un concerto molto importante, perché scatenò infinite polemiche sulla musica di Coltrane, che allora stava emergendo come grande rivoluzionario del jazz. Mio padre lo stroncò violentemente nei suoi articoli, e questa polemica si trascinò per molti anni. Devo dire che ben presto cambiò idea: fece tornare John Coltrane col suo mitico quartetto alla fine del 1962 e nel 1963, al teatro dell’Arte di Milano, in un concerto strepitoso che organizzò sempre con l’amico Pino Maffei. Allora mio padre cambiò decisamente idea sulla musica di Coltrane, e lo scrisse nella recensione sulla rivista. Per me il concerto del 1962 fu un po’ il battesimo del fuoco come fotografo: riuscii a scattare un paio di immagini di Coltrane che sono diventate piuttosto famose. E fui enormemente impressionato dalla sua musica. Da allora, per me, il jazz si identifica con la musica di Coltrane.

D Casa tua (paterna) era frequentata da critici e/o jazzisti? Se sì, qualche ricordo o qualche aneddoto?

R No, mio padre non li portava a casa, anche perché, anche se la casa nostra, in Corso Italia 6 a Milano, era piuttosto grande, era piuttosto affollata: oltre a noi quattro (il quarto era mio fratello) ci viveva mio nonno paterno, Giuseppe Polillo, che aveva lì anche il suo studio di avvocato. Quando mio nonno morì, nel 1968, mio padre fece ristrutturare l’appartamento (che era sempre in affitto), e allora fummo più comodi. Ricordo un’intervista di Franco Fayenz con Joe Venuti nel mio salotto nel 1971, perché li fotografai, ma non ricordo altri incontri.

D Com’era quell’Italia del 1962? E il mondo italiano del jazz sempre nel 1962?

Nei primi anni ’60 l’Italia era un Paese molto più semplice, e molto più povero, anche se iniziavano gli anni del boom del dopoguerra. Ricordo, per esempio, quando per la prima volta arrivò in casa nostra un frigorifero – prima c’era la “ghiacciaia”, e bisognava comprare il ghiaccio in blocchi. Credo fosse verso la fine degli anni ’50. La differenza con oggi è enorme: la globalizzazione e soprattutto Internet ha cambiato tutto. Il mondo esterno era sconosciuto: si incominciava a saperne qualcosa attraverso la televisione, che era in bianco e nero e perdeva spesso la sintonizzazione. Anche la mia famiglia non era ricca: all’inizio non avevamo la televisione, e tutti i giovedì sera andavamo tutti dai vicini di casa per vedere “Lascia o raddoppia” di Mike Bongiorno. il jazz era un modo per conoscere un pianeta diverso, gli Stati Uniti. Che anch’essi erano completamente diversi da ora. Basta guardare i film degli anni 50, con le automobili lunghe sei metri, e le famiglie “felici” rappresentate nei film di Doris Day.

D Hai poi continuato per circa un quindicennio gli anni della ‘meglio gioventù e del passaggio dall’adolescenza alla maturità: come hai vissuto quel periodo nel rapporto con tuo padre?

R Come ho detto, mio padre era molto occupato: di giorno in ufficio, e di sera ai concerti o a lavorare per Musica Jazz. Interagimmo soprattutto negli anni in cui studiavo alla Università (mi ero scritto al corso di laurea in Fisica all’Università di Milano, con grande scandalo della mia famiglia: sia mio padre che mio nonno erano laureati in giurisprudenza, e anche mio fratello seguì questa strada). Nel 1965 mi ero iscritto all’Università, e in quei primi anni incominciavano le avvisaglie di quello che sarebbe stato il Movimento Studentesco. Incominciai a interessarmi di questi temi, e nel 1968 frequentai molte manifestazioni studentesche. Mio padre era di orientamento liberale, ed era piuttosto critico rispetto a questi fatti. Inevitabilmente ne discutevamo. Erano anche gli anni in cui si discuteva molto del rapporto fra la musica jazz e la politica, e di estetica musicale. La rubrica delle “Lettere al Direttore” di Musica Jazz in quegli anni ospitava un dibattito molto acceso e, a un certo punto, mio padre la sospese, stanco, come più o meno scrisse, “di essere continuamente insultato da imbecilli”. La riaprì, naturalmente, quando il clima del Paese diventò meno rovente. Ricordo una discussione molto accesa fra di noi quando scoppiarono le bombe dell’attentato di Piazza Fontana a Milano, nel dicembre del 1969. Mi trovavo casualmente in centro, e rientrai a casa sconvolto, come tutti i milanesi.

D Arrigo ti ha mai dato consigli su chi e come fotografare?

R Mio padre amava la fotografia, e fotografava lui stesso, durante i viaggi di vacanze di cui ho parlato, con la sua Rolleiflex. Imparai i rudimenti delle inquadrature da questi suoi esempi. Poi, quando incominciai a fotografare il jazz, sceglievamo insieme le foto da pubblicare sulla rivista (mie e degli altri fotografi). Mi chiedeva di concentrarmi sui primi piani dei musicisti più importanti, e mi chiedeva anche delle foto più astratte, per illustrare articoli generici sulla musica. In sostanza, le foto erano finalizzate a un uso puramente editoriale, non avevo mai pensato a libri o a mostre, come invece feci molti anni più tardi.

D Arrigo era professionalmente un dirigente nell’editoria: ti parlava di quel mondo? Ti ha introdotto in quest’altra realtà culturale tanto vicina quanto lontana dal jazz?

R In realtà no. Anche se la mia famiglia era molto legata al mondo dell’editoria (mio zio Sergio, il fratello di mio padre, passò la vita in Mondadori, di cui divenne anche il Presidente, e anche mio fratello Marco ebbe ruoli importanti in Mondadori e in Rizzoli e fondò poi una sua casa editrice), mio padre si sentiva molto più legato al mondo del jazz. Per quanto riguarda il suo impiego come direttore del personale della Mondadori, citava spesso il giudizio dei suoi colleghi, che lo ritenevano “la persona giusta nel posto sbagliato”. Lasciò la Mondadori anticipando la pensione per motivi di salute poco dopo “l’autunno caldo”, e da allora si occupò a tempo pieno di jazz.

D Come hai maturato la scelta di seguire un percorso di studi assai diverso da quello di tuo padre?

R Chissà. Forse per differenziarmi da una famiglia di avvocati umanisti (mio nonno paterno, quando ero al liceo, mi citava Orazio in latino…). Ma soprattutto mi interessava la filosofia, e pensavo che studiando Fisica avrei potuto capire meglio le cose dell’universo. Ma mi sbagliavo, ben presto mi accorsi che non ero portato alla matematica e non avevo quella famosa “sensibilità fisica” di cui parlavano sempre i miei professori, e che non ho mai capito in che cosa consistesse. Mi riorientai ben presto verso l’informatica, affascinato da un professore visionario, Gianni Degli Antoni. L’informatica allora era una disciplina nascente, e questa fu una scelta giusta, sicuramente dal punto di vista del successo economico. Ma non sono mai stato un appassionato di tecnologia, mi interessavano soprattutto gli aspetto concettuali e modellistici, ancora una volta più filosofici che ingegneristici.

D E Arrigo come ha preso la tua decisione di smettere con la tua fotografia jazz?

R Ho praticamente smesso nel 1975, anche se ho fotografato un concerto nel 1977. Dopo il servizio militare e la laurea nel 1971 ero rimasto come ricercatore all’Università di Milano, dopo qualche incertezza avevo deciso che non avrei fatto il fotografo. E poi nel 1973 conobbi Patricia, che sarebbe diventata mia moglie, e misi su casa con lei. Stavo iniziando la mia vita da adulto, e lasciai il jazz e la fotografia, che avevo sempre considerato un hobby. Mio padre non fece commenti su questa decisione, che era in un certo senso inevitabile.

D Tu Roberto come hai vissuto l’uscita del volume JAZZ di Arrigo, ancor oggi ritenuto una pietra miliare?

R Mio padre ha scritto questo libro dopo il suo pensionamento anticipato dalla Mondadori, e si è dedicato praticamente a tempo pieno per molto tempo, a casa. Per molto tempo la nostra sala da pranzo non è stata agibile: il tavolo era occupato dalle decine di libri sul jazz, che mio padre consultava (la scrivania sulla quale lavorava a Musica Jazz era troppo piccola…). Mio padre mi faceva leggere le bozze di ogni capitolo, e mi chiedeva le mie impressioni. Sono molto orgoglioso di questo mio contributo. Molto piccolo, in realtà, perché poi decideva tutto in modo molto autonomo.

D L’Arrigo Polillo che per te è stato il più geniale o autorevole? Direttore di Musica Jazz o critico o studioso o organizzatore di festival, concerti, eventi?

R Mio padre è stato un po’ tutto questo insieme. Soprattutto era una persona solare, molto positiva e affabile, aperta al nuovo, sempre interessata a quello che accadeva nel mondo del jazz. Era molto sicuro del suo gusto e delle sue idee, anche quando si rivelavano poi troppo conservatrici. Allora riconosceva i suoi errori e ne scriveva apertamente. E soprattutto aveva una enorme capacità di raccontare la vicenda del jazz in un modo appassionante. Credo che abbia fatto moltissimo per il jazz in Italia, non solo portando i principali musicisti in Italia, ma soprattutto con il suo libro, che è ancora in libreria dopo quasi cinquant’anni.

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