Gabriele Guglielmi / Il canto della Fenice

// di Guido Michelone //

Il volume Il canto della Fenice. Il libero jazz di Jeanne Lee scritto dal giovane cantante Gabriele Guglielmi ed edito da LeMus di Ivrea è un libro bellissimo a dimostrazione di come tra le nuove generazioni vi siano ancora persone che, accanto alla ricerca di un’affermazione artistica – nella musica e nel teatro in questo caso – lavorino in parallelo anche in profondità come studiosi e saggisti.

D In tre parole chi è Gabriele Guglielmi?

R Me lo sono chiesto molte volte! Riflettendo sul mio percorso, assolutamente non rettilineo ed eclettico, potrei forse dire che alla base sono un “appassionato di storie”. Cerco poi di raccontarle attraverso diversi canali che entrano fra loro in relazione, accomunati dal binomio voce-parola.

D I tuoi primi ricordi della musica da bambino?

R Ricordo sicuramente la prima piccola tastiera regalatami un Natale, sulla quale mi divertivo a suonare le mie canzoni preferite “ad orecchio”, poi il coro a scuola e in chiesa. Fondamentale è stata anche la piccola ma ricca collezione di vinili e cd dei miei genitori, che spaziava dalla classica ai cantautori italiani, dal rhythm blues al rock. Affascinato dall’ascolto delle romanze per violino di Beethoven chiesi ai miei di iniziare a studiare quello strumento, avevo sei o sette anni.

D E il tuo primo ricordo del jazz in assoluto?

R Non vi erano veri e propri appassionati di jazz in casa, quindi il mio approccio al jazz e a quella cultura musicale è stato più per vie traverse. Fra quei vinili di cui parlavo prima c’erano album di Ray Charles e Aretha Franklin, per esempio, o compilation per il periodo natalizio che raccoglievano i classici della stagione interpretati da Ella Fitzgerald, Louis Armstrong, Bing Crosby, Nat King Cole. Poi i film, attraverso i quali restavo affascinato dai cori gospel o da personaggi quasi mitologici, come il Jelly Roll Morton che appare ne La leggenda del pianista sull’oceano di Giuseppe Tornatore, tratto dal monologo di Alessandro Baricco.

D Come definiresti la tua attività? Attore, musicista, cantante, critico, studioso o tutto insieme o altro ancora?

R Come dicevo prima, penso che il “fil rouge” che collega le mie attività sia la passione per le storie ed il forte interesse per lo strumento voce da un parte – nelle sue connessioni con il corpo, la mente e l’emozione – e per la potenza evocativa della parola dall’altro. E forse, ancora più alla base, muovermi attraverso la musica, il canto, il teatro, la scrittura, la direzione corale, lo studio soddisfa un’urgenza personale di conoscermi sempre più a fondo. La massima dell’antica Grecia “conosci te stesso” la soddisfo così!

D Possiamo parlare di te come di uno dei massimi esperti in Italia di Jeanne Lee? O in altre parole vuoi parlarci del tuo libro?

R Non so se “esperto” sia il termine corretto o almeno faccio fatica a definirmi tale. Sicuramente il lavoro di ricerca su questa meravigliosa artista è stato una parte importante della mia vita in questi ultimi anni. Quando ho messo un punto finale al testo perché dovevamo andare in stampa, l’ho fatto con la sensazione che ci sia ancora tanto da dire su Jeanne Lee! Il mio obiettivo comunque era cercare di offrire un ritratto di una delle voci più significative dell’avanguardia jazzistica, una figura affascinante, raffinata e piena di garbo, in cui si concentrano più anime. Cantante, poetessa, intellettuale, danzatrice, attivista, educatrice, donna, madre. Ho potuto ricostruire tutto questo attraverso le tracce che questa artista, in parte dimenticata anche perché mancata prematuramente, ha lasciato non solo nell’ambito discografico, ma anche in varie interviste che ho raccolto, fra gli anni Sessanta e il Duemnila.

D Se ti chiedessero subito di scrivere un  altro libro, di quali jazzisti vorresti parlare?

R Vi sono altre ricerche che ho compiuto negli anni passati che sarebbe bello approfondire e sviluppare in futuro. Sicuramente mi interessano gli artisti poliedrici o i generi di confine, là dove il suono/la voce si incontra con altre cose. Inoltre la storia della comunità afroamericana mi ha sempre molto ispirato, come esempio di resilienza (che ha visto nella musica uno dei suoi punti forti), di riscatto e impegno civile che ha valori universali.

D Per te ha ancora un senso oggi la parola jazz?

R Penso che jazz voglia dire tante cose. Io stesso a volte mi sono sentito fuori luogo secondo un’accezione ristretta di questa musica. Credo di più nel jazz come linguaggio di espressione e libertà, come forma mentis e filosofia che mi ha insegnato tanto e continua a farlo, sempre nel rispetto delle radici. In questo senso mi piace citare Jeanne Lee che in un’intervista disse: “Non devi metterti in una scatola solo perché le scatole esistono”.

D E si può parlare di ‘jazz italiano’? Esiste per te qualcosa di definibile come ‘jazz italiano’?

R Forse, senza voler essere troppo accademici, il jazz italiano è un jazz che nasce ormai nelle grandi città come nei piccoli paesi della provincia. È quindi normale che, pur partendo da una radice comune che guarda oltreoceano, il nostro jazz si colori delle influenze date dalle nostre tradizioni culturali e musicali, dalla nostra letteratura e arte e in senso lato dal nostro paesaggio, che come è noto è uno dei più vari al mondo per natura, architetture e suoni.

D Cosa distingue l’approccio al canto jazz di americani e afroamericani da noi europei?

Per certi versi in America l’approccio è più diretto, anche banalmente per quella che è la componente linguistica. La lingua inglese ha già dentro di sé suoni che fanno parte del bagaglio di partenza di un cantante. Pensiamo all’italiano rispetto al canto lirico. Noi europei non anglofoni dobbiamo quindi lavorare – soprattutto all’inizio dei nostri percorsi – con una tavolozza di colori che non sempre abbiamo in maniera innata, per poi trovare una strada personale rispettosa delle origini quanto della nostra individualità.

D Parlando invece di vocalità specificamente black?

R Per quanto riguarda le voci afroamericane inoltre, oltre il timbro indubbiamente diverso dato dalla conformazione dello strumento, spesso crescono e si formano in contesti, come ad esempio quello della chiesa, dove l’improvvisazione, l’espressione libera sonora, fisica ed emotiva sono sdoganate e gli elementi fondamentali di quel tipo di musicalità sono assimilati per imitazione e reiterazione. Sono tutte competenze che poi vengono indirizzate in coloro che cantano di professione nei vari generi, non solo nel jazz, e che magari vengono poi approfondite anche secondo percorsi più accademici. Un po’ come accadeva e accade nella nostra musica popolare. Non è meglio o peggio della nostra vocalità, semplicemente ogni voce racconta la sua storia. L’importante è trovare gli strumenti più efficaci per raccontarla.

D Il jazz deve parlare, attraverso i suoni, di temi sociali, politici, ambientali, filosofici? Se sì, quali jazzmen – secondo te –  l’han fatto meglio?

R Sì, secondo me la musica e l’arte in generale hanno il dovere di parlare anche del mondo che ci circonda, oltre che di quello interiore. Tutto è Uno e ognuno di noi può fare la differenza nella vita personale, altrui e del pianeta. In questo senso penso che l’arte e l’insegnamento di ciò che è artistico abbiano una grande responsabilità. Fare arte comporta essere actor, ovvero qualcuno che agisce consapevolmente e attraverso la propria azione genera delle conseguenze. Guardando ai grandi del jazz forse un personaggio come Mingus ha davvero riunito in sè, anche per la sua storia personale, riflessione individuale e impegno sociale. Inoltre, per tornare al contenuto del libro, vi invito ad ascoltare l’album del 1992 “Natural Affinities” di Jeanne Lee, che è ricco di spunti di tipo politico che riescono ad essere anche oggi molto attuali.

D Come vivi tu il jazz in Italia anche in rapporto alla tua giovane età?

R Sicuramente, nella mia esperienza, il Conservatorio ha rappresentato un ambiente fondamentale per conoscere, prendere confidenza e vivere questa musica oltre che per entrare in contatto con docenti e musicisti di grande livello che mi hanno lasciato importanti insegnamenti. Cerco poi di sfruttare questo bagaglio nella mia attività artistica e didattica, cercando di mantenere l’apertura, l’elasticità, la curiosità e l’ascolto che il jazz ti invita sempre ad esercitare, anche uscendo spesso dalla tua zona di comfort. I festival, le rassegne e i seminari rappresentano altri importanti momenti di incontro musicale e opportunità di espressione.

D Gabriele, infine, cosa pensi tu dell’attuale situazione, in cui versa la cultura italiana, di cui il jazz ovviamente fa parte da anni?

R Ormai da decenni stiamo assistendo a un progressivo impoverimento e appiattimento culturale. Questo è dato anche da una tendenza globale che mette al primo piano il profitto, trasformando ogni cosa in prodotto, ogni persona in consumatore. Una dinamica anche nella cultura, dove qualcosa ha successo solo se diventa virale, standardizzato, replicabile. Eppure c’è una ricchezza meravigliosa nella diversità, nella pluralità e nella possibilità di assorbire a livello individuale e collettivo questo patrimonio di istanze per evolvere e migliorarci. In questo il jazz è maestro, perché musica da sempre inclusiva, democratica, aperta ad accogliere.

D Cosa fa o non fa l’attuale governo, Gabriele, secondo te, per la cultura, l’arte, la musica?

R Trovo che l’attuale governo si stia dimostrando piuttosto resistente al naturale flusso delle cose e la storia insegna che questo tipo di atteggiamenti non ha avuto successo in passato, rispondendo solo alla paura degli esseri umani. L’ideale sarebbe una politica che promuova la cultura (e la cultura umanistica al pari di quella scientifica e tecnologica) come chiave per essere liberi. Nell’attesa che ci si possa almeno avvicinare ad esso, è importante ricordare che la libertà ce la costruiamo anche noi ogni giorno con le nostre singole azioni quotidiane e con la nostra partecipazione (di gaberiana memoria) alla cosa pubblica.

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