// di Francesco Cataldo Verrina //

L’Italia fu per Chet Baker una sorta di refugium peccatorum ed un porto franco per le sue scorrerie musicali e private, compresi quattordici mesi di detenzione per uso e possesso di stupefacenti. Il legame con il nostro paese fu indissolubile sino alla fine dei suoi giorni. Tanti i legami importanti, ricordiamo, ad esempio, quello con Piero Umiliani, il primo italiano a portare il jazz sul grande schermo ed a sperimentare l’utilizzo della musica di Chet Baker in un contesto cinematografico. Una collaborazione e un’amicizia che diedero vita a tante registrazioni italiane, dalle quali emerse il lato migliore del trombettista. La vita e la morte di Chet Baker sono state ben documentate in altri ambiti, ma qualche dettaglio biografico potrebbe essere utile a definire il contesto e le coordinate di «Live In Milan», il primo Chet, bello e dannato, giovane jazzista in ascesa, outfit da attore hollywoodiano vagamente lunatico e disincantato, ma dal tono brillante, con un timbro ricco di pathos e avventura al contempo ed una voce strumentale melodica e sensibile, capace di scavare nel profondo dei sentimenti con un’intensità non comune.

Negli anni ’50 Chet divenne schiavo delle droghe. Durante le tournée europee ingurgitò enormi quantità di Jetrium/Palfrium, un analgesico oppioide soggetto a prescrizione medica, dissipando notevoli energie a rincorrere i medici per ottenerne la prescrizione e cercando di convincere spesso amici ed organizzatori di eventi a procurargli stupefacenti di vario tipo, vaporizzando, oltremodo, ingenti quantità di denaro. Come accennato, il possesso di narcotici lo portò all’arresto in Germania, Italia e Inghilterra, mentre a metà degli anni ’60 venne espulso dagli Stati Uniti, dove un debito non pagato ad una gang di spacciatori, lo mise fuori gioco per lungo tempo: durante un pestaggio gli vennero spaccati i denti e danneggiate le labbra. Peggio di una condanna a morte per un suonatore di tromba. L’Italia, però, non lo perse mai di vista, accogliendolo ripetutamente come un figliol prodigo, tanto che a tutt’oggi Baker è il jazzista più conosciuto e «venduto» nel nostro paese. A metà degli anni ’70, recuperando faticosamente l’embouchure, grazie alla chirurgia ricostruttiva e con l’aiuto di protesi dentarie, Baker si trasferì stabilmente in Europa, inizialmente in Italia ma tenendo concerti ovunque: un decennio di vita nomade che lo portò a suonare in tutto il vecchio continente. Nel 1959, il suo aspetto da ragazzo non era ancora devastato dall’uso di stupefacenti e dal suo stile di vita randagia, che terminò bruscamente nel 1988, a cinquantanove anni, cadendo dalla finestra del secondo piano di un albergo di Amsterdam. Il 25 e 26 settembre e il 6 ottobre 1959, quando Chet Baker registro «Live In Milan» era considerato il miglior trombettista bianco su piazza, espressione di quella corrente vicina al cool di marca californiana, chiamato West Coast Jazz, che sembrava essere il riscatto di molti musicisti bianchi, specie italiani, i quali trovano notevoli affinità elettive con questo modulo jazzistico più solare, melodico e basato su strutture armoniche più semplici e spaziate, nonché privo di componenti politico-razziali, meno impetuoso ed infuocato rispetto a quello veicolato dalla maggior parte degli afro-americani. Per avere un’idea, sull’altro fronte, quello stesso anno uscivano dischi come «The Shape Of Jazz To Came» di Ornette Coleman. Negli ultimi dodici mesi che conclusero la decade dei Cinquanta, Charles Mingus portò ben tre album sugli scaffali dei negozi «Blues & Roots», «Mingus Ah Um» e «Mingus Dynasty». Il 1959 fu anche l’anno di Miles Davis con «Kind Of Blue» e di Dave Brubeck con «Time Out». Il mercato sembrava piuttosto frastagliato, tanto che, a seconda delle convenienze, i musicisti europei si schieravano da una parte o dall’altra.

Chet Baker, che è sempre stato musicalmente un ibrido, cavalcava bene su tutti fronti, non senza una sana dose di opportunismo. La sua abilità consisteva nello scegliere sistematicamente i più accreditati musicisti locali con cui incidere i dischi. Durante il lungo soggiorno in Europa, tra la fine degli anni ’50 e l’inizio degli anni ’60, il trombettista diede alle stampe una mezza dozzina di album per un’etichetta affiliata alla Riverside Records, la Jazzland. «Live In Milan», che non sfugge a talune regole d’ingaggio, fu il primo dei suoi lavori registrati oltreoceano. Non tutti questi set in trasferta ricevettero la stessa accoglienza ed il medesimo consenso. Ad esempio, poco dopo aver realizzato «In Milan», nel 1959, Baker si cimentò in un’ambigua sessione chiamata «With 50 Italian Strings», un disco imburrato da una cascata di archi e fiati sospiranti, accompagnati da un’arpa ricavata da salice piangente. A causa degli arrangiamenti melliflui e stucchevoli, il disco venne definito da certa critica come «letargico e cimiteriale». Fortunatamente, «In Milan» si muove su coordinate differenti e, pur partendo da taluni assunti basilari del vernacolo jazzistico westcoastiano, l’album si dipana attraverso un modulo espressivo piuttosto energico. Baker è l’unico americano del line-up, ma i compagni di merenda conoscono perfettamente il suo stesso idioma musicale. La formazione italiana di supporto era così ben istruita sull’opera jazzistica americana da far sentire il trombettista a casa più a Milano che a Hollywood. A parte Chet Baker (tromba), furono della partita Renato Sellani (pianoforte), Franco Cerri, accreditato come Franco Serri (basso) e Gene Victory (batteria). Nella maggior parte dei brani, però, l’unità di base venne ampliata in un sestetto con i sassofonisti Glauco Masetti (contralto) e Gianni Basso (tenore). La vera chicca di «Live In Milan» fu l’incontro con un giovane Gianni Basso, astro nascente del jazz italico, poco prima che questi iniziasse una lunga collaborazione in quintetto con il trombettista Oscar Valdambrini. Sebbene Basso fosse descritto come un emulo di Stan Getz, la voce del suo tenore era alquanto diversa e con caratteristiche individuali, soprattutto il suo modus agendi era privo di qualunque sudditanza nei confronti degli artisti statunitensi: velocità, quadratura e precisione erano impressionanti, mentre le figure melodiche venivano sviluppate dal sassofonista in modo eloquente, guidate da eccitanti linee progressive forti di un’immancabile e sorprendente inventiva. Il suo assolo in «Pent Up House» è una polveriera in fiamme; così come l’opener affidato a «Lady Bird», uno standard jazz di sedici battute a firma Tadd Dameron, il quale sconfessa subito l’idea di voler tirare fuori dal set milanese un suono rilassato e zuccheroso. La classica struttura bop consente ai fiati di sfrecciare, di alternarsi e di intersecarsi, mentre il piano di Sellani martella con impeto quasi powelliano. In «Cheryl Blues», con la sua anima soulful a strisce funkified, ci sono più New York e Charlie Parker che non la solatia California e le spiagge da sogno; non ultimo il fatto che il giovane Baker corre veloce come una gazzella sospinto dalla retroguardia ritmica. In «Tune Up» c’è lo spirito irrequieto del vecchio Miles Davis, ancora in odor di Gillespie: si va in overclocking con gli ottoni a perdifiato e ad una velocità di certo non consentita dal contachilometri del jazz del Pacifico, mentre dalle retrovie la sezione ritmica bofonchia e non lascia aria ferma, con un imperterrito Sellani che tira fuori tutto il swing che ha in corpo. Che dire della celeberrima «Line For Lyons» di Gerry Mulligan, arricchita dal triplice intervento dei fiati, a cui i due sassofoni italiani danno slancio e vigore, mentre la tromba di Baker si adatta al mood della cordata alzando il tasso energivoro della struttura narrativa.

Non c’è pausa di riflessone, tutto scorre veloce sin dall’inizio dalla B-side con «Pent Up House» di Sonny Rollins – come già detto- in cui Gianni Basso ingrana la marcia tirandosi dietro tutto il convoglio. Baker appare più tonico del solito ed il suono della sua tromba diviene adamantino, mentre il solito Sellani sembrerebbe non avere nulla da invidiare ai pianisti americani. «Looking For The Silver Living» è uno standard di Jerome Kern, ma il flusso è inarrestabile, non si capisce ancora quanto sia lontana la California o quanto vicina New York. La melodia fa passare per la mente qualche fotogramma cinematografico, ma per il resto bisogna attendere l’arrivo di «Indian Summer» per ascoltare qualcosa di vagamente più cool e seminterrato. A questo punto, i due sassofoni si ritirano in bellezza e la tromba di Baker gioca a tutto spiano: non più un sestetto, ma un quartetto. Ipso facto per la conclusiva «My Old Flame», l’unica ballata fatta di stele cadenti e di amori lontani. In quattro c’è più campo per Chet che nebulizza nell’atmosfera gocce di miele millefiori. Oggi, «Live In Milan», è solo la punta di un iceberg in mezzo a decine di registrazioni dello stesso anno considerate seminali. Basti pensare che, il 4 e il 5 maggio del 1959, John Coltrane aveva già fissato su nastro la prima sessione di «Giant Steps». Ciononostante, il disco milanese del trombettista rimane un valido documento storico, a testimonianza di un’epoca irrequieta, fatta di mutamenti e transizioni, certamente uno dei momenti più esaltanti della prima fase della sua carriera.

Chet Baker

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