Alberto Alberti & Sergio Veschi

// di Guido Michelone //

Con Sergio Veschi in quest’intervista del 2002 affrontai il tema delle case discografiche italiane, in particolare di quelle che si occupano solo di jazz: tema spinoso, perché la storia in tal senso è davvero esigua dal punto di vista numerico e per molti versi anche da quello artistico. Fino agli anni Sessanta compresi, il jazz nel nostro Paese aveva avuto una fortuna discografica limitatissima, se si escludono i fenomeni di moda, ossia quel breve periodo (all’incirca tra la fine degli anni Cinquanta e la metà dei Sessanta) in cui venivano jazzati o swingati anche gli arrangiamenti per la musica leggera o le colonne sonore per il cinema. D’altronde il mercato discografico, con l’esclusione dell’exploit del 45 giri legato al boom economico a sua volta relazionabile agli anni d’oro del Festival di San Remo (simbolicamente da Volare di Modugno al suicido di Tenco), in Italia non è mai stato un fenomeno di massa paragonabile a quello statunitense o nordeuropeo. Il jazz italiano in tal senso è vissuto su 78 giri grosso modo fino alla metà degli anni Cinquanta quando poi gli sono subentrati eccentrici formati rispetto ai normali 45 e 33 giri: ad esempio l’EP (un 45 giri con quattro brani) oppure l’LP a 17 cm (ossia di diametro più piccolo con circa dieci minuti a facciata). In fondo l’unica iniziativa di successo, per quanto riguarda la discografia jazz in Italia, è stata La storia del jazz pubblicata dalla Fabbri nel 1968 e più volte ripetuta in vari formati (ancora di recente, nel 1999): allora si trattava di minidischi in cento fascicoli che trattavano i grandi solisti dalle origini all’avanguardia. Ma di fatto ancora per tutti gli anni Sessanta gli album di jazz italiano si contano sulle punte delle dita di una mano e sono opera tanto di major quanto di etichette destinate a durare lo spazio di un mattino, come è capitato anche in seguito a molte altre label più o meno alternative. Ma dagli anni Settanta, al di là di un sostanziale incremento delle vendite di ‘padelloni’ (soprattutto in campo leggero e solo parzialmente in ambito jazzistico), muta radicalmente l’idea di produrre dischi jazz da parte di un manipolo di coraggiosi personaggi. Cambiano di fatto anche le forme, le modalità, le tipologie delle etichette jazz. Ed è qui che ha inizio la storia di Sergio Veschi, al quale lasciamo volentieri la parola, per questo lun go dialogo che a distanza di ben 22 anni conserva ancora temi molto attuali.

D Quale è stato il primo disco della Red? e come mai è nata l’idea di questa casa discografica?

R The Quest del trio di Sam Rivers con Dave Holland e Barry Altschul. In realtà non c’era nessuna idea di fondare un’etichetta discografica ma solo il desiderio di essere parte di qualcosa che ci aveva e ci accompagna ormai da lungo tempo. Ho cominciato ad ascoltare il jazz quando avevo 13/14 anni e da allora ho sempre saputo che quella era la mia musica che si intrecciava a numerose letture giovanili degli scrittori americani come Faulkner, Steinbeck, Richard Wright, Ralph Ellison, ecc. La mia passione per il jazz era così tanta che arrivai a comprare un sax alto ed iniziai a studiarlo da solo con un metodo. Ovviamente in quel modo non si potrà andare lontano musicalmente. Ero anche un accanito frequentatore di concerti, rari negli anni Sessanta, ma tutti di altissimo livello, ed ebbi la fortuna di assistere al concerto del quartetto di John Coltrane nel 1964 al Teatro dell’Arte di Milano.

D Quale clima sociopolitico si respirava allora?

R Come molti della mia generazione partecipai attivamente al Sessantotto e feci politica per lunghi anni prima nel PCI e poi nel Movimento Studentesco dell’ Università Statale di Milano. Siccome era nota la mia passione per il jazz mi fu chiesto di organizzare dei concerti. Ovviamente lo feci con grande entusiasmo e con totale impreparazione ma all’epoca tutto questo ebbe un grande successo ed orientò molta gente in direzione di questa musica. Sempre nello stesso periodo frequentavo come ascoltatore Umbria Jazz che stava decollando in quegli anni e conobbi gli organizzatori, Alberto Alberti e Cicci Foresti, che mi introdussero nell’ambiente. Fu così che alla Statale di Milano suonarono dei grandi nomi come Max Roach, Don Cherry, Mal Waldron e fu anche organizzato un festival del jazz italiano che ebbe un grandissimo successo di pubblico. L’idea di registrare Sam Rivers fu di Alberto Alberti che mi telefonò alle due di notte dicendomi di trovare uno studio di registrazione. Sam Rivers arrivava da Hong Kong e doveva suonare al festival del jazz di Bergamo e nel suo giorno libero avrebbe registrato allo Studio Sette di Milano. Da lì il passo successivo fu quello di trovare un distributore e così nacque la Red Records.

D Perché questo nome? un riferimento alla politica?

R Red è l’acronimo di Registrazioni Edizioni Discografiche ma ha anche una connotazione, un orientamento di sinistra che rifletteva lo spirito dei tempi – il 1976 – che era innegabile e di cui non ci pentiamo affatto. Ma Red significa anche rosso come il colore del sangue, dei sentimenti e delle passioni e riflette indubbiamente la nostra intensa passione per questa musica. Nel tempo può essere inteso anche come un riallaccio alle grandi etichette indipendenti americane come la Blue Note, la Contemporary, la Prestige e altre che hanno documentato la grande storia del jazz. la Red Records ha molti punti in comune sia con le persone che le fondarono sia con quelle che le svilupparono. È una sorta di filo rosso che lega noi a loro. In fondo abbiamo cercato di mantenere le stesse motivazioni e la loro stessa integrità facendo tutto ciò in un contesto culturale, economico politico radicalmente diverso. In fondo è un segno dei tempi che riflette l’internazionalizzazione del jazz come un linguaggio che è sempre di più la fusione e la sintesi di popoli e culture. Insomma la vera World Music, in cui, parlando la stessa lingua, confluiscono musicisti e ascoltatori di tutto il mondo indipendentemente dalla razza, nazionalità e cultura.

D In che senso internazionalizzazione?

R Internazionalizzazione e globalizzazione sono sinonimi e nello stesso tempo – come dice Bobby Watson – è finita l’epoca in cui parlando di jazz si pensa solo all’America. Intendiamoci la componente americana e specificatamente nero americana è ancora molto forte. Ma – sempre citando Bobby Watson – andando in giro per il mondo ci si accorge di quanti siano i musicisti in grado di competere individualmente ai maggiori livelli. In particolare l’Italia ha numerosi musicisti, che non sono “i soliti noti” sempre citati a proposito e sproposito dalla stampa, che sono in grado di prodursi ai massimi livelli. Un nome su tutti era il compianto Massimo Urbani ma ce ne sono altri in attività assolutamente validi e non sempre la notorietà è anche sinonimo di qualità. Ce ne sono diversi non famosi e poco esposti che sono d’alto livello. Vorrei comunque sottolineare che il jazz è un linguaggio con delle regole codificate e consolidate con il tempo e che si adatta facilmente ai diversi contesti che da ai musicisti la massima libertà all’interno di una rigorosa disciplina linguistica mentre la cosiddetta musica improvvisata è una forma spuria in cui tutto è lecito e consentito in troppo spesso la libertà è solo licenza e la ricerca è incapacità ad impadronirsi delle regole di un linguaggio d’altissimo livello tecnico ed espressivo. Insomma un rifugio adatto ai mediocri.

D Come era il panorama musicale (jazzistico, sopratutto) di quegli anni (Settanta)?

R Allora si parlava di jazz politico a proposito del jazz italiano: era una definizione giusta? perché? In quegli anni – metà Settanta, primi Ottanta – partiti, sindacati, movimenti politici e associazioni riconducibili alla sinistra storica (e non) cominciarono ad occuparsi di jazz. Era una musica di cui sapevano poco e capivano ancora meno però contribuirono a farla conoscere presso strati di pubblico che senza queste iniziative non lo avrebbero mai conosciuto. Quindi è stato largamente positivo perché ha moltiplicato le occasioni d’ascolto, di lavoro per i musicisti, ecc. Certamente si può affermare che spesso non furono premiati i migliori musicisti ma coloro che avevano un profilo giusto per quel tipo di pubblico che non essendo molto acculturato in materia non andava troppo per il sottile. E’ anche vero che diversi jazzisti erano parte del movimento e davano un suono allo stesso. Anche questo mi sembra positivo anche se parte di quella musica non è sopravvissuta per i suoi meriti musicali intrinseci anche se aveva delle motivazioni condivisibili, almeno da me.

D La linea della Red Rec è cambiata negli ultimi anni, avvicinandosi ad uno stile ‘Blue Note’ americano. Come mai?

R Non mi sembra del tutto corretta una domanda in questi termini. Finito il periodo d’apprendistato in cui l’importante era fare per imparare a fare ci siamo integrati agli standard di qualità richiesti dal pubblico del jazz in tutto il mondo. Lo abbiamo fatto da una prospettiva assolutamente italiana ed europea cercando di documentare il livello qualitativo del miglior jazz che veniva prodotto dai musicisti attivi in questa parte del mondo indipendentemente dalla razza, nazionalità e cultura e favorendo l’intreccio di musicisti con un diverso background ed esperienze ma tutti comunque in grado di esprimersi ad alti livelli. I dischi di Massimo Urbani con la ritmica americana di Beaver Harris, Cameron Brown e Ron Burton o quelli di Bobby Watson con l’Open Form Trio e cioè Piero Bassini, Attilio Zanche e Giampiero Prina sono esemplari in questo senso. Nel primo il leader è un italiano di grandissimo livello accompagnato da una ritmica americana, credo fra l’altro che questo prima d’ora non fosse mai successo ad un jazzista italiano ed europeo, e dall’altra parte c’è un grande jazzista americano nero e di Kansas City, che era stato direttore musicale dei Jazz Messengers di Art Blakey e aveva registrato con Wynton Marsalis, che ha liberamente scelto di registrare in Italia con una ritmica che lui considera di livello.

D Però la specularità tra Blue e Red artisticamente esiste…

R Certo è jazz ma non è la Blue Note ma la Red Records. La Red Records è orgogliosa di essere apparentata con la più grande etichetta della storia del jazz. La matrice è comune ma la musica non è la stessa perché gli uomini sono diversi, l’epoca storica, il contesto culturale, lo spirito, il continente è diverso. Appointment in Milano di Bobby Watson significa proprio questo. Un appuntamento con la storia nel segno della globalizzazione e internazionalizzazione del jazz. Ed è successo a noi, inconsapevolmente, quì in questo a paese e nella mia città dove sono uno straniero per l’establishment. Però gli ascoltatori di tutto il mondo hanno amato e continuano ad amare quel disco, perché la musica ha in sé il significato delle cose che stavano succedendo e di cui non eravamo assolutamente consapevoli quando stavano accadendo e le facevamo succedere. Appointment in Milano è uno dei dischi più venduti del catalogo Red Records ed è particolarmente amato dai jazz fans americani. La francese “Jazz Magazine” non ha mai recensito quel disco. Adesso capisco il motivo!!!

D Quali sono gli artisti italiani e stranieri su cui oggi puntate?

R Noi non puntiamo su nessuno. Cerchiamo solo di registrare della musica di qualità e con un livello tecnico e artistico adeguato per un pubblico qualificato ed esigente in tutto il mondo. Abbiamo registrato alcuni musicisti latino-americani che fanno delle musiche che noi riteniamo interessanti, ma soprattutto le ritengono interessanti gli ascoltatori, esprimono l’anelito, la speranza e la profondità di un continente, quello sud americano, che liberato dal giogo delle dittature riesce ad esprimere una identità che si ritrova anche in molta letteratura che viene prodotta da quelle parti. E’ jazz con un forte colore locale ma non sono quegli ibridi indigesti e transgenici così tanto applauditi anche da certa sinistra… Scrive Max Corroto in una recensione al nostro Cd di Pablo Bobrowicky: “il chitarrista respira jazz statunitense, lo fa scorrere nel suo grande cuore argentino e lo restituisce poi non come una traduzione ma come un paesaggio dell’anima La distanza concessa ai jazzisti europei come a quelli sudamericani permette loro una diversa prospettiva, un serio mutamento d’orizzonte e un libero sviluppo d’idee. Se poi le parole vengono meno è solo perché si tratta di un grandioso raggiungimento musicale”. Questo mi sembra perfetto non solo per il disco a cui si riferisce ma al contesto all’interno del quale operiamo ed in cui ci riconosciamo noi e i musicisti che scelgono di lavorare con noi. Come vedi siamo al di fuori di logiche localistiche o regionalistiche e all’interno di una visione cosmopolita in cui si collocano americani, sudamericani, europei, giapponesi e ciascuno di loro esprime la sua identità artistica e musicale dentro un linguaggio comune.

D Quanti dischi hai fatto sinora?

R 150 ma sarebbe più giusto dire quali sono le direttrici in cui è possibile identificarli. Mi spiego meglio: ci sono molti musicisti americani ma altrettanti italiani che spesso collaborano assieme dando vita a musiche che, pur all’interno dello stesso linguaggio, danno vita ad opere che – in ogni caso – pur provenendo dal jazz americano, sono prodotti tipicamente locali, ma con un livello ed una qualità totalmente competitiva. Cd come Radio Suite di Salvatore Tranchini, ovviamente Appointment in Milano di Watson, South of the World e Where we are di Pablo Bobrowicky o Baires Blue di Norberto Minichillo, argentino di lontane origini calabresi, non sono il jazz di New York ma possiedono lo stesso livello qualitativo del miglior jazz di tutti i tempi. Invece Love Remains di Bobby Watson è tipicamente americano ed è una sorta di meditazione sul jazz, sul sentimento del jazz e sulla sua storia, anche nel suggestivo e pregnante brano dedicato a Nelson Mandela, e forse non è del tutto casuale che quel disco sia contemporaneamente considerato dagli autori, inglesi, del Penguin Book of Jazz e dai curatori americani del Jazz Museum di Kansas City – città che è stata e probabilmente tornerà ad essere come ha mostrato il film Kansas City di Altman una delle culle del jazz – come una delle opere più significative di tutta la storia del jazz.

D Cosa ha significato Love Remains per te?

R Quello che è incredibile ed incomprensibile per molti è il fatto che questa registrazione sia stata prodotta da una etichetta italiana che opera in una realtà apparentemente periferica. Ma se riprendiamo il discorso che si faceva prima sul filo rosso che lega la nostra esperienza a quella delle grandi etichette, alla passione e alla competenza che abbiamo cercato di metterci ed anche ad una professionalità acquisita attraverso molteplici esperienze e anche errori dai quali abbiamo cercato d’apprendere, la cosa assume un aspetto credibile. È in definitiva uno degli aspetti della globalizzazione e della internazionalizzazione del jazz. Capisco che per molti sia difficile da accettare ma non trovo altre spiegazioni convincenti e messa in questi termini le cose hanno una loro logica inoppugnabile. Siamo in definitiva dei provinciali che pensano in grande e alla mobilità del corpo e delle cose hanno sostituito la mobilità delle idee, dei sentimenti, del linguaggio del jazz che oggi, proprio come dice Watson, può essere in ogni dove, anche se la supremazia americana, dove prevale a volte una certa routine, rimane forse indiscutibile ma non così certa soprattutto a certi livelli sui quali noi non deroghiamo.

D Quali sono i tre-quattro dischi (anche di più, volendo) di cui vai orgoglioso tra tutti quelli fatti finora?

R Penso che i momenti forti del nostro catalogo siano rappresentati dai lavori di certi autori come Watson, Henderson, Bergonzi, gli Sphere, Cedar Walton, Ray Mantilla, Steve Grossman, Dave Liebman, Jim Snidero, Billy Higgins, Robert Stewart ma anche certi autori italiani come Urbani, D’Andrea, Giovanni Tommaso, Piero Bassini, Salvatore Bonafede, Fabrizio Bosso.

D E, per finire, come sono i rapporti con l’ambiente musicale e l’establishment?

R Mediocri anche per le nostre scarse attitudini per le pubbliche relazioni e per la cultura dell’immagine verso la quale non abbiamo un grande feeling. Inoltre la Red Records sfugge alle facili categorizzazioni tipo jazz europeo o mediterraneo o americano – anche se è tutto questo – e rifuggiamo dalle schematizzazioni tipo ricerca e sperimentazione non perché siamo contrari ma perché ciò che normalmente viene spacciato come tale è spesso solo muffa riciclata che il più delle volte non ha più alcuna ragion d’essere. Noi non ragioniamo secondo degli schemi logori e abusati come le categorie interpretative normalmente utilizzate da molti operatori del settore che si attardano in concezioni ormai vecchie e obsolete e che si rilevano inutilizzabili per spiegare la complessità dei fenomeni in atto nel mondo del jazz che è anch’esso, come tutto in quest’epoca, soggetto ai processi di globalizzazione e internazionalizzazione. E abbiamo scarsa propensione verso visioni che alla base hanno delle concezioni di tipo localistico riconducibili, per semplificare, al jazz della Sassonia, Val D’Itria o Provenza che dir si voglia. L’arte, se è vera arte, anche se proviene da un luogo ben definito deve essere riconoscibile ovunque per la forza e la qualità del messaggio che contiene e per il livello e la fruibilità degli ascoltatori ovunque da New York a Buenos Aires, da Tokyo a Londra, da San Francisco a Palermo, da Napoli a Parigi.

Da qualche anno, la Red Records è tornata ad essere attiva sul mercato, grazie al nuovo editore, Marco Pennisi, che sta ripubblicando progressivamente l’intero catalogo in vinile e CD, insieme ad una serie di inediti.

Sergio Veschi (Photo Mirko Boscolo)
4 pensiero su “Intervista inedita del 2002 a Sergio Veschi fondatore con Alberto Alberti della Red Records”
  1. Non capisco niente di jazz, ma intuisco che Sergio Veschi è un monumento del jazz italiano. Vorrei potergli stringere la mano un giorno.

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