// di Francesco Cataldo Verrina //

Dannie Richmond è stato un ingranaggio fondamentale nelle dinamiche mingusiane, ma non solo come sideman di lusso e «uomo di spogliatoio». Il batterista newyorkese fu per il burbero Mingus un amico sincero e fidato, colui che lo seguiva anche nelle scorribande private e che ne stemperava gli eccessi caratteriali e gastronomici, sovente con ironia, ne attutiva l’irascibilità facendo da cuscinetto tra il contrabbassista e gli altri componenti della band quando gli animi si surriscaldavano. Con un passato da sassofonista ed una militanza negli ambienti R&B, Richmond aveva un modo tutto suo di suonare la batteria, che andava oltre le dinamiche del jazz. Tutto ciò aveva sedotto Mingus, non tanto perché il fido Dannie fosse in possesso di una tecnica impeccabile ma per via della sua innata capacità adattiva: bastava uno sguardo, un cenno e i due si capivano al volo, mentre il tempo ed il groove mutavano repentinamente. Dannie più che un sostegno ritmico, diventava un perfetto mediatore in grado di trascinare il line-up verso un’unità compatta, raffreddando i bollori delle primedonne con il suo modo di suonare fermo ed ostinato. Richmond, insieme a Dolphy, è stato il miglior alleato del genio di Nogales, con il vantaggio di essergli rimasto al fianco dall’inizio alla fine. Il suo sodalizio con Charles Mingus durò oltre vent’anni. Nessuno meglio di lui aveva appreso e metabolizzato la lezione del maestro, tanto che alla morte del contrabbassista, il Nostro era convinto, che sarebbe stato lui il designato successore dell’amico «Charlie». In effetti, Mingus non amava essere chiamato così, lo consentiva solo a lui e pochi altri. Le cose non andarono purtroppo, come raccontato su indicazione degli uffici stampa, quando fu allestita la prima Mingus Dinasty (band), nome mutuato dall’omonimo album del 1959. Dannie Richmond lasciò subito l’organico, gestito quasi dittatorialmente dalla seconda moglie del contrabbassista, Sue Ungaro, donna ambiziosa ed accentratrice che, per una sorta di gelosia inconscia, tendeva a limitare le ambizioni del batterista.

Al netto delle delle note ufficiali, i fatti andarono molto diversamente. Un mese dopo la morte di Charles Mingus, Dannie Richmond, si recò a chiedere a Max Gordon del Village Vanguard se poteva organizzare qualche serata con la vecchia band rimasta senza capo e senza lavoro. «Credo che, adesso che Charlie se n’è andato, il leader sono io», disse Dannie a Gordon. «Gli ultimi tempi avevo parlato a Charlie dicendogli che mi frullava in mente di venire, un giorno o l’altro, da te in cerca di lavoro. Qualche tempo prima, «La musica la conosci», gli aveva detto Mingus. «L’hai suonata con me per vent’anni. E so che i nostri hanno bisogno di lavorare». In quel periodo il contrabbassista abitava al quarantatreesimo piano di un grattacielo della Decima Avenue; l’infermiera che l’accudiva gli aveva acceso un sigaro, così dopo aver tirato qualche boccata, il contrabbassista aveva espresso parere favorevole: «Se c’è qualcuno che possa suonare la mia musica, Dannie, quello sei tu». Il batterista era rimasto entusiasta dell’assenso del vecchio capo malato, proponendogli di mettere al basso Eddie Gomez e di chiamare l’ensemble Dannie Richmond con il Charlie Mingus Jazz Workshop Quintet. «Per me è Ok», gli aveva ribadito Mingus, per il quale poteva andar bene, in fondo lasciava la sua eredità musicale a Dannie Richmond, da sempre, il più affezionato dei suoi collaboratori, ma per Gordon, che per il suo locale era portato a valutare sempre i costi ed i benefici, le cose stavano diversamente. I due erano seduti alla scrivania, nel retro del Vanguard, quando Richmond cercò di andare al sodo e definire l’ingaggio: «Senza Charlie sul palco, chi vuoi che venga a sentirvi?», aveva sogghignato il gestore del locale. «Molti, vedrai», aveva assicurò Dannie. «La musica sarà la stessa di prima. Gli strumentisti saranno gli stessi che lavoravano con Charlie. Con Eddie Gomez al basso, la musica sarà di prim’ordine.»

In quell’occasione Gordon si premurò di sottolineare che Richmond non era Mingus e che la gente non andava al Village soltanto per sentirne la musica, ma anche per vederlo in azione. In genere, stavano lì seduti in attesa che gli venisse uno dei suoi accessi di furore, quando fermava la band di botto, nel bel mezzo di un pezzo, per mettersi a inveire contro i membri del gruppo perché aveva sentito qualcosa che non gli andava a genio. Il pubblico restava affascinato. Max Gordon, titubante all’inizio, aveva deciso, però, di concedere un’opportunità al vecchio amico Dannie, uomo di fiducia di Mingus, batterista di pregio, persona garbata e, certamente, non insistente o arrogante. Le cose, presto, si complicarono. Un paio di settimane dopo, il telefono di Gordon squillò. All’altro capo del filo, una voce di donna si presentò come la segretaria della signora Mingus: «Ho sentito che lei ha in mente di scritturare Dannie Richmond per il Vanguard utilizzando il nome di Mingus, se lo farà, la signora Mingus si aspetta che il venticinque per cento del compenso che lei darà a Richmond sia tenuto da parte e messo a sua disposizione, se non vuole che chieda l’annullamento del contratto. Ha capito? Diversamente, la signora Mingus si rivolgerà ad un avvocato». Appresa la notizia, Richmond rimase perplesso dicendo: «È tipico di Sue! Non sapevo che Charlie l’avesse sposata». Dannie aveva appena esordito al Village Vanguard il 6 febbraio del 1979, quando Sue comunicò che non avrebbe tollerato di essere lasciata fuori, poiché la legge era dalla sua parte; soprattutto, facendo sapere che anche lei era in procinto di mettere insieme alcuni membri del workshop mingusiano, tanto che presto avrebbe costituito una nuova formazione chiamata Mingus Dynasty Band, magari con Richmond alla batteria, ma tenendo per sé la direzione dell’organico. Le due parti giunsero ad un accordo ma i dissapori iniziarono quasi subito, soprattutto a Dannie non andava bene proprio quel 25% che lei pretendeva di diritto, soprattutto non tollerava di essere comandato da una donna che non conosceva una riga del repertorio di Mingus.

Chiusa la parentesi con la Mingus Dynasty, Richmond proseguì per la sua strada, scrivendo alcune delle pagine più belle della storia del jazz post-mingusiano, di cui «Dionysius», recentemente ristampato dalla nuova Red Records di Marco Pennisi, insieme a «Ode To Mingus» del 1979, resta uno dei momenti più alti della sua discografia. Siamo nel maggio del 1983, ed approfittando di un passaggio in Italia del Dannie Richmond Quintet, Alberto Alberti e Sergio Veschi proposero al batterista ed al suo line-up di registrare per la loro etichetta. I musicisti si ritrovarono allo studio Cavalieri Bari, dando vita ad una sessione memorabile. Ricky Ford sassofono tenore, Jack Walrath tromba, Bob Neloms pianoforte e Cameron Brown basso sotto l’egida di Dannie Richmond alla batteria, pur non utilizzando il repertorio del contrabbassista tout-court, riuscirono a farne rivivere lo stesso mood e la medesima magnificenza orchestrale. «Dionysius», titolo emblematico riferito al dio greco Dioniso, chiamato Bacco dai Romani, legato alla linfa vitale che scorre nelle piante, ma identificato soprattutto come dio dell’estasi, del vino, dell’ebbrezza e della liberazione dei sensi, divinità rappresentativa dell’essenza creativa nel suo perenne e selvaggio fluire, nonché spirito divino di una realtà smisurata. Somaticamente ibrido e dalla multiforme natura maschile e femminile, animalesca e divina, tragica e comica, Dioniso incarna, nel suo delirio mistico, la scintilla primordiale e istintuale presente in ogni essere vivente. Una descrizione mitico-epica che corrisponde quasi alla lettera all’essenza del jazz di scuola mingusiana, di cui il disco in oggetto diventa la perfetta epitome. Già dalle prime note dell’opener, s’intuisce che il quintetto non avrebbe lasciato aria ferma. «Flyng Colors», a firma Ricky Ford, mette in evidenza un fertilizzato humus mingusiano con i fiati all’unisono che entrano ed escono, per poi dipanarsi singolarmente in brevi fughe improvvisative, sostenuti da un possente groove che non fa prigionieri, tra cambi di tempo e passaggi di consegne che si dilatano in una sonorità da big band. La seconda traccia, nonché title-track, «Dionysius», scritta dallo stesso Richmond secondo gli insegnamenti del mentore, mostra subito un afflato melodico più diretto e coinvolgente, ma le regole d’ingaggio non mutano: i fiati giocano a tutto campo, si stuzzicano, si scontrano frontalmente e lateralmente, talvolta con uno schema abrasivo e free form, senza perdere mai, però, le coordinate del tracciato accordale o le linee guida dettate dalla retroguardia ritmica, che richiama presto l’esuberante prima linea agli intendimenti melodici iniziali, con una girandola di cambi di passo impressionante.

La prima facciata dell’album si chiude con «Hi Jinks», firmata dal trombettista Jack Walrath, che irrompe subito con una fanfara infuocata a strappi quasi funkified, mentre Richmond usura oltremodo il kit percussivo: Il tutto si sviluppa sulla scorta di un inarrestabile overclocking attenuato per qualche secondo dall’effluvio pianistico di Bob Neloms, mentre i due ottoni suonano come se non ci fosse più un domani. La B-Side si pregia di due classici del repertorio di Mingus. Il primo è «Three Or Four Shades Of Blues», contenuto nell’omonimo album del 1977, composizione basata su tutte le modularità mingusiane, fitta di improvvisi avvallamenti e risalite veloci, arditi interscambi e complesse soluzioni ritmico-armoniche, ben metabolizzate dall’organico guidato da Richmond. Infine «Peggy’s Blue Skylight», da «Mingus Oh Yeah», una struttura proteiforme dal complesso sistema orchestrale che si muove agilmente fra swing, reminiscenze bandistiche e tentazioni latine. Richmond e soci insanguano entrambe le composizioni del contrabbassista di Nogales di inediti spunti e di nuova linfa vitale. Ancora onore e gloria alla Red Records per aver riportato in auge un piccolo gioiello di jazz. Sono passati poco più di quarant’anni, ma «Dionysius» del Dannie Richmond Quintet ci ricorda che ci fu un tempo in cui si poteva usare la parola jazz senza doverla giustificare o camuffare attraverso sofismi e artifici linguistici o concettuali di varia natura. Benvenuti al banchetto degli Dei dell’Olimpo!

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