Alberto Arienti Orsenigo, tempo passato alla ricerca di «tesori» vinilici

// di Guido Michelone //
Conoscere bene il jazz in Italia significa anche dialogare con chi vive da sempre questa musica quale ascoltatore (e collezionista di long playing) e solo di recente grazie al web interviene con cognizione di causa, aggiornando o creando siti e forum dove discutere liberamente, pur con il pericolo di interventi volgari, maleducati, inopportuni che si celano dietro l’angolo e che nascondo, dietro l’aggressività, una forte presunzione e un’altrettanto grossa incompetenza. Dalla sua «Pagina del jazz», Alberto Arienti Orsenigo tenta invece di porre le questioni su livelli di serietà e autorevolezza, non disdegnando, se provocato, risposte al file, legittimamente meritatissime, quando a cianciare sono non gli esperti bensì i ‘provocatori del jazz’.
D In tre parole chi è Alberto Arienti Orsenigo?
R Un pensionato che ha diversi interessi, spesso poco approfonditi, come la musica o la pittura.
D Raccontaci di più della tua vita professionale e del tuo rapporto con la musica.
R Ho passato gran parte della mia vita lavorativa in una società di telecomunicazioni, seguendo il mercato estero delle centrali telefoniche, sopratutto per il centro e Sudamerica, ma non solo. Ho sempre amato la musica sin da bambino, ho fatto il cantautore da cameretta e poi, grazie alla mia attività lavorativa, ho potuto conosce la musica latino-americana direttamente sul posto.
D Come e quando hai conosciuto il jazz e come nasce e cresce la tua passione per questa musica?
R Un’estate in montagna, a 10 anni, grazie ad una cugina più grande: pomeriggi passati a suonare dischi di rock&roll ma anche di Armstrong, Ella, Goodman ecc. Poi mio fratello ha portato in casa l’album “Ella and Louis“, qualcosa di Peterson e Mulligan. Poi sono andato avanti da solo aiutato dalla rivista “Musica Jazz” e da qualche trasmissione radio; ricordo quella di Mazzolletti, di Nunzio Rotondo e anche Renzo Nissim.
D Ma quando è avvenuto il vero salto?
R Con la lunga serie di concerti dati al Lirico, nell’ambito del Festival del jazz, ma anche come eventi unici. Allora si poteva entrare pagando il biglietto d’ingresso in piedi e al Lirico in galleria c’erano delle scale comodissime e poi non era mai pieno e alla fine ti sedevi tranquillamente su una poltrona, tanto le maschere non dicevano niente. E poi sono cominciati i viaggi per assistere a concerti importanti, i tentativi di fare coincidere la ferie in modo tale da poter fare tappa a Umbria jazz. Per non parlare dei tanti concerti che si beccavano a Milano nei vari festival politici (del PCI, della gioventù comunista, della sinistra alternativa ecc). Un discorso a parte meriterebbe il tempo passato tra negozi e bancarelle alla ricerca di “tesori” vinilici.
D Come definiresti il jazz?
R Musica con una forte connotazione ritmica e ballabile, con grande spazio all’improvvisazione, basata su una tradizione afroamericana in continua dialettica.
D Ha ancora un senso oggi la parola jazz?
R Finché non se ne trova una migliore, si. Direi che bisognerebbe combatterne l’abuso.
D E si può parlare di ‘jazz italiano’? Esiste qualcosa di definibile come ‘jazz italiano’?
R Dicesi jazz italiano quello suonato da italiani. A parte gli scherzi è difficile pensare a un jazz con caratteristiche nostrane, che poi dovrebbero essere quelle melodiche della nostra opera lirica. Gaslini ha provato a suonare il folk italiano a jazz, ma in fondo era più Gaslini che folk italico. Enrico Rava ha suonato spesso l’opera (e anche Danilo Rea successivamente) ma qquesti tentativi mi sono sembrati un po’ sterili, quasi frenati dalla ricerca programmatica di una vena melodica che i jazzisti hanno sempre tenuto a bada.
D Parlateci della tua attività molto combattiva sui social
R La combattività era soprattutto iniziale,frutto anche di una scarsa conoscenza delle dinamiche dei social. Adesso sono più conciliante. Quanto alla “pagina del jazz” è una creatura che ho ereditato da Sergio Veschi e Giovanni Monteforte, stanchi di polemiche. Io ho cercato di smorzare i toni combattivi che avevano impresso alla pagina i due fondatori, cercando di renderla pagina più aperta a tutte le opinioni.
D Spesso sui social intervieni duramente o polemicamente a fronte di interventi in effetti imbarazzanti per usare un eufemismo: come mai c’è così tanta ignoranza sul jazz anche da parte di chi si crede un intenditore?
R Penso di non intervenire più in maniera particolarmente polemica (questo ruolo lo lascio al mio amico Marco Bertoli che è più elegantemente pungente). Per quanto riguarda l’ignoranza, direi che i social hanno dato licenza di scrivere a tutti, per cui la critica seria è rimasta soffocata dagli appassionati, tendenzialmente faziosi. Anch’io sono della stessa categoria, solo che sono un po’ più prudente.
D Cosa distingue per te l’approccio al jazz di americani e afroamericani da noi europei?
R Loro sono molto più in sintonia con l’aria dei tempi, anche se ormai c’è una certa mondializzazione della musica e, in assenza di vere ed importanti nuove correnti, l’accademia tende ad incombere in ogni latitudine.
D Il jazz deve parlare, attraverso i suoni, di temi sociali, politici, ambientali, filosofici?
R I temi sociali, politici ecc al massimo si fermano a qualche titolo o qualche declamazione con sottofondo (vedi Mingus o Shepp). Per affrontare, anche blandamente questi temi, occorrerebbero delle ballads ad hoc, ma il jazz vocale è da tempo minoritario (e spesso è solo un trampolino per il pop adulto). E non si può sempre avere una Billie Holiday che ci parla di strani frutti. In questo senso il rock ha saputo meglio interpretare i nostri tempi, non so se per convinzione o paraculismo.
D Come vivi da ascoltatore e da critico il jazz in Italia anche in rapporto alle tue esperienze sul territorio milanese?
R Da pessimista sulle sorti del jazz, sto un po’ alla finestra, incredulo che esistano ancora tanti bravi musicisti con la voglia di esprimersi in un mondo sempre più superficiale.
D Cosa pensi dell’attuale situazione in cui versa la cultura italiana (di cui il jazz ovviamente fa parte da anni)?
R La vecchia cultura accademica non ha ancora saputo inserirsi nella ragnatela digitale, per rendere più accessibili tematiche di qualità ed ha lasciato quindi tanto spazio ad orecchianti disinvolti, molto abili nella comunicazione e telegenici. La sperimentazione si confonde spesso col dilettantismo e sembra spostarsi in rete, mentre i luoghi tradizionali della cultura (teatri, gallerie, associazioni, librerie) sembrano cercare il quieto vivere. In assenza di grandi maestri, si tende ad ingigantire quello che passa il convento.
D E i politici che attualmente (2024) siedono a Palazzo Chigi cosa fanno (o non fanno) per il jazz?
R L’attuale governo, invece, è tutto proteso a ripristinare la grande tradizione del passato, solo che lo fa con spirito di rivincita reazionaria e con personale di seconda scelta.
