// di Gianni Morelenbaum Gualberto //

Isaiah J. Thompson, pianista di interessante vigore creativo, ha appena pubblicato “A Guaraldi Holiday”, un album celebrativo -assai pregevole- dedicato alla musica di Vince Guaraldi, non casualmente in coincidenza con le festività natalizie, perché per molti appassionati di musica americani il nome di Guaraldi non va disgiunto dal Natale, tale è stato il legame creatosi fra l’artista e l’immaginario collettivo del Paese. Come afferma lo stesso Thompson: “Ancora oggi, ogni volta che ascolto ‘Christmas Time Is Here’, ‘Thanksgiving Theme’ o ‘Linus and Lucy’, mi viene in mente quanto la musica di Guaraldi abbia plasmato ciò che sono oggi”. (…) “Le festività portano con sé molti dei miei ricordi più preziosi e non riesco a immaginarle senza Guaraldi. Voglio rendergli omaggio perché per molte persone credo che Vince Guaraldi sia stato la loro introduzione alla grande musica e al jazz”.

Mi è capitato di riascoltare un’edizione ampliata della sessione discografica in cui Vince Guaraldi incise “Jazz Impressions of Black Orpheus” (Craft Recordings, Small Batch Series): un lavoro che avrebbe regalato meritatamente una grande popolarità all’artista, grazie soprattutto ad una composizione, “Cast Your Fate to the Wind”. Oggi pochi ricordano questo pianista, che pure seppe, per quanto brevemente, rappresentare in modo illusorio ma poetico un’intera epoca, legando il suo nome e quello di una musica malinconicamente ottimista ad altre creature storicamente rappresentative, come le creazioni di Charles Schulz.

Vince Guaraldi muore nel 1976, qualche anno dopo rispetto all’epoca di cui egli aveva fatto intimamente parte e di cui era diventato un’icona senza che forse se ne rendesse pienamente conto. Non è un caso che il suo nome goda di una “voce” tutta sua nella The Encyclopaedia of Sixties Cool: A Celebration of the Grooviest People, Events, and Artifacts of the 1960s di Chris Strodder (Santa Monica Press, Santa Monica, CA 2007, pag. 135-136), a fianco di Adam West (Batman), Robert Vaughn (The Men from U.N.C.L.E.), i Rolling Stones, Lalo Schifrin, The Mamas and The Papas, Elke Sommer, Dyan Cannon, i Beach Boys, Peter O’Toole, Michelangelo Antonioni: “Questo jazzista leggero ha fatto la musica per i classici speciali di Charlie Brown. Nonostante tutte le loro rivoluzioni e la musica rock, gli anni ’60 avevano un lato dolce che offriva un delicato contrappunto a tutto ciò che era alla moda e all’avanguardia. Forse il più dolce e gentile di tutti fu il travolgente successo di Charlie Brown. “Happiness is a Warm Puppy”, una piccola versione con copertina rigida del fumetto di Charles Shulz, fu il libro più venduto del ’63, i personaggi dei Peanuts furono commercializzati su qualsiasi cosa, dai gioielli ai secchi della spazzatura ai contenitori per il pranzo, e molti degli “special” televisivi su Charlie Brown divennero istantaneamente dei classici.

Vince Guaraldi

L’uomo dietro la musica memorabile di quegli speciali televisivi era Vince Guaraldi. Un pianista di San Francisco soprannominato Dr. Funk, Vince aveva suonato come backup su dischi jazz nei primi anni ’50 ed era diventato un’attrazione popolare nei migliori locali notturni della città. Dopo aver formato il suo trio, Vince organizzò una tournée ottenendo un grande successo e conquistando un Grammy nel ’63 con l’intramontabile “Cast Your Fate to the Wind”. Le sue melodie aggraziate e gli arrangiamenti rilassati fornivano un accompagnamento perfetto per A Charlie Brown Christmas nel ’65: a differenza di altri cartoni animati, che erano caratterizzati da una comicità plateale, da musica aggressiva, da attori adulti e persino da risate pre-registrate, quello “special” animato si mostrò sofisticato, con un messaggio religioso, musica serena, attori bambini e nessuna traccia di risate finte. Lo spettacolo fu un successo mostruoso, vinse un Emmy e un Peabody e generò dozzine di “special” simili ispirati a Schulz, tra cui il perenne successo di Halloween, “It’s the Great PumpkinCharlie Brown”. La musica di Vince accompagnò il film “A Boy Named Charlie Brown” (’69) e altre colonne sonore dei Peanuts fino alla sua morte per infarto nel ’76 (il giorno in cui morì stava completando la musica per “It’s Arbor Day, Charlie Brown”). Nel frattempo “Linus and Lucy”, l’esuberante strumentale sul quale i bambini ballavano nel primo “special” natalizio, veniva inciso innumerevoli volte da altri artisti e “Christmas Time Is Here” diventava un successo fisso delle festività natalizie. I dischi di Vince non dedicati ai Peanuts esploravano diversi stili musicali e annoveravano pure i suoi esperimenti come cantante e chitarrista. Uno dei suoi concerti più insoliti fu un’esibizione jazz nell’intervallo di una partita di football della Stanford University nel ’63: la maggior parte dei presenti si trovarono ad ascoltare per la prima volta un concerto amplificato dal vivo in uno stadio.”

Oggi, come si è detto, Vince Guaraldi è, per i più, una nota a piè di pagina del jazz americano e anche il ricordo degli anni Sessanta è, almeno da noi, alquanto sbiadito o interpretato con sufficienza, cosa che difficilmente si può dire, invece, per ciò che riguarda l’immaginario americano, che su quella decade, più ancora che sul cosiddetto “’68”, ha saputo costruire un fenomeno culturale, politico, etico ed estetico che, pur costellato di illusioni e delusioni, ha lasciato segni cospicui non solo nella cultura americana.

La piccola icona che fu Vince Guaraldi, ma forse meno piccola di quanto si potrebbe credere (in fin dei conti, il secondo disco di jazz più venduto di sempre, “A Charlie Brown Christmas” con i suoi oltre quattro milioni di copie, porta la sua firma), non nacque perciò dal nulla. La sua fu una voce fortemente rappresentativa degli anni Sessanta e la sua arte matura -un connubio fra ingenuità, spontaneismo, boogie-woogie (forte era l’influenza di Jimmy Yancey), bebop, musica popolare brasiliana, influenze afrocubane, rock ‘n’ roll- è difficilmente interpretabile e comprensibile al di fuori di quel contesto, che egli non seppe o non volle trascendere. Non casualmente, infatti, un musicista estremamente preparato ma non particolarmente originale o memorabile come Ethan Iverson (che oggi possiamo considerare il risvolto assai bianco di Stanley Crouch, altrettanto preparato e molto colto, assai più pedante come scrittore e come studioso) si esprime molto criticamente a tal proposito, paragonando Guaraldi sfavorevolmente rispetto a Hampton Hawes e Jimmy Rowles (Ethan Iverson, “Deck the Halls with Vince Guaraldi”, The New Yorker, 30 novembre 2017). In effetti, per quanto abile e fantasioso strumentista, Guaraldi non aveva doti trascendentali. Resta da chiedersi perché abbia lasciato nell’immaginario collettivo americano una traccia assai più forte di Hawes, Rowles e, sicuramente, di Iverson, che pure gli riconosce di avere influenzato -con l’approccio diatonico di derivazione folclorica esemplificato da “Cast Your Fate to the Wind”- artisti quali Gary Burton, Keith Jarrett, Pat Metheny . Probabilmente perché la sua arte, ottimista e perciò accogliente più che accessibile, va letta e interpretata al di fuori del contesto cosiddetto “jazzistico”, come peraltro bene esplicita Isaiah J. Thompson, che nelle sue riletture estrae tutte o quasi le varie influenze riscontrabili nel pianismo di Guaraldi (cosa, ad esempio, che evitava di fare George Winston, autore di due tributi al pianista in cui soprattutto si sottolineava la modernità del suo contributo compositivo).

Non era venuto dal nulla, si diceva. Guaraldi nasce Vincent Anthony Dellaglio nel 1928, a San Francisco, a North Beach, la Little Italy della città. Erano all’incirca gli anni in cui James M. Cain ambientava “Mildred Pierce” e descriveva il nuovo contesto suburbano della California, whitewashed e lontano dall’idea architettonica del “pueblo”, più incline a far risaltare la pretesa aristocrazia di una presunta eredità europea: “Nella primavera del 1931, in un prato di Glendale, in California, un uomo stava sistemando degli alberi. (. . .) Si chiamava Herbert Pierce. (. . .) Era un prato come migliaia di altri nel sud della California: una distesa d’erba in cui crescevano alberi di avocado, limoni e mimose, con cerchi di terra vangata intorno. Anche la casa era come le altre del suo genere: un bungalow spagnolo, con pareti bianche e tetto di tegole rosse. (. . .) Il soggiorno in cui entrò corrispondeva al prato che aveva appena lasciato. Si trattava infatti del salotto standard che i grandi magazzini indicano come adatto a un bungalow spagnolo, e consisteva in uno stemma di velluto cremisi, esposto alla parete; drappi di velluto cremisi, appesi a lance di ferro; un tappeto cremisi, con bordo figurato; un divano davanti al camino, affiancato da due sedie, tutte con schienale dritto e sedute goffrate; un lungo tavolo di quercia che reggeva una lampada con paralume in vetro colorato; due lampade da terra in ferro, in tinta con le lance, con paralumi in seta cremisi. (. . .) Sul lungo tavolo c’era un libro, intitolato Cyclopedia of Useful Knowledge, stampato in oro e disposto su un’interessante diagonale.”

Nell’epoca della grande immigrazione, il nucleo centrale dell’enclave italiana di San Francisco (città in cui, non casualmente, la diffusione e l’apprezzamento marcato della musica operistica risalgono già a metà Ottocento, nel pieno della Corsa all’Oro) si trovava a North Beach/Telegraph Hill, una zona di proletariato e piccola-borghesia. Sebbene non sia segnato da perimetri ben definiti, il distretto può essere vagamente circoscritto all’interno di venticinque isolati tra Broadway e San Francisco Street da un lato e Grant Avenue e Jones Street dall’altro. Gli zii materni di Guaraldi (che doveva il cognome al secondo marito della madre), Joe e soprattutto Maurice “Muzzy” Marcellino, godevano di una certa notorietà fra San Francisco e Los Angeles, come musicisti e band leader. La sua giovinezza trascorre fra un apprendimento della musica da autodidatta, il servizio militare di due anni in Corea e, al ritorno, una gavetta fatta di piccoli ingaggi e lavori occasionali. Il vero inizio della sua carriera avviene nel 1951, quando sostituisce John Marabuto come pianista nel trio di Cal Tjader. Nelle prime incisioni con il vibrafonista, il suo pianismo, influenzato da Bud Powell e poi da Red Garland (in un’intervista a Ralph J. Gleason, nel 1958, egli indicò in Earl Hines, Horace Silver, Erroll Garner, Art Tatum e Oscar Peterson i suoi modelli), è generoso, agile e spontaneo, talvolta quasi torrenziale, e caratterizzato da un approccio melodico estremamente originale che arricchisce una delicata, fanciullesca vena impressionista curiosamente a suo agio anche in contesti ritmicamente più aggressivi come quelli latinoamericani e soprattutto afrocubani. Guaraldi lavora quasi un decennio con Tjader, affinando anche le doti d’accompagnatore, non sempre il punto forte di chi possiede una spiccata facondia. Al contempo partecipa a incisioni ed esibizioni con Eugene Wright, Stan Getz, Scott LaFaro, Chico Hamilton, Bill Holman, Woody Herman, Jimmy Witherspoon, Ben Webster, Lighthouse All-Stars.

L’esperienza nel gruppo di Tjader spalanca a Guaraldi le porte delle tradizioni musicali latinoamericane e afro-cubane, che il pianista assimila con notevole facilità prima dell’incontro, non meno intenso, con la musica brasiliana, più specificamente con la bossa nova, per tramite delle musiche scritte da Antonio Carlos Jobim e Luis Bonfá per il film “Orfeu Negro”, diretto nel 1959 da Marcel Camus. Guaraldi vide il film più di una volta e acquistò l’incisione della colonna sonora: fra il novembre 1961 e il febbraio 1962 registrò l’album “Jazz Impressions of Black Orpheus”(https://www.youtube.com/watch?v=zUtQSeaAmmg…), che fu accolto da un notevole successo di pubblico e critica, nonostante l’approccio del pianista non si discostasse dall’ambito dell’improvvisazione jazzistica: “Ho apprezzato la colonna sonora di ‘Black Orpheus’, e ho apprezzato ‘Samba de Orpheus’. È il primo brano che ho ascoltato. Ho apprezzato il brano e la scena del film. Poi ho potuto ascoltare tutta la colonna sonora e ho immaginato il lavoro che avrei potuto fare. In realtà, ho suonato più brani dal film per molto tempo, prima di avere chiaro in mente cosa fare. La Fantasy Records aveva più volte espresso il desiderio di ricavare qualcosa di particolare dalla colonna sonora, e aspettava che qualcuno lo facesse. [. . .] Reputavano che poteva risultare in un buon lavoro. [. . .] Non necessariamente solo jazz [. . .]. [. . .] In effetti, quando ho detto che avevo in mente qualcosa di impronta jazzistica, sono rimasti un po’ sorpresi, perché non pensavano nemmeno che fosse una musica adatta al jazz.”

“Jazz Impressions of Black Orpheus” segnò una svolta nella carriera di Guaraldi. Il successo, come già accennato, fu enorme, in gran parte dovuto alla popolarità del singolo “Cast Your Fate to the Wind” (https://www.youtube.com/watch?v=rTA3aOfrDHA), una delle due composizioni originali incluse nell’album. Il singolo raggiunse la posizione numero ventidue della classifica “Hot 100” di Billboard nel febbraio del 1963 e valse a Guaraldi un Grammy Award per la migliore composizione originale jazz. Visto che per molti oggi Vince Guaraldi è un Carneade, tale popolarità potrebbe sembrare frutto di un’operazione commerciale come tante, frequenti nell’ambito della discografia d’evasione. In realtà, senza dare prova di una visione estetica particolarmente innovativa, cosa cui peraltro l’autore non aspirava, l’album evidenzia ancora oggi una mirabile e istintiva capacità di leggere più tradizioni fra le righe, coniugandole contemporaneamente come un tutt’uno: idioma jazzistico, ritmi afrocubani e flessibilità melodica brasiliana concorrono a creare un linguaggio di peculiare grazia e di incantevole levità, che troverà ulteriore maturazione, fra il 1962 e il 1965, nella fruttuosa collaborazione del pianista con l’eccellente e sottovalutato chitarrista brasiliano Bola Sete.. Se però Guaraldi è entrato (e a pieno titolo) nell’immaginario collettivo di almeno una generazione americana, ciò è avvenuto grazie a un incontro che doveva evidenziare la natura delicata, fragile, naif ma squisita e commovente della sua fantasia compositiva.

Il successo di “Cast Your Fate to the Wind” (https://www.youtube.com/watch?v=p_etFsZ72Mk) offrì a Guaraldi diverse opportunità per coltivare e perfezionare il suo stile musicale. Nel 1963 incise per la Fantasy “The Latin Side of Vince Guaraldi”, un album che metteva ulteriormente in evidenza le sue influenze cubane e brasiliane. Il 25 maggio 1965, presso la Grace Cathedral accompagnò (e incise per la Fantasy: “The Grace Cathedral Concert”) una messa episcopale con composizioni originali che aggiungevano il ritmo e l’armonia del jazz alle melodie del canto gregoriano e del canto monofonico anglicano intonate da un coro di 68 elementi della St. Paul’s Church of San Rafael, un tentativo della chiesa locale di veicolare temi religiosi in un contesto in cui la cosiddetta “controcultura” affermava con crescente successo nuovi concetti di laicità. Come ulteriormente prova un lavoro discografico del 1969, per la Warner Bros., “The Eclectic Vince Guaraldi”, in cui il pianista suona anche la chitarra e canta due canzoni di Tim Hardin, o il successivo “Alma-Ville” (prodotto da Shorty Rogers), a Guaraldi interessava relativamente essere ricordato per quello che era, cioè un eccellente jazzista: egli rifletteva, forse in modo confuso, tempi entusiasmanti e difficili da leggere, in cui il rifiuto di tutto ciò che era borghese abitudine inveterata e consolidata era di prammatica. In effetti, a ben vedere, il suo superbo e applaudito lavoro per la serie dei Peanuts, per quanto intrisa di valori appartenenti al linguaggio improvvisativo, era intrinsecamente un’opera di controcultura per un musicista profondamente e genuinamente interessato al pop e soprattutto al nascente rock (come dimostra un’incisione pubblicata solo nel 2011, “An Evening with the Vince Guaraldi Quartet”, ma che contiene delle registrazioni di spettacoli dal vivo tenuti nel 1967).

Le prime incisioni per gli short televisivi dei Peanuts ebbero luogo nell’ottobre del 1964 e dovevano accompagnare un documentario sulla popolare striscia a fumetti. Sebbene il documentario non verrà mai realizzato durante la vita di Guaraldi, esso portò comunque alla produzione di “A Charlie Brown Christmas” (https://www.youtube.com/watch?v=_fh133ZO1AE…) nel 1965, una colonna sonora che, come già detto, entrò da allora a far parte dell’immaginario culturale americano. Il pianista firmò le colonne sonore di tutti i successivi filmati dei Peanuts prodotti durante la sua vita, e molte di queste registrazioni sono state pubblicate in album separati (“Jazz Impressions of A Boy Named Charlie Brown”, “A Charlie Brown Christmas”,“Charlie Brown’s All Stars!”, “It’s the Great Pumpkin, Charlie Brown”, “A Boy Named Charlie Brown”, “Charlie Brown and Charles Schulz”, “Play It Again, Charlie Brown”, “A Charlie Brown Thanksgiving”, “You’re a Good Sport, Charlie Brown”, “It’s Arbor Day, Charlie Brown”). Se da un lato Guaraldi esibisce, in quest’ambito, una malinconica ricerca dell’innocenza che coglie con grande acutezza certi aspetti della poetica di Schulz, allo stesso tempo egli non rinuncia alla sua personalità di artista cresciuto con l’idioma jazzistico, soprattutto egli mantiene quella vena latina – sia brasiliana che afro-cubana- che, per tanti versi, come l’eco del pianismo di Red Garland, rimarrà uno dei suoi tratti più frequenti e riconoscibili. Nelle note di copertina per l’album “The Latin Side of Vincent Guaraldi”, Ralph J. Gleason narra e commenta: “Mentre stavamo riascoltando questo brano, ho detto a Vince che [. . .] egli ora possiede quella qualità misteriosa nel suo modo di suonare che contraddistingue un vero esecutore originale. Si capisce sempre quando si tratta di Vince. “Ho trovato quel suono quando mi sono messo in proprio”, ha detto. “È il centro dei miei pensieri. In realtà non sono un pianista latino. È solo che ho delle impressioni sulla musica latina per aver lavorato in un gruppo latino. Mi piace la musica e la sensazione della musica. Quindi, quando faccio una cosa latina, è latina, in realtà, solo nel senso che mi piace la musica. Musicalmente, capisco quello che dicono e la musica riflette la lingua, come sai”.

Quando il Natale si avvicina, il nome di Guaraldi torna a farsi sentire, come la sua musica, che in realtà non ha nulla di natalizio, ma secerne un desiderio di purezza e di fragile, serena affabilità. La sua arte, ben più interessante di quanto si dica, è rivestita di un abito improvvisativo mainstream di buona, spesso ottima, fattura, ma soprattutto ci parla con un senso di meravigliosa fanciullezza di San Francisco e di un’epoca in un cui la città assorbiva i sogni, le speranze, gli ideali, le aspirazioni e le illusioni di un’America che pensava di avere finalmente ritrovato la sua innocenza.

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