// di Bounty Miller //

La stampa americana scriveva di Eraldo Volonté: «Grazie a musicisti come lui, il jazz è diventato una musica importante e unica, anche in Italia». Eraldo Volonté è stato uno dei migliori sassofonisti italiani, sicuramente il suo stile, il suo timbro ed il suo fraseggio richiamavano a volte gli sperimentatori e gli avanguardisti afro-americani. A differenza di molti suoi coevi che guardavano con più interesse al West-Coast Jazz e alla scena Californiana, Eraldo era molto più attratto ai fermenti sonori provenienti dalla Grande Mela. Un dettaglio non trascurabile. Nel suo approccio all’improvvisazione non è difficile cogliere alcuni aspetti dello musica di Coltrane. Molte le sue iniziative tese a favorire lo sviluppo dei nuovi linguaggi del jazz in Italia. «My Point Of View», letteralmente il mio punto di vista, è uno spaccato fedele, forse una summa di quella che era la sua visione del jazz in quello scorcio di anni ’60, dove anche l’Europa riceveva gli stimoli provenienti dalla «New Thing», ma con grande difficoltà riusciva a muoversi su un terreno obliquo e trasversale per ovvi motivi sociali ed ambientali.

Analizzando con attenzione le pubblicazioni di Eraldo Volonté s’intuisce subito che i tutti i suoi album, pubblicati fra gli anni 50 e gli anni 60, si muovono perfettamente e naturalmente su una linea di sviluppo non dissimile da quella statunitense, a differenza di altri artisti italiani, per lungo tempo legati ad uno sistema esecutivo tradizionale molto swing-swing, e poi bruscamente migrati verso moduli espressivi più sperimentali. Nella carriera di Eraldo Volonté ci sono album più votati al melting-pot sonoro come «Safari», dove emerge una marcata componente ritmica di tipo africano con un procedimento non dissimile a quello adottato da molti jazzisti nero-americani. «My Point Of View», che rimane probabilmente uno dei dischi più riusciti della sua variegata attività, si sostanzia come una terra di confine fra un hard-bop in fase evolutiva ed alcuni timidi esperimenti atti a svincolarsi dalle regole e dalle normative vigenti del jazz mainstream una sorta di volo libero controllato, dove l’improvvisazione non sconfina mai nell’impossibile e la melodia, sia pure cangiante e con molte variazioni sul tema, resta sempre fissata a dei precisi punti di ancoraggio.

Registrato a Milano, nel novembre 1963, (ad eccezione della traccia 2 della seconda facciata «Some Other Blues» fissata su nastro nel in maggio dello stesso anno), l’album vede la partecipazione oltre che di Eraldo Volonté al sax tenore, anche di Renato Sellani al piano, Giorgio Azzolini al basso e Lionello Bionda alla batteria. «My Point Of View» si apre con un’inaspettata versione di «Summertime», corroborata nella forma e nella sostanza, con una sezione ritmica, basso e batteria che avallano il percorso trasversale del sassofono, con la complicità del piano che sembra reinventare la melodia, per poi fornire un assist perfetto al tenore di Volontè il quale si innalza in un volo pindarico da manuale; a seguire la classica «Green On Dolphy Street», riproposta sotto forma di ballata mid-range, ma con un lavoro sulla melodia che a tratti ricorda Ornette Coleman; in «You Are A Waver Of Dreams» Eraldo sfodera la cifra stilistica dei grandi sassofonisti, in grado di saper modellare le ballate sul filo delle emozioni, tra pathos e liricità da antologia.

La B-side esordisce con «So What», un omaggio a Miles Davis, ma con intenti tutt’altro che cool, i riff dell’inciso dove il sax sostituisce virtualmente la tromba sono caldi e taglienti, soprattutto nella fase improvvisativa, Volonté esplode in un progressione energica, quasi a voler marcare le distanze dall’originale; l’album si chiude con «Some Other Blues» è un trascinate hard-bop up-tempo con un’impostazione di base assai classica: presentazione del tema ed a seguire un sequenza di assoli ad appannaggio di tutti gli strumentisti, ma con una nota caratteriale fornita dalle impennate del sassofono che non sono per nulla tradizionali e prevedibili. «My Point Of View» è sicuramente una degli album più belli del jazz italiano di tutti tempi, non distante da tanti acclamati prodotti americani. Io se fossi in voi non le lo lascerei scappare.

Come già chiarito il suo stile, il suo timbro ed il suo fraseggio richiamavano a volte gli sperimentatori e i dirottatori statunitensi. Nel suo modus operandi sono facilmente enucleabili aspetti dello musica di Coltrane e di Ornette, sia pure così distanti e contrastanti fra di loro. «Jazz (Now) In Italy» è uno mirror della personalità creativa ed espressiva di Eraldo Volonté. L’iniziale «Eclypso», indugia subito verso qualche atmosfera post-ornettiana, ad Ornette Coleman è dedicato il brano di apertura della seconda facciata dall’inequivocabile titolo «Ornette»; forse lo stesso Coleman non avrebbe potuto o saputo fare di meglio. Volonté dimostra la sua cangiante flessibilità ed un’abilità non comune anche sugli accidentati percorsi armolodici, a differenza di «Mr. Arpo» che riporta atmosfere più vicine all’humus sonoro di Coltrane. «Flamingo» è un arabesco fluatato, in grado di incatenare le note della melodie con fare serpentino e con delle impennate ipermodali, che creano un incanto sonoro. «Tale» è un affresco pianistico con variazioni tematiche , improvvisazioni e soluzioni ritmiche assai innovative. «Explorable», dal titolo didascalico, indirizza subito verso un’esplorazione sonora multistrato con elementi che si sovrappongono tra passato e futuro, in un’andirivieni di suoni molteplici: un vetrina per tutti i sodali. «Jazz (Now) In Italy», con Dino Piana al trombone, Franco D’Andrea al pianoforte, Giovanni Tommaso al contrabbasso e Franco Tonani alla batteria, rimane probabilmente il disco più riuscito della sua variegata attività, sostanziandosi come una terra di confine fra un bop evoluto, e un tentativo di involarsi su un territorio di caccia free form a controllo numerico. Registrato a Milano «Jazz (Now) In Italy» è un capito importante nella spesso scialba storia del jazz italico di quegli anni.

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