// di Irma Sanders //

Dave Liebman Quartet – «Setting The Standard», 1992

Una scelta ben precisa ed una mossa molto azzeccata della Red Records quella di far confrontare Dave Liebman, musicista in genere più trasversale, con una manciata di standards riferibili al Miles Davis del quintetto anni ’50. La scelta del sax soprano come strumento guida generò una sorta di inattesa reinvenzione di motivi classici e conosciuti dalla moltitudine, attraverso un metodologia espressiva ed una serie di arrangiamenti che, pur nella linearità di un mainstream in pronta consegna, ne preservano una qualità dai tratti raffinati.

Il suo soprano, che ricorda uno Steve Lacy molto ispirato, sembra far dimenticare l’idea della rivisitazione di materiale di repertorio, a tutto vantaggio di sonorità post-moderne provenienti da un locale jazz alla moda in una notte metropolitana degli anni ’90, e solo in parte ricordano le melodie originali. Non c’è però stravolgimento, ma solo rivitalizzazione dei contenuti e riadattamento ad una dimensione più contemporanea. Ascoltando i dischi di Sinatra o Sonny Stitt, le revisioni di Dave Liebman si rivelano sorprendenti e rinfrescanti. La sezione ritmica di livello mondiale, Mulgrew Miller al piano, Rufus Reid al basso e Victor Lewis alla batteria risulta straordinariamente reattiva ed empatica, sia che segua il leader attraverso movimenti dai tempi mutevoli, sia quando ne alimenta il calore e l’ispirazione. Il swing è più attenuato e diretto rispetto alle partiture originali, ma è proprio il superamento e l’abbandono del metro normale e prevedibile, nonché l’alterazione della struttura melodico-armonica che si rivelano come una scossa emotiva che avvince l’ascoltatore, il quale ha come la sensazione di percepire nuove ed inedite vibrazioni in un contesto che risulta del tutto familiare.

La traccia più avvincente, che da sola vale il prezzo della corsa, è senza tema di smentita «Grand Central Station» di Coltrane, una composizione difficilmente qualificabile come standard o ascrivibile al Great American Songbook. Il romanticismo sgorga copioso dalle note di «I’m Fool To Want You», che solletica le orecchie, offrendo l’esatta misura della vaglia del quartetto anche in modalità ballata; lo stesso Miller si concede lo spazio ed il tempo riservato ad un vero leader. «Setting The Standard», registrato nel maggio del 1992 in Pensylvania al Red Rock Studio, è un album che si cimenta con un repertorio, apparentemente facile e vincente, ma che non ammette trucchi e facili scorciatoie: il paragone con gli «attori« del passato potrebbe diventare insidioso ed inficiante, ma le doti tecniche del quartetto e soprattutto le peculiarità del leader nell’uso del sax soprano, allontanano qualunque tentativo superficiale ed inopportuno di liquidare la pratica come un’operazione nostalgia; al contrario il «nuovo» costrutto sonoro risulta potenziato ed attualizzato, fugando ogni idea di deja-vu, tanto da poter essere consigliato anche ai jazzofili dal palato più esigente e ricercato. Spettacolare risulta la qualità audio della stampa italiana.

Dave Liebman Trio – «Play The Music Of Cole Porter», 1992

Misurarsi con il repertorio di Cole Porter, nella lunga storia del jazz moderno, è stata un’operazione alquanto frequente, ma spesso ripetitiva e stucchevole, quasi un esercizio di stile. Al contrario, «Play The Music Of Cole Porter» di Dave Liebman è una vera rilettura in chiave post-moderna, priva di orpelli, ridondanze e barocchismi di alcune classiche melodie. Il primo pensiero potrebbe correre al Coltrane di «My Favourite Things», ma la bravura di Liebman al sax soprano, non solo gode di caratteristiche di unicità, soprattutto la padronanza su questo strumento lo colloca, forse, sul gradino più alto dell’empireo sonoro, quale diretta emanazione della suprema divinità del jazz, affrancandolo da qualunque paragone stilistico o espressivo.

Le atmosfere del disco possono rimandare solo per assonanza a taluni precedenti, ma il lavoro di Liebman su queste strutture compositive è talmente certosino e ricercato, da rendere irriconoscibili e pronti a nuova vita, motivi che il mondo intero aveva già canticchiato e ballato in tutte le forme possibili, come, ad esempio «Begin The Begine» o «I’ve Got You Under My Skin», le quali avano, però, esaurito il loro corso, salvo sembrare dei piccoli paesaggi sbiaditi nella nostalgica mente dei laudatores temporis acti. Brani come «Dream Dancing» o «Ridin’ High» appaiono, a tratti irriconoscibili, trasportati su un insolito territorio espositivo, attraverso una sorta di restauro strutturale e migliorativo, inteso come opera di rivalutazione e di accettazione all’interno di un contesto jazzistico più contemporaneo. «True Love» e «In The Still of The Night», decontestualizzate dalla ridondante e svenevole dimensione orchestrale, diventano attualissime punte di diamente, pronte a nuove sfide. Registrato al Red Rock Recording Studio, in Pennsylvania, nell’autunno del 1988, «Play The Music Of Cole Porter», alla medesima stregua di tutti i dischi realizzati da Liebman e dintorni sotto l’egida della Red Records, diventano oggetti di culto, prodotti non per sintesi, ma per analogia. Parliamo di esempi di alta scuola jazz, dove il passato remoto e recente o il contenuto, sia pur appartenuto ad altri, fungono semplicemente da forte stimolo all’inventiva di un musicista che non interpreta semplicemente e, quando non compone, ricompone secondo una modalità unica ed inimitabile, sospinta da un perenne mutatis mutandis.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *