// di Francesco Cataldo Verrina //

Di fronte ad un album come «Into The Hot», dopo averne approfondito la genesi, è difficile non porsi la domanda come mai un lavoro, almeno in parte di Cecil Taylor, musicista d’avanguardia, venne attribuito alla Gil Evans Orchestra. Per comprendere le motivazioni bisogna fare un salto indietro. Mentre questa sessione era ancora in predicato, l’allora responsabile della Impulse!, Creed Taylor, colui che l’aveva pianificata, era in procinto di passare alla Verve Records. Alla Impulse! avevano comunque preparato la cover-art di «Into The Hot», destinata ad essere il follow-up di «Out Of The Cool», ma il canadese decise di trattare il progetto solo come un obbligo contrattuale; così mentre Creed Taylor era distratto dal suo imminente passaggio alla concorrenza, il disco fu realizzato con modalità diverse dal precedente.

Anziché riunire in studio la big band e fornire loro delle composizioni da eseguire, Evans convocò solo il suo trombettista John Carisi dandogli l’incarico di scrivere tre brani, contemporaneamente contattò il pianista Cecil Taylor chiedendogli di fare altrettanto. Il risultato fu un album musicalmente originale, ma sconcertante per la formula ibrida adottata. A conti fatti, non fu né un lavoro di Cecil Taylor e né di Gil Evans, a cui venne comunque attribuita la paternità. Secondo quanto raccontato da Carisi, il ruolo svolto da Evans fu quello di andare a prendere i panini all’ora di pranzo. Il trombettista racconta che «Evans si sedeva nella cabina di regia, e chiedeva solo che certe cose venissero suonate di nuovo o in maniera diversa, ma non aggiunse o scrisse una nota». Gil Evans campeggia sulla foto di copertina ma le sei tracce furono eseguite dalla John Carisi Orchestra rappresentata da Clark Terry, Bob Brookmeyer, Doc Severinsen, Phil Woods, Harvey Phillips, Art Davis, Eddie Costa e Barry Galbraith e dalla Cecil Taylor Unit che includeva Archie Shepp, Jimmy Lyons, Henry Grimes e Sunny Murray, con l’aggiunta di Ted Curson e Roswell Rudd in un brano.

Il risultato fu un disco schizofrenico concepito da due formazioni totalmente diverse: Carisi tracce A1, A3, B2 e Taylor A2, B1, B3. Il disco manca di coesione: le tracce a firma Carisi sono molto lineari, strette, trattenute e vicine ad un malcelato tentativo di third stream; quelle di Taylor, sebbene risultino più dinamiche, sono assai distanti dalla sua prorompente forza creativa votata alle avanguardie e si muovono tra un free jazz appena accennato ed un hard bop alquanto scolastico. Il fascino principale di questo album nasce proprio dell’alternanza dei due moduli espressivi, che riescono a creare una specie di concepimento a strattoni, in grado di mantenere l’ascoltatore sempre allo stato di veglia attraverso passaggi bruschi e repentini. Le composizioni e gli arrangiamenti del sottovalutato Carisi, si ponevano generalmente a metà strada tra Gil Evans e George Russell. Nelle note di copertina di «Into The Hot», Nat Hentoff sottolinea il coinvolgimento di Carisi in «Birth Of The Cool» di Miles Davis, per il quale aveva scritto «Israel», in seguito diventato uno standard. Carisi non aveva simpatia per le catalogazioni, tanto che una volta disse: «Se avete bisogno di una definizione per descrivere ciò che compongo, potete semplicemente chiamarla musica americana». Dal canto suo Gil Evans dichiarò: «Tutto quello che posso dire di Cecil come pianista e compositore», è che quando lo ascolto godo profondamente, perché il suo approccio compositivo è sempre pieno di idee e di dettagli. Ha così tanto da offrire. È un mago capace di esaudire ogni richiesta». L’approccio di Taylor alla tastiera era stato descritto come «ottantotto tamburi accordati» a causa della sua abitudine a battere sui tasti, in maniera aggressiva e fisica, facendo uso di cluster (note a grappolo) e poliritmia. Le sue composizioni erano più elaborate di quelle di Carisi. In «Into The Hot», il pianista innesca un’improvvisazione collettiva, che trae ispirazione dai suoi assalti alla tastiera.

L’album si apre con «Moon Taj» di Carisi, una ballata lunatica alimentata dall’atmosfera sorniona rilasciata dalla tromba. La melodia è spaziosa ed intervallata, al punto da consentire alle varie voci strumentali, che spuntano qua e là come uno scampanellio, di fondersi e muoversi con un andamento swing, mentre il piano di Costa cavalca l’onda crescente dei fiati per poi riconsegnare la staffetta alla tromba di Carisi che procede lentamente fino alla dissolvenza. «Pots» è un’incursione up-tempo dove i fiati conversano con l’incisivo piano di Taylor. L’assolo del pianista è seguito a ruota da quello di Shepp al sax tenore, mentre l’arrivo della batteria determina un completo cambiamento di umore ed una lenta interazione tra i fiati. Siamo ancora sul piano inclinato del jazz mainstream, che segue la regola aurea della musica d’avanguardia: ascolto reciproco, botta e risposta. «Angkor Wat» si materializza come un vivace swing caratterizzato da continui dialoghi tra le diverse sezione della band che sviluppa assoli a ripetizione; eccellente lo scambio merce al mercato del blues tra il piano di Eddie Costa e la chitarra di Barry Galbraith, mentre fra i due contraenti s’inserisce, quasi con impertinenza, il sax alto di Gene Quill. «Bulbs» è una sorta di talker, dove i fiati sembrano parlottare tra di loro, a volte con rabbia, altre con galanteria, per poi adattarsi al guizzo pianistico. Taylor alza il ritmo con linee sparse ai quattro venti e fitti cluster di note. Il primo a farsi avanti è il sax alto di Jimmy Lyons che salta fluttuando tra gli anfratti pianistici alla guida di tutti gli altri ottoni. La conclusione è affidata ad Archie Shepp che, con un assolo ruvido ed aggressivo, fissa le coordinate dell’interplay tra il pianoforte ed il resto del line-up.

La chitarra di Galbraith introduce «Barry’s Tune» continuando con un assolo reiterato sul sottofondo punteggiato e swingante fornito dai sodali. L’eccitazione collettiva è alimentata dalla tromba di Carisi, magnificata dal contrasto e dai veloci riff degli altri ottoni; sul finale Galbraith riconquista la scena fino ad esaurimento scorte. L’unico brano in cui sono presenti Ted Curson e Roswell Rudd, anche se non fanno assoli, è «Mixed» che inizia spargendo zucchero filato con il tenore di Shepp accompagnato da un morigerato Taylor, forse memore dei suoi studi classici. Il cambiamento d’umore è brusco ed improvviso con Lyons e Shepp che s’inseguono su una frenetica e ripetitiva frase alimentata dal piano di Taylor. Sono molti anche i cambi di tempo con un rallentamento verso la fine, quando Taylor sembra produrre un lieve tintinnio con i tasti mentre i fiati ululano alla luna come lupi innamorati. Dopo il capolavoro del 1961, «Out Of The Cool», tutti si aspettavano che il il compositore canadese proponesse un sequel, quale ulteriore sviluppo delle stesse tematiche, ma così non avvenne. «Into The Hot», registrato il 14 settembre, il 6, il 10 ed il 31 ottobre 1961 al Van Gelder Studio, diede visibilità ad altri due musicisti/compositori: John Carisi poco conosciuto e Cecil Taylor, che tutto avrebbe potuto essere, tranne che un compagno di giochi adatto al trombettista, ma che insieme agevolarono soprattutto la risoluzione contrattuale tra Gil Evans e la Impulse! Records. Il successivo album del compositore canadese, «The Individualism of Gil Evans», uscirà nel 1964 per la Verve del fuggitivo Creed Taylor, intenzionato a strappare i pezzi migliori alla sua vecchia etichetta.

Miles Davis & Gil Evans

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