// di Francesco Cataldo Verrina //

Stan Getz – «West Coast Jazz» / «The Steamer», 1955 (Norgran Records)

Il suo vero nome era Stanley Gayetsky, detto Stan Getz. Per un paradosso questo raffinato sassofonista fu da molti considerato come uno degli alfieri del jazz californiano, ma era nato nell’Est degli Stati Uniti, esattamente a Filadelfia da genitori ebrei di origine Ucraina. Forse senza l’abbreviazione il suo nome sarebbe stato più difficile da ricordare e pronunciare. Invece questo nomignolo tagliente, Stan Getz, divenne quasi un suono onomatopeico che si legò con la vita e la carriera di un musicista di eccelso talento, ma in parte sfortunato, nonostante la sua naturale blackness di «negromante» bianco. Rispetto a molti artisti di colore, Stan aveva fatto studi regolari, il suo approccio con il sassofono era quasi classicheggiante, sembrava volesse tenere sempre un atteggiamento distaccato e tranquillo, nonostante la sua musica emanasse un piacevole calore «umano», innescando una forte intensità emotiva.

In alcuni momenti, quelli più soffusi dove Getz riesciva meglio, il tono del suo sax tenore appariva simile alla voce di una amante intenta a sussurrare parole di miele. In verità, Stan Getz tentò sempre di muoversi nel solco di Lester Young, cercando di ottenere dallo strumento un fraseggio preciso e levigato, pacato ma intenso. Nonostante la salda apparenza di uomo tutto d’un pezzo, la sua fu una carriera assai movimentata, anche con qualche eccesso legato all’uso di sostanze stupefacenti: nel 1958 dovette rifugiarsi in Danimarca, dove peraltro aveva una certa notorietà, cercando di sfuggire alla legge americana che lo perseguiva per consumo di droga e tasse non pagate. Al suo ritorno, dopo tre anni, si rese conto di essere stato quasi dimenticato. Gli attori sul palcoscenico del jazz si susseguivano continuamente e la scena era in perenne evoluzione; dunque altri tenori si erano imposti all’attenzione di pubblico e critica, in particolare Sonny Rollins e John Coltrane; soprattutto l’affermazione del movimento hard bop, le avvisaglie dell’avanguardia e del free jazz con Ornette Coleman facevano apparire il melanconico cool jazz di Stan Getz, qualcosa di vecchio, stantio e superato.

L’improvvisazione forzata e la rottura degli schemi tradizionali stavano diventando il verbo del nuovo jazz, in alternativa la contaminazione. Stan Getz scelse questa seconda strada, avvicinandosi ad uno stile, probabilmente, più congeniale alle sue corde, un genere armonicamente rilassato e senza eccessi, ossia la musica popolare brasiliana. In questo ambito produsse alcuni dei suoi capolavori, che lo allontanarono dal jazz più ortodosso. Dischi di successo come «Jazz Samba» del 1962 o «Getz/Gilberto» del 1964, milioni di copie vendute e la vincita di tre Grammy Awards, oscurarono la prima parte della sua discografia, laddove invece va cercato il vero Stan Getz. Lo Stan Getz delle due sessioni in oggetto, del 1955 e del 1956, stava emergendo da una serie di tragedie personali. A partire dal febbraio 1954, trascorse sei mesi in carcere per possesso illegale di droga, nonostante da tutti i rapporti emergesse il fatto che per la prima volta ne fosse completamente fuori. Nel febbraio 1955, la moglie Beverly stava viaggiando da Los Angeles a Kansas City per raggiungere il marito, quando fu coinvolta in un grave incidente automobilistico, in cui perse la vita uno dei figli. Scosso da questi eventi, Getz cercò di mettere ordine nella sua vita.

Le due sessioni trattate furono parte di quel processo. «The Steamer» dello Stan Getz Quartet del 1956, oltre ad essere uno dei più riusciti della sua discografia, relativa al periodo antecedente il soggiorno europeo, è anche uno dei pochi album di quegli anni insieme al primo «West Coast Jazz» del 1955, in cui Getz è veramente protagonista e band-leader, senza dover condividere la torta con nessuno. Diversamente avvenne in «Hamp and Getz» del 1955 con Lionel Hampton e «Diz and Getz» sempre del 1955, realizzato in comproprietà con Dizzy Gillespie, per non parlare di altri incontri successivi come «Stan Getz And The Oscar Peterson Trio», «Getz Meets Mulligan In Hi-Fi» entrambi del 1957 e «Stan Meets Chet» con Chet Baker del 1958. Sembrerebbe che San Getz non abbia mai fatto nulla di eclatante, se non al fianco di un suo pari per fama ed importanza, perfino il suo capolavoro, almeno commerciale, «Getz/Gilberto», nasce da una collaborazione.

Nell’anno del Signore 1955, la differenza tra il jazz della costa Est e quello della costa Ovest degli USA era un tema assai dibattuto, con i critici e i sostenitori disposti su due schiere come gli Orazi e i Curiazi. Il titolo di questo disco, «West Coast Jazz», sembrerebbe un gioco del destino, considerando che tutti i musicisti coinvolti provenivano originariamente dalla costa orientale e non erano forieri esclusivamente di uno stile rilassato, commercialmente redditizio, come il cool. Stan Getz si trovava in California per prendere parte al film «Benny Goodman Story». Nella terra del sole si esibì per una settimana di concerti alla Zardi di Hollywood. La band era composta da una valida sezione ritmica, ossia Lou Levy al piano, Leroy Vinnegar al basso, Shelly Manne alla batteria, insieme ad un solista d’eccezione, Conte Candoli, alla tromba. Questi musicisti erano entrati immediatamente in sintonia con Getz, incrociandosi diverse volte ed in varie situazioni. La scaletta dei concerti funzionò molto, quindi Getz fu ingaggiato e portato in studio per registrare «West Coast Jazz», che divenne una sorta di simbolo del genere californiano. In verità lo è parzialmente, o forse solo nel nome, «jazz della West Coast», rispetto a quello che era lo stile ortodosso dell’epoca. I musicisti coinvolti avevano tutti un background bebop, quindi la rapida interazione del gruppo sviluppa un bop fatto di bombe di note a grappoli ed assoli energizzanti. Tutto ciò è molto evidente ed accentuato in «Shine» e «A Night In Tunisia» di Dizzy Gillespie, dove anche lo stesso Getz sembra affrettare il passo più del solito, stimolato dall’ottima tromba di Conte Candoli, da un piano che batte cassa ed una sezione ritmica che gli offre l’assist.

Gli elementi più prossimi al concetto di «West Coast Jazz» sono presenti in due ballate, «Four» e la classica «Summertime», dove Stan sfodera il suo fraseggio ricamato e carezzevole. «East Of The Sun» e «Suddenly It’s Spring» sono un’ibridazione fra le due scuole di pensiero, ma è il sax tenore di Stan Getz che allarga il fraseggio e spazia, giocando su una gamma di accordi regolari e disegnando una melodia con una limpidezza degna di Lester Young. L’album contiene solo sei tracce, ma la Verve Master Edition possiede diverse take alternative di queste sessioni, pubblicate in edizioni varie. Sebbene i due set siano stati registrati a distanza di pochi mesi, il tono di Getz risulta notevolmente diverso. «The Steamer», è un album straordinario. Il brano di apertura «Blues For Mary Jane» (che nel jazz indicava la marijuana) mostra uno Getz più evoluto e dal suono più luminoso ed aperto, ma ancora sotto l’influenza di Lester Young. Levy gioca con autorità, sembra pieno di idee e non ha paura di esprimerle. Vinnegar, solido bassista con piedi piantati per terra, concentra tutta la propria forza in un breve assolo; Getz appare incredibilmente rilassato con l’intera partitura sotto controllo, pur riuscendo a swingare con impeto. In altre parole, qui sono già presenti in nuce tutti quei germi seminali che lo spingeranno alle sue avventure in bossa nova del decennio successivo.

La traccia più lunga in questa sessione è «There’ll Never Be Another You», dove Getz si aggiudica la parte introduttiva con un solido inserto, dopodiché volteggia attorno alla melodia, dimostrando una tecnica magistrale ed ispirate, soprattutto nelle varianti melodiche. Levy ricama con spavalderia un assolo prolungato e ricco di espressività, seguito da un cortese scambio di favori in otto battute tra la batteria ed il sassofono, quindi basso e batteria si tengono per mano lungo un breve tragitto, fino a quando Stan non suggella la composizione con un attrattivo giro melodico. «You’re Blasé», un componimento raramente eseguito, scritto da Ord Hamilton e Bruce Sievier, il quale diventa il palcoscenico ideale per Getz, Parliamo di una flessuosa ballata in cui il sassofonista affina le sue idee, distillando barili di melassa. «Too Close For Comfort» si srotola attraverso una delle melodie più ruffiane dell’album dove Getz, con corti, nitidi e precisi fraseggi, rifà ancora il verso a Lester Young, mentre l’intera sezione ritmica gli regge il gioco. «Like Someone in Love» combina un ritmo piacevole con il calore naturale del tenorista. Ascoltando attentamente questi set, si ha davvero l’impressione che l’accoppiata tra il bassista Leroy Vinnegar ed il batterista Stan Levey sia stata una delle più riuscite ed efficaci sezioni ritmiche della storia del jazz; a loro due vanno molti dei meriti di questo album. Donald L. Maggin nella biografia di Stan Getz dal titolo «Stan Getz, A Life In Music» riporta questa dichiarazione del sassofonista: «La mia vita è musica. La felicità per me è solo un sottoprodotto di questo costante raggiungimento e rimodellamento».

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