// di Francesco Cataldo Verrina //

Art Ensembe Of Chicago non sono un fenomeno di facile metabolizzazione per la moltitudine. Tanti cultori del jazz li trovano difficili, ostici, ma vanno ascoltati con attenzione e valutati, tenendo conto del periodo e del contesto. Partiamo dal concetto che sono stati il free del free, la destrutturazione dalla non regola, già non scritta, a cui sottrassero perfino l’ordine cronologico della narrazione sonora. Nei loro dischi non c’è sintassi, parlano un lingua senza regole grammaticali, ma può essere comprensibile se la si valuta come una sorta di esperanto musicale, privo di consecutio temporis, ma ricco di stimolazioni sonore e pulsazioni ritmiche, inclusive di forme molteplici: dagli elementi afro-tribali ad alcune forme colte di melodia antica, ma purgata ed affogata in un flusso ritmico-armonico distonico e dissonante. Nei loro album non c’è mai composizione, ma solo scomposizione: nuda essenza di un jazz primordiale, ma già oltre il concetto di contemporaneità; il suono che nasce e rinasce, perpetuandosi per partenogenesi con il cordone ombelicale sempre legato alla Grande Madre Africa.

Il sassofonista Roscoe Mitchell, membro dell’Associazione no-profit dell’Illinois per l’Avanzamento dei Musicisti Creativi, finalizzata a catalizzare nuovi fermenti musicali all’interno della comunità nera di Chicago, nel 1968, dopo aver lavorato con gruppi marginali coagulò intorno a sé un’ottima formazione: lui stesso (naturalmente), il bassista Malachi Flavors, il trombettista Lester Bowie e il sassofonista Joseph Jarman. Inizialmente il gruppo era conosciuto come Roscoe Mitchell’s Art Ensemble, con cui il sassofonista registrò un paio dischi dando l’abbrivio a quello che sarebbe diventato il suono dell’AACM. La band di Mitchell assunse il nome definitivo, Art Ensemble of Chicago, solo con l’arrivo in Francia nel 1969. «A Jackson In Your House» (Jackson era il gatto di Roscoe Mitchel) fu registrato il 23 giugno 1969 a Parigi per l’etichetta BYG e prima che il percussionista Famoudou Don Moye si unisse a loro. L’album si snoda su un costrutto musicale fatto di improvvisazione libera, una significativa influenza teatrale, contrappunto e riferimenti alla musica classica europea moderna con il tentativo di integrare la matrice africana nel tessuto connettivo del loro suono.

La combinazione di tali elementi conferì un tratto distintivo all’Art Ensemble rispetto a tutti gli altri musicisti o gruppi free-oriented dell’epoca, addirittura con un elemento in più: l’impiego di un sottile umorismo vaudevilliano, a volte rappresentato sotto forma di strane sezioni parlate o di sketch rozzi, conferiva ai loro pezzi una leggerezza non identificabile nell’espressionismo ultra-serio di taluni coevi come Albert Ayler e Pharoah Sanders. L’opener dell’album è affidato alla title-track che evidenzia alcuni punti di forza dell’Art Ensemble, anche se in forma un po’ tentacolare: capriccio finto-teatrale, forme classiche di jazz e perfino qualche velata forma di world music. In «Get In Line» il gruppo si affida ancora all’ironia, trasformando il procedimento in una marcia burlesca mentre qualcuno urla il titolo del brano. A questo punto iniziano quattro minuti di caos assoluto: i sassofonisti si scatenano come guerrieri macedoni con le armi in pugno, Malachi Flavors spreme il basso senza freni inibitori, mentre le percussioni sembrano perdere il controllo. L’improvviso suono di un gong richiama tutti all’ordine, come un’incursione della buon costume in una acid-party non autorizzato. «The Waltz» è un’ inversione di rotta: un valzer molto breve, poco più di un minuto, che mette in evidenza la disinvoltura dell’ensemble alle prese con arrangiamenti più sobri ed un tipo di jazz più datato.

La seconda facciata dell’album ospita «Song for Charles», sicuramente il climax dell’intero lavoro, sia per qualità che per quantità: l’inizio sembra un’estensione della delicata poesia beat di Jarman, «Ericka», presente nella prima traccia ma si dissolve in un fraseggio libero e lirico dei fiati e del basso. L’entrata del vibrafono si trascina dietro Bowie e Mitchell che accennano ad una melodia di cinque note molto enfatica, ma il momento di lucidità è assai breve: l’improvvisazione di gruppo inizia rapidamente e in piena modalità esplorativa. L’intera session sembra il risultato di un impressionismo astratto, a volte dissonante e distorta, altre volte fredda, specialmente durante il soliloquio di Bowie intorno al nono minuto. «A Jackson in Your House» nel complesso è inebriante ma tratti il feeling scompare e non sarà facile rimanere connessi, soprattutto per i jazzofili del fine settimana.

Art Ensemble of Chicago in San Francisco 1976

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