Emanuele Parrini con «Animal Farm»: un colonna sonora immaginaria come meditazione autonoma sul potere (Felmay Records, 2025)

0
dgpack NP0236 fy 7084.cdr

«Animal Farm» sancisce un concept di alta consapevolezza estetica e politica: una suite scomposta che, nel proprio fluire, rievoca il romanzo di Orwell ed al contempo instaura una meditazione autonoma sul potere. Parrini conferma l’innata visionarietà, tipica del tessitore di trame sonore votato nel convertire la pratica improvvisativa in una fucina in perenne divenire.

// di Francesco Cataldo Verrina //

La nuova pubblicazione di Emanuele Parrini per Felmay Records, «Animal Farm», si attesta nell’alveo di una ricerca musicale che da anni congiunge riflessione politica e sperimentazione sonora. L’ispirazione orwelliana non si riduce a semplice citazione letteraria, ma si traduce in un impianto compositivo che assume la forma di una suite frammentata, finalizzata ad alternare episodi scritti ad apporti di autori affini, delineando un percorso che oscilla tra una colonna sonora immaginaria e una meditazione autonoma sul potere.

La compagine, ampliata rispetto al quartetto storico, vede accanto al violino di Parrini il contrabbasso di Giovanni Maier e la batteria di Andrea Melani, sostenuti dal sax baritono e dai flauti di Piero Bittolo Bon, nonché dalla chitarra di Domenico Caliri. Tale estensione timbrica produce un ventaglio acustico più articolato, nel quale melodie asciutte si innestano su mutamenti repentini di atmosfera. La musica assume tratti spigolosi e oscuri, con momenti dolenti che si alternano a sezioni libere prive di scansione metrica: un equilibrio instabile che richiama la corrosività politica sottesa al romanzo di Orwell. Il percorso narrativo si dipana attraverso in capitoli. La scelta di includere pagine musicali di autori diversi non risponde a un intento antologico, ma piuttosto alla volontà di tessere un tessuto sonoro che renda evidente la pluralità delle voci e delle tradizioni. In tal senso, il blues delle radici e la musica popolare emergono come materiali tematici che dialogano con la grammatica del jazz, producendo una trama espressiva stratificata. La continuità con lavori precedenti risulta evidente: «Animal Farm» prosegue il discorso avviato con «1974 Io So, Damn If I Know», dove la poetica della New Thing e l’urgenza politica di Archie Shepp si fondevano con le suggestioni pasoliniane degli «Scritti corsari». Analogamente, i progetti con il Dinamitri Jazz Folklore («Congo Evidence», «Akendengue Suite») e la collaborazione con Amiri Baraka avevano già posto in relazione la musica improvvisata con la letteratura militante. Parrini conferma così la sua vocazione di regista armonico, capace di far dialogare linguaggi diversi e di trasformare la pagina musicale in spazio di riflessione civile. Dal punto di vista tecnico, il violino di Parrini si muove con consapevolezza tra colore sonoro e sintesi tematica, ora delineando geometrie timbriche di forte tensione, ora lasciando emergere un profilo fonico più lirico. Il resto della compagine non si attiene al mero accompagnamento, ma si propone sulla corta di una prassi procedurale che rimanda a pratiche polifoniche ed a logiche di contrappunto.

Il primo episodio sonoro, «Antropofobia / Animal Farm #1», dopo una lunga intro quasi sotterranea, si srotola come un flusso esteso, oltre i diciassette minuti, nel quale il violino di Parrini apre un campo espressivo intricato, sostenuto da contrabbasso e batteria che implementano una intelaiatura ritmica irregolare; l’ingresso del sax baritono e dei flauti diffonde un colore fonico che accentua la frizione, mentre la chitarra di Caliri interviene con figure spezzate, lasciando germinare un tessuto armonico propedeutico all’improvvisazione collettiva, mentre la lunghezza del componimento consente di percepire una progressione narrativa che alterna momenti di densità polifonica e spazi rarefatti, in bilico tra ordine e disgregazione. In «Animal Farm #2 / My Friend Who Looks Like A Ghost» il modus operandi assume un carattere più conciso: la composizione di Silvia Bolognesi delinea un habitat acustico che gioca sull’ambiguità tra presenza e assenza, con linee melodiche che sembrano dissolversi nell’aria; il violino si muove con un fraseggio lirico, mentre il flauto basso alimenta la dimensione spettrale evocata dal titolo, mentre la retroguardia, pur mantenendo un ruolo di supporto, inserisce accenti irregolari che destabilizzano la percezione metrica, decretando un groove irrequieto che amplifica la suggestione. Il terzo capitolo, «Animal Farm #3», si distingue per la costruzione modulare: frammenti tematici vengono ripresi e traslati, producendo un disegno accordale che alterna tensione e rilascio; la chitarra di Caliri pennella figure contrappuntistiche che dialogano con il violino, mentre il sax baritono rimarca l’aura drammatica con registri gravi e incisivi, mentre l’ordito armonico si evolve come un opificio di forme, dove la libertà improvvisativa si innesta su nuclei tematici riconoscibili generando un continuo gioco di rimandi. «Patchouli» di Beppe Scardino si caratterizza per un fisionomia acustica più luminosa: i flauti introducono una velatura acustica che contrasta con le sonorità scure dei capitoli precedenti, la batteria di Melani lavora su pattern sottili quasi ornamentali, mentre il contrabbasso disegna linee di sostegno che mantengono la coesione interna, e il violino interviene con un fraseggio più cantabile delineando un’atmosfera che, pur conservando tratti di asperità, apre a una dimensione contemplativa.

«Song For Romero» assume un tono elegiaco: il violino articola un canto intenso sostenuto da un contrabbasso che accentua la gravità del discorso sonoro, la batteria lavora su dinamiche contenute creando un tessuto che lascia emergere la forza espressiva delle linee melodiche, mentre l’intervento degli strumenti a fiato amplifica la dimensione corale trasformando la composizione in una meditazione collettiva sulla memoria e sulla resistenza. Con «Azure» il riferimento a Duke Ellington introduce un legame con la tradizione afroamericana: la rilettura di Parrini e del suo ensemble non si limita a riproporre il materiale originario, bensì lo trasforma mediante un lavoro di stratificazione timbrica; il violino assume un ruolo di guida, mentre la chitarra e i fiati inseriscono contrappunti che arricchiscono la fisionomia del suono, e la sezione ritmica, pur rispettando la logica ellingtoniana, introduce variazioni che spostano l’asse verso una dimensione più libera rendendo la pagina un ponte tra memoria storica e contemporaneità. Infine «Animal Farm #5», capitolo conclusivo di durata più contenuta, concentra in pochi minuti la tensione accumulata nel corso dell’opera: il violino si muove con incisività, mentre la chitarra e il sax baritono creano un tessuto serrato, la batteria accentua la dimensione percussiva producendo un finale che non cerca risoluzione bensì lascia aperta la riflessione, e la brevità diventa scelta formale capace di condensare in uno spazio ridotto la forza espressiva di un intero percorso. «Animal Farm» sancisce un concept di alta consapevolezza estetica e politica: una suite scomposta che, nel proprio fluire, rievoca il romanzo di Orwell ed al contempo instaura una meditazione autonoma sul potere. Parrini conferma quell’innata visionarietà, tipica del tessitore di trame sonore votato nel convertire la pratica improvvisativa in una fucina in perenne divenire.

Parrini Quintet
0 Condivisioni

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *