«Seasons (Three Suites For Piano Trio)» di Michele Francesconi: la ciclicità come principio estetico (Caligola Records, 2025)

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Un’opera che trascende la semplice raccolta di composizioni, divenendo un manifesto di dialogo tra personalità artistiche affini ma eterogenee, un esempio di come la tradizione jazzistica possa aprirsi a forme di scrittura condivisa e ad un’idea che, pur ispirata alle stagioni naturali, si traduce in un percorso di rinnovamento e metamorfosi musicale.

// di Francesco Cataldo Verrina //

«Seasons (Three Suites For Piano Trio)» edito da Caligola Records sancisce un episodio singolare e di notevole interesse nella recente produzione jazzistica italiana. L’idea di Michele Francesconi, pianista faentino nato nel 1975, di affidare a tre sodali – Marco Ponchiroli, Stefano Travaglini e Luca Dell’Anna – la scrittura di altrettante suite ispirate al ciclo delle stagioni, costituisce un gesto di rara generosità intellettuale e di raffinata curiosità estetica. Tale scelta, lungi dall’essere un mero espediente collaborativo, si delinea come un vero e proprio esperimento di pluralità stilistica, successivamente ricondotta ad unità dalla sensibilità interpretativa di Francesconi, sostenuto da una sezione ritmica di notevole coesione ed inventiva, formata da Giulio Corini al contrabbasso e Luca Colussi alla batteria.

La suite di Ponchiroli, articolata in cinque movimenti privi di titoli ma contrassegnati da indicazioni di tempo, evoca un linguaggio che richiama la tradizione pre-romantica, con linee melodiche di limpida linearità che rimandano alla partitura mendelssohniana. L’assenza di titoli, sostituiti da mere indicazioni agogiche, accentua la dimensione astratta ed universale della musica, avvicinandola alla prassi accademica. «Allegro» inaugura con una brillantezza controllata: figurazioni di destra agili e trasparenti, sostenute da una sinistra che disegna cadenze di gusto classicheggiante senza compiacimenti rétro. La scansione metrica, nitida, permette al contrabbasso di innestare linee elastiche che deviano il senso della frase verso lievi contrappunti; la batteria, con piatti luminosi e rullante asciutto, scolpisce uno spazio che favorisce micro–accelerazioni e leggere rubature, tenendo vivo il respiro senza forzare la dinamica. «Moderato, Andante» piega l’eloquio verso una cantabilità sobria. Il pianoforte privilegia intervalli di terza e sesta, incastonati in armonie dal profilo terso; la densità cresce per addizione, non per accumulo, con frammenti melodici che rientrano come reminiscenze. Corini predilige un suono rotondo e un attacco morbido, mentre Colussi dosa tamburi e charleston per suggerire una pulsazione interiore, quasi cameristica, lasciando intravedere la possibilità di un rubato condiviso. «Choro» apporta una flessione stilistica con richiami al linguaggio luso–brasiliano: cellule sincopate, appoggiature scattanti e una scrittura che ama la simmetria imperfetta. Il pianoforte alterna blocchi accordali a passaggi imitativi tra le mani, creando una trama in cui il basso prende occasionalmente il ruolo cantabile. La batteria predilige il colore, con tocchi su piatti sottili e tamburi asciugati, ottenendo una circolarità pulsante che non scade mai nella prevedibilità. «Calmo» aderisce ad una poetica del silenzio condiviso. Gli intervalli ampi, l’uso delle risonanze ed una dinamica trattenuta danno vita ad un chiaroscuro intimo. La sintassi armonica indulge in infiorescenze modali, con accenti di quarta eccedente e accordi privi della fondamentale che creano sospensione senza ambiguità. Il contrabbasso interviene come voce interiore, con poche note necessarie; la batteria è più timbro che percussione, quasi una cornice d’aria. «Presto» chiude il percorso con energia lucida: incisi rapidi, accenti spostati, frammenti imitativi che si inseguono. La mano destra zingara tra figurazioni in terzine e ottavi puntati, mentre la sinistra stabilisce un ostinato agile su cui basso e batteria innestano una trama policentrica. Il gioco degli spostamenti metrici crea un climax netto ma mai aggressivo, consegnando una conclusione luminosa e tersa.

Travaglini, al contrario, opta per un cromatismo più cupo ed un tessuto armonico intricato, dove la densità timbrica e la complessità delle progressioni conferiscono alla sua suite un carattere quasi espressionista. «The Room Before» si apre come soglia, con accordi a distanza ravvicinata, cromatismi misurati ed un uso consapevole della risonanza del registro medio–grave. La linea del pianoforte non indulge nel nero, preferisce un chiaroscuro pensato, con cadenze che si allontanano dal prevedibile attraverso deviazioni intervallari. Il contrabbasso ricama pizzicati densi, talvolta con accenni appena sfiorati, mentre la batteria punteggia con colpi sottratti, suggerendo un battito che respira. «Migrations» privilegia la mobilità: motivi che si trasferiscono tra le voci, retroversioni discrete, cambi di centro tonale per slittamento. La trama ritmica appare malleabile, con stratificazioni che generano un senso di attraversamento. Il pianoforte adotta voicings talvolta quartali ed una gestione dell’overlap tra le mani che crea bagliori armonici; Corini e Colussi costruiscono una geografia pulsante che non si irrigidisce, mantenendo l’elasticità come principio. «The Sun Comes to Me» mette in gioco un lirismo che evita l’enfasi. La melodia, priva di ornamenti superflui, affiora da accordi trasparenti; piccoli ritardi cadenzali accrescono la luce della frase. La sezione ritmica arrotonda gli spigoli, offrendo un sostegno caldo e discreto. Il risultato produce una sensazione di chiarità espansa, con la tastiera che illumina senza abbagliare. «Skvala» introduce una ruvidità controllata: cellule ostinate, accenti obliqui, un uso del registro acuto come luogo di incandescenza. La scrittura rinuncia all’ornato per privilegiare la materia ritmica, che la batteria trasforma in paesaggio percussivo con rimbalzi sul bordo del rullante e splash calibrati. Il contrabbasso incide con poche note a lama, mentre il pianoforte impone un segno che resta, risolto in una chiusura asciutta.

Dell’Anna, infine, concepisce la propria architettura musicale come un itinerario attraverso i quattro elementi primordiali, offrendo un percorso che si muove tra evocazioni naturalistiche e simbolismi archetipici. «Fire» procede per zampilli e contrazioni: arpeggi spezzati, clusters addomesticati, dinamica che gioca sul contrasto tra espansione e ritiro. La batteria moltiplica scintille sui piatti, evitando lo spettacolo; il contrabbasso tiene un nocciolo caldo in registro medio. La tastiera definisce un campo di forze più che una melodia, con sovrapposizioni che generano attrito e luce. «Air» dilata lo spazio con figurazioni rarefatte ed intervalli ampi. La frase si muove leggera, mai evanescente, sostenuta da un battito che sfiora più che percuotere. La scelta di voicings aperti offre trasparenza; la sezione ritmica si fa complice mediante un gioco di sottrazione, concedendo al pianoforte un orizzonte limpido. «Water» scorre con continuità modulata: pattern ondulanti, legature generose, armonie che si rifrangono per moto interno. La batteria disegna correnti con tocchi spazzolati e laterali; il contrabbasso suggerisce mulinelli con brevi discese cromatiche. Il pianoforte preferisce la flessibilità all’urto, ottenendo una trama fluida che si rigenera di continuo. «Earth» radica e compatta. Accordature dense, registri medio–bassi valorizzati, pulsazione che accarezza il peso senza irrigidirlo. Il piano lavora su figure granitiche ammorbidite da risonanze; il contrabbasso diventa fondazione, la batteria incide il passo con economia di mezzi. La conclusione dà la sensazione di compimento, come se l’intero ciclo trovasse qui il proprio baricentro.

La continuità fra le tre suite dipende da una regia pianistica che seleziona, orienta e leviga. L’articolazione delle dinamiche, la cura delle transizioni e l’uso mirato della risonanza conferiscono identità unitaria pur nel cambio d’autore. Il lavoro di Francesconi, lungamente affinato attraverso prove di arrangiamento e l’inserimento di sezioni improvvisate, si rivela dunque un laboratorio di sintesi, nel quale le differenti poetiche trovano un terreno comune grazie alla sua capacità di mediazione stilistica. La registrazione di Artesuono, curata da Stefano Amerio, offre chiarezza e corpo: il pianoforte respira, il contrabbasso mantiene grana e profondità, la batteria conserva l’aria tra i piatti e il legno nei tamburi. Ne scaturisce un concept che convince per equilibrio tra idea e atto, tra scrittura e estemporaneità, con una poetica d’insieme che privilegia la misura e la luce del dettaglio. «Seasons (Three Suites For Piano Trio)» si promulga pertanto un’opera che trascende la semplice raccolta di composizioni, divenendo un manifesto di dialogo tra personalità artistiche affini ma eterogenee, un esempio di come la tradizione jazzistica possa aprirsi a forme di scrittura condivisa e ad un’idea che, pur ispirata alle stagioni naturali, si traduce in un percorso di rinnovamento e metamorfosi musicale. Un ciclo concepito con intelligenza formale e acume timbrico, nel quale il concetto di pluralità autoriale si annoda ad una prassi d’ensemble lucidissima. La narrazione musicale scorre senza cesure, benché i materiali provengano da penne diverse: si avverte un lavoro di limatura e cucitura che rende contiguo ciò che per natura tenderebbe a divergere. La mano di Michele Francesconi orchestra e plasma, mentre Giulio Corini e Luca Colussi trasfigurano la funzione ritmica in una grammatica di accenti, sospensioni e risonanze.

Michele Francesconi Trio

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